mercoledì 19 gennaio 2022

Le inaspettate origini del Vin Brulè...

Talvolta può succedere di credere che alcune proprie tradizioni,
ormai in uso e nella consuetudine da tempo immemore siano originarie del luogo e della regione in cui si vive, non sapendo magari che in altri lidi la stessa medesima usanza è li che è nata e che magari è molto più diffusa di quanto si possa ritenere. Questo vale per qualsiasi tradizione, ma questa realtà capita con frequenza maggiore se applicata nei piatti, nei manicaretti e nelle bevande di cui certe volte ci fregiamo del titolo di primogenitura. Tutto quello che riguarda la sfera della cucina e dei piatti tradizionali è molto soggetta a questa malfatta abitudine, scatenando la corsa di storici ed esperti del settore nello scovare documenti e manoscritti dove si attesti che lì in quel posto quella determinata ricetta si faceva prima che in ogni altro dove. Quello che è sicuro che una data su un foglio, pur antico che sia, non certifica affatto che in altri luoghi quel piatto o quella ricetta prima non fosse mai stata fatta. Figurarsi poi se in una terra di accesi campanilismi come la Garfagnana questo non accade... Senza scendere nel particolare (per l'amor di Dio !!!) questo principio si può applicare su squisitezze nostrane come il biroldo, la pasimata, i befanini, ogni paese ed ogni borgo garfagnino non esista infatti a rivendicarne l'appartenenza. Comunque sia per chiarire ancor meglio il concetto e per fare qualche esempio pratico che non tiri in ballo guerre di campanile possiamo portare a modello qualche prelibatezza nazionale. Gli spaghetti senza dubbio sono uno dei nostri piatti portabandiera, conditi con molteplici sughi, preparati in decine e decine di modi, eppure non sono italiani... Infatti per alcuni storici fu Marco Polo ad
introdurre gli spaghetti in Italia nel 1295, al suo ritorno dalla Cina e a quanto pare s
embra certo che il più antico piatto di spaghetti giunto fino a noi fu rinvenuto in una zona nel nord-ovest della Cina stessa e risalirebbe a circa 40.000 anni fa, ma sono spaghetti di miglio, infatti gli spaghetti cinesi, sebbene antichissimi, erano soprattutto a base di soia, il frumento non era  conosciuto. Che dire poi del pomodoro? Condimento principe dei suddetti spaghetti? Le regioni del sud Italia ne producono fra i migliori al mondo. Ciononostante, come ben si sa, il pomodoro è originario del Sudamerica occidentale. Portato nell’America centrale, fu messo a coltivazione dai Maya, i quali svilupparono il frutto nella forma più grande che conosciamo oggi. Fu qui che Hernán Cortés lo vide durante l’occupazione della regione, fra il 1519 ed il 1521. Dal Messico i semi giunsero in Spagna al seguito di coloni e missionari. L’Italia fu il primo paese europeo, dopo la Spagna, a conoscere il pomodoro, grazie agli stretti rapporti esistenti tra i Borbone e le famiglie regnanti dell’epoca e ai domini spagnoli su territorio italiano. Come questi casi narrati ne esistono molti altri e un caso simile riguarda una bevanda che alcuni credono garfagnina e che proprio in questo freddo inverno trova il suo maggior consumo... Signore e Signori ecco a voi le inaspettate origini del Vin Brulè. Innanzitutto cominciamo con il dire che se anche il Vin Brulè non ha niente a che fare con la Garfagnana, non
per questo non lo possiamo considerare a buon titolo anche una nostra tipica bevanda e pertanto merita come tutte le altre prelibatezze nostrane il suo degno articolo in questo blog. Fatta la doverosa premessa possiamo sicuramente affermare che il "brulè" è la bevanda tipica delle zone montane italiane e di tutta l'Europa continentale. Proprio per questa sua internazionalità, la sua è una storia che fa il giro del mondo. Ma partiamo dall'inizio. Le sue prime notizie scritte si hanno nell'antica Roma, è nel "De re coquinaria" che si ha per la prima volta nero su bianco la sua ricetta che risale nientepopodimeno che tra il I e il IV secolo a.C. Il vin brulè dagli antichi romani era chiamato il "conditum paradoxum" e Marco Gavio Apicio (lo scrittore del ricettario) ci dice che: "
