mercoledì 16 dicembre 2020

C'era una volta il pranzo di Natale in Garfagnana...

C'è poco da fare, sfido chiunque a negarlo... Quanto sarà
forzosamente allegro e fastidiosamente trito quel cenone di capodanno? Lenticchie inquinate di coriandoli e stelle filanti, trenini danzanti e chiassosi al ritmo del "Mio amico Charlie Brown", tappi che saltano per un bere smodato e senza freni, sono sinceramente diventati dei rituali obbligati e tediosi. Non vuoi mica mettere quel lungo pranzo natalizio, prolungato nei ritmi antichi di una digestione che non avrà mai fine !? E poi perchè solo pranzo? La cena della vigilia dove la mettiamo? Quella ha dei tempi un po' più accelerati, perchè (di solito) parte tardi e finisce un attimo prima della Messa di mezzanotte, alla quale si arriva frettolosamente e rigorosamente a piedi
(se si sta vicini alla chiesa), giusto giusto perchè il freddo della Santa Notte permetta ai "tordelli" ingeriti qualche ora prima di congelarsi nello stomaco.
Nonostante ciò, tutto questo sa tanto di tradizione, di familiare, una qualità in più che ha il Natale e che le altre feste non sanno dare. Si, perchè il Natale in Garfagnana vuol dire anche mangiare. Non accusatemi di blasfemia se vi dico che questi luculliani pranzi sono parte integrante della sacra celebrazione, anch'essi scandiscono ritmi e abitudini al pari della liturgia religiosa, per di più rientrano in quella sfera sacra che trova la sua apoteosi negli affetti della Casa, nel gusto di ritrovarsi, nel bicchiere portato in alto per riaffermare nuovamente un affetto, un'amicizia, un legame. Magari senza esagerare e ne tanto meno ostentare... difatti mi viene alla mente il pantagruelico pranzo di Natale del re inglese Giovanni Senzaterra, era il 1210: "... 24 barilotti di vino, 200 teste di maiale, 1000 galline, 100 libbre di cera, 50 libbre di pepe, 2 libbre di zafferano, 100 libbre di mandorle e diecimila
anguille salate..."
. La parsimonia non fu dalla sua nemmeno per il vescovo cattolico Riccardo di Swinfield e nel Natale del 1289 alla faccia della povera gente e della carità cristiana fece servire ai suoi quarantuno commensali tre pasti al giorno, nei giorni del 24, 25 e 26 dicembre che comprendevano due manzi, due vitelli, quattro cervi, quattro maiali, sessanta polli, otto pernici, due oche, pane e formaggio in quantità. Ma in Garfagnana non era così, purtroppo la povertà ci contraddistingueva anche in questo senso qui, rimaneva però il fatto che era proprio per questi giorni che si mangiavano le cose migliori, le cibarie che avevamo conservato e preparato proprio per le feste natalizie, insomma anche il più povero garfagnino per il giorno del Natale qualcosa di speciale avrebbe messo in tavola. Il concetto del pranzo di Natale in Garfagnana trova radici lontanissime. Tutto nacque nel lontano medioevo, in quel periodo storico i grandi teologi e gli intellettuali disquisivano profondamente sul mistero della nascita di Cristo, non certo il garfagnino privo d'istruzione che festeggiava
eventi più concreti e propiziatori come ad esempio la conclusione delle attività agricole. Natale arrivava infatti dopo l'ultimo raccolto dell'anno, nei campi allora non rimaneva un granchè da fare e, se non era necessario mantenere gli animali tutto l'inverno, era allora conveniente macellarli. La festività del Natale si unì così ad un bisogno utile e concreto che aveva il miserabile contadino e difatti con ogni probabilità il concetto di "cenone" di Natale proviene dall'associazione di queste due necessità. Anche i primi regali natalizi di cui si ha notizia rientravano nella sfera mangereccia. Quindi niente sciarpe chilometriche, niente guanti di lana e nemmeno variopinti maglioni con renne di Babbo Natale, si regalava del cibo. Difatti dai registri dell' Annona 
 di Lucca nel 1324 si ordinava ai funzionari statali di distribuire nel giorno di Natale una pagnotta e un piatto di carne ai contadini del castello di Castelnuovo, in più vi era la facoltà di concedersi un giorno di riposo... Ma gli anni e i secoli passano e si arriva ai Natali dei nostri nonni, quelli che
anche noi abbiamo vissuto, quelli in cui la mattina di quel santo giorno ci svegliava tardi e giù, ai piani bassi della casa si sentivano i tacchi frettolosi degli ospiti che arrivavano, in cucina c'era già qualcuno che lavorava da ore, il rumore della cappa accesa accompagnava il gorgoglio delle pentole al fuoco, insieme al tic tic dell'accensione del fornello e il chiedere -com'è di sale?-. Tutto questo faceva parte di un mondo magico e fatato e  che dire di poi di quei prelibati piatti? La nonna intanto ricordava i suoi pranzi di Natale ancora più lontani: 
"Mi ricordo che da piccola quando si avvicinava il Natale mia madre incominciava un po' di tempo prima a preparare qualcosa. Comprava lo zucchero e diceva -Questo lo useremo per il vino bollito- Poi preparava qualche bottiglia di liquore comprando gli estratti, poi la tradizionale bottiglia di rum non mancava mai, quella serviva per fare il ponce. Quelli erano tempi duri, non c'era niente, c'era solo miseria, però