siano versati in un vaso di bronzo un quarto di vino e due cucchiai di miele, in modo che, mentre il miele bolle, il vino diminuisca di volume. Scaldalo a fuoco lento di legna secca, gira il tutto con un bastoncino finché prenderà il bollore. Quando comincerà a salire trattienilo versando altro vino. Quando lo avrai tolto dal fuoco, sarà diminuito di volume. Una volta freddo fallo scaldare di
nuovo. Ripeti per altre due volte. Il giorno dopo lo schiumerai. Aggiungi allora 120 grammi di pepe, poco pistacchio, cannella e zafferano, cinque ossi arrostiti di datteri. Trita cinque datteri che dal giorno precedente avrai posti nel vino per farli ammorbidire. Fatto ciò versa due litri circa il vino giovane. La cottura sarà perfetta quando avrai consumato circa un chilo e mezzo di carbone”.
Insomma, a quanto pare la preparazione era un po' più complicata di come lo facciamo oggi e sicuramente con ingredienti diversi. La questione degli ingredienti in effetti è molto variabile e giustamente i prodotti da inserire nel vino differiscono da quello che la natura offre a un determinato territorio, infatti c'è chi mette pezzetti di mela, lo zenzero o il cardamomo. Fattostà che più i secoli andavano avanti e più la ricetta del vin brulè, così oggi come la conosciamo trova una sua versione simile alla nostra nel lontano medioevo. Come sempre i divulgatori "moderni" di queste preparazioni saranno i frati, sapienti conoscitori di spezie, e fu proprio durante questo periodo che questa bevanda raggiunse anche la Garfagnana. La valle è sempre stato terra di chiese, monasteri ed eremi e in quel remoto tempo le nostre strade pullulavano di umili fraticelli, che sulle origini del "vino conditum" avevano tutt'altra teoria e ci raccontavano una storia ben più diversa  da quella romana. Una storia che risalirebbe ai tempi del medico greco Ippocrate, ipotesi fra l'altro avvallata dal nome scelto per indicare il vin brulè di quell'epoca: "ipocras", ossia "manica d'Ippocrate". I frati scelsero di chiamarla così perchè in questo
modo vollero sottolineare le caratteristiche medicamentose della bevanda, efficace, così dicevano, per combattere le malattie stagionali: raffreddori e bronchiti. In sostanza possiamo però affermare che fino a quei tempi questa bevanda non conobbe una grossa diffusione, la sua vera "globalizzazione", a quanto pare, la dobbiamo agli svedesi che associarono la bevanda al periodo natalizio. Fu un "merchandaising" ante litteram se il vin brulè, o meglio "il glogg" (così che si chiama in Svezia) prese la via del successo, a fine 1800 furono infatti i vinattieri e gli speziali di quei luoghi che per aumentare un po' gli introiti si misero a dipingere delle bottiglie di "glogg" e le iniziarono a vendere ai mercatini natalizi. Fu così, in questo modo, che la fama di questa bevanda prese piede in tutti i luoghi di montagna di tutta Europa. In Germania così  diventò "il gluwhein", in Francia "il vin chaud", in Inghileterra e Stati Uniti "il mulled wine" e... in Italia perchè lo chiamiamo "Vin Brulè". "Brulè", letteralmente significa "bruciato". La parola deriva dal dialetto franco-valdostano, perciò tradotto in parole povere indica un "vino bruciato". La ricetta naturalmente non sto manco a dirvela, sicuramente la sapete meglio di me. Dosi, spezie e quale miglior vino usare, tutto dipende dai gusti che uno ha. Comunque sia niente è più
profumato di un vin brulè: quel vino bollito nel pentolone con cannella, bucce d'arancia, chiodi di garofano, zucchero, inebriano l'aria dei nostri paesi dal giorno dell'Immacolata fino alla fine del Carnevale.

Nessun commento:

Posta un commento