per Natale non volevamo farci mancare niente. 
Io e miei fratelli non vedevamo l'ora di mangiare, quella sera la cena era costituita da piatti speciali: polenta e baccalà, cavolo nero e fagioli bianchi. Dopo cena era il momento più bello quando il babbo tirava fuori il torrone e tutti battevamo le mani per la gioia". Dall'altra parte allora subentrava la vecchia zia che non voleva essere da meno della nonna e allora anche lei si lasciava trasportare nei suoi ricordi di lontane cene della vigilia: "Arrivava la sera della vigilia di Natale, eravamo in tanti: i nonni, genitori, fratelli, zii e cugini e ci riunivamo festosi intorno alla tavola per la misera cena. A quel tempo non avevamo disponibilità economiche, e ciononostante in quella sera della vigilia i visi di tutti i familiari segnati dalla sofferenza e dagli stenti, si distendevano in gioiosi sorrisi e allegria, anche se a quel tempo la fame era tanta. In questa occasione la cucina era modesta, ma allo stesso tempo genuina. In quella sera si mangiavano verdure lessate, come cavolfiori e finocchi, poi pastellate e fritte, e per secondo l'immancabile baccalà con patate. Finita la cena la casa si riempiva di persone che abitavano nelle vicinanze, così da far diventare la serata festosa, chiassosa e gioiosa". Diciamo che storicamente parlando gli anni 50 del 1900 furono lo spartiacque fra questi vecchi natali della nonna e quelli dei moderni pranzi di
Natale, più opulenti e ricchi; da quegli anni in poi presero piede dei cenoni nel segno del consumismo odierno
, anche se ad onor del vero in Garfagnana siamo rimasti sempre legati alle tradizioni, alle ricette casalinghe a quei segreti della cucina che ogni massaia costudisce gelosamente. Cercare quindi un tipico pranzo di Natale garfagnino è difficilissimo, ogni famiglia cercava e cerca di portare in tavola qualcosa di speciale: crostini con fegatini di pollo, tordelli, lasagne, succulenti brodi di cappone come tradizione vuole accompagnati da tortellini fatti in casa, arrosti vari con patate insaporite con salvia e rosmarino, ed infine "dulcis in fundo", com'è proprio il caso di dire, i dolci, a chiudere l'interminabile pranzo: panettoni, pandori, torroni, ricciarelli, tutte leccornie che una volta erano lontane chimere, eventi eccezionalissimi sarebbero stati se fossero stati presenti sulle tavole garfagnine. Di solito, infatti, si preparavano dolci fatti in casa e di questi dolci casalinghi tre fanno parte della tradizione delle feste natalizie della valle. Era per Santa Lucia quando nel rione omonimo di Castelnuovo si preparava (e si prepara ancora) "la Mandolata", un dolce simile al croccante, ma guai a chiamarlo così,
fatto con miele di castagno o millefiori e noci. La particolarità di questo dolce sta nella lavorazione del miele che viene prima bollito poi versato su lastre di marmo unte d’olio e lavorato ancora bollente, con le mani, tirato a fargli prendere aria fino a che da molto scuro diventa color oro. Si aggiungono le noci scaldate, si distribuisce su dei fogli di ostie e si taglia. 
La storia della mandolata è avvolta nel mistero, non ci sono notizie negli archivi comunali. Dalla fine del 1800, ogni anno si fa riferimento alla festa di Santa Lucia come a una tradizionale fiera dei maiali.  La mandolata viene menzionata solo nel 1965 ricordando il “profumato dolce a dose di miele mandorle e noci”, il resto è tradizione orale che comunque la fa risalire a molto prima. Pare che in origine fosse fatta dai frati del convento dei Cappuccini e poi che la tradizione sia stata ripresa dai fedeli, variando la ricetta da mandorle e noci alle sole noci che nella valle si trovano in abbondanza. Che dire poi di quegli squisiti biscotti chiamati "befanini", è vero che si preparano il giorno della Befana, ma ormai possiamo dire che sono i biscotti per eccellenza delle feste
natalizie, fatti di svariate forme: stelle, alberi di Natale, animali, ingentiliti poi con guarnizioni colorate. Però è a Barga dove trovano la loro glorificazione, li dove la tradizione della festa della Befane ha origine lontanissime, infatti se ne parla già negli Statuti del 1366. Qui, questo biscotto viene lavorato senza lievito e al posto dei "chicchini" colorati viene messo del marzapane. Se si parla di Natale poi, non possono mancare i cialdoni con la panna: friabili, non troppo dolci, croccanti , una ricetta semplice e antica, il loro profumo nell'aria significa festa. Acqua, farina, zucchero, latte e burro, questi i soli e semplici ingredienti. Semplici e genuini, così come sono rimasti i piatti della cucina garfagnina, in barba a tutti quelli che si stanno reinventando cenoni festaioli moderni: happy
hour, finger food e buffet vari. Al tempo delle nonne sarebbero state bollate come vere e proprie eresie. In Garfagnana non è pranzo di Natale se non dura almeno sei ore...


Bibliografia

"Stasera venite a vejo Terè. Le veglie della Garfagnana". Gruppo Vegliatori di Gallicano. Banca dell'identità e della memoria 

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