mercoledì 29 maggio 2019

Leonardo Da Vinci...la Garfagnana e la Valle del Serchio in due mappe

Certo, adesso è facile fare una carta geografica, tecniche come
Mappa di Leonardo con
rappresentata Barga
e la Pania
l'aerofotogrammetria consentono attraverso gli aerei una serie di scatti fotografici sul suolo terrestre, permettendo così una fedele riproduzione di coste, montagne e fiumi, altra pratica più precisa è il telerilevamento, che si effettua con l'uso dei satelliti che ruotano intorno alla Terra, in questo caso si usano radiazioni infrarosse; in entrambi i casi tutti i dati rilevati vengono trasmessi alle stazione di ricezione, qui grazie ai computer questi dati vengono elaborati... Ma una volta? Una volta non esistevano nè aerei, nè satelliti... e allora i primi cartografi riportavano sulla carta la posizione dei luoghi in base alle stime dei viaggiatori, oppure si facevano un'idea del territorio salendo sui campanili o sulle colline, le distanze venivano misurate in passi o in giorni di navigazione, insomma tutto veniva fatto "a naso", nell'antichità nessuno pretendeva la massima precisione di una costa o di una città, ma veniva considerato rilevante avere punti di riferimento ben visibili, così una mappa poteva avere dimensioni completamente sballate, ma magari c'erano evidenziati i promontori, dei fari o dei boschi, naturalmente poi c'era una base per così dire scientifica, per la lunghezza e la distanza ci si basava sula misura delle ombre e su principi trigonometrici. A queste tecniche si affidò anche Leonardo Da Vinci, si perchè Leonardo non fu "solo" architetto, pittore, scultore, anatomista,

botanico, ingegnere e progettista, fu anche cartografo. Da questo punto di vista Da Vinci è poco conosciuto e pensare che due delle sue carte geografiche rappresentano la Valle del Serchio e la Garfagnana... Leonardo iniziò la sua attività di cartografo dopo aver studiato la geometria di Euclide, introdusse anche qui tecniche cartografiche all'avanguardia, delle soluzioni del tutto innovative, sopratutto nella rappresentazione del territorio, anticipando l'idea della tridimensionalità. Da genio che era, era altrettanto consapevole che riportare una superficie sferica su una piatta non poteva avvenire senza errori con gli strumenti che aveva a disposizione, allora per rimediare a ciò e rendere a queste carte quel tocco di artistico ricorse alla tecnica dello sfumo a grafite  per rendere ben visibili i dislivelli delle montagne: "il lumeggiamento delle masse montuose", così come le chiamava lui. I suoi primi incarichi da cartografo li ebbe da Cesare Borgia che lo nominò suo "architecto e ingegnero generale", nel 1502 realizzò per il duca una carta con "i lochi et fortezze" conquistate. Dei servigi leonardeschi ne usufruiranno anche i Medici nella persona di Giuliano, che a Leonardo farà richieste analoghe, ed ecco allora entrare in scena la Garfagnana e la Valle del Serchio, infatti (come detto) esistono due mappe commissionate proprio dall'illustre famiglia fiorentina, sono carte rispettivamente del 1503 e del 1504, disegnate per mano di Leonardo, una di queste oggi è denominata RL 12685: in questa si risale il
Rl 12685 Barga cerchiata in rosso
ben visibile la Pania
corso del fiume Serchio e fra le altre cittadine segnalate si può ben notare  Barga, sullo sfondo e alle sue spalle si può osservare bene la Pania e le Rocchette di Vergemoli(disegnate perfettamente), nell'altra catalogata con riferimento Madrid II 
n° 12277 del Codice Atlantico, indica anche qui il Serchio che attraversa i comuni di Coreglia, Gallicano, Barga, Molazzana, Castelnuovo, San Romano, Camporgiano e Piazza al Serchio, da notare anche in questa la precisione di tutti i rilievi montuosi (la Pania è qui chiamata con il suo antico nome: Pietra Pana), perfino gli alberi sono disegnati, i laghi, i corsi dei fiumi e sempre a proposito di fiumi questa mappa fu creata con l'intento di studiare il territorio per realizzare un singolare e bellicoso progetto...come si può vedere Lucca è messa in bella evidenza, infatti il proponimento dei Medici era di deviare il corso del Serchio per inondare la città e farne conquista. Ma tutto questo tesoro
Madrid II N 12277 CODICE ATLANTICO
 dov'è conservato? Agli Uffizi? Nei musei Vaticani? Nei musei reali di Torino? Niente affatto, i disegni sono di proprietà personale di sua maestà la Regina Elisabetta II d'Inghilterra e sono custoditi presso la Royal Windsor Library. Sono proprio nel castello reale di Windsor, dove esiste una collezione di 600 carte geografiche, comprese le due carte "garfagnine", oltre a queste ci sono mappe sul Valdarno, sull'Italia del nord, sulla Toscana occidentale, sulle paludi pontine, in più una vista della Valdichiana. Rimane comunque il fatto che parte del nostro patrimonio artistico è (purtroppo) sparso in tutto il mondo e le vicende di queste mappe leonardesche(come al solito) fanno parte di quelle vicende poco note del perchè siano sparite dal loro "suolo natio". Nel tempo ci sono stati vari passaggi di mano. Si comincia proprio dalla morte di Leonardo (quest'anno ricorrono i 500 anni della sua scomparsa), dopo la sua morte i disegni entrarono in possesso del suo allievo Francesco Melzi che le conservò con sè fino al 1570, anno della sua dipartita , dopodichè passarono nelle mani dello scultore Pompeo Leoni che le acquistò dal figlio di Melzi, qui le mappe

vedono per l'ultima volta la propria patria e nel 1630 non si sa
Il castello reale di Windsor
dove sono conservate le mappe
come (ecco qui il mistero) arrivarono in Inghilterra come patrimonio di 
Thomas Howard conte di Arundel, da li il passo fu breve e in men che non si dica entrarono a far parte del prestigiosissimo patrimonio dei Windsor.
Non rimane altro che la magra consolazione di pensare che dalla mano e quindi dalla penna del più grande genio dell'umanità siano usciti  i nomi dei nostri paesi e che forse, non si sa mai, nei suoi viaggi non sia capitato almeno una volta nella nostra valle...Chissà... 

mercoledì 22 maggio 2019

Prima di Greta Thunberg... Giovanni Pascoli, ambientalista "Ante litteram"

Prima di Greta Thunberg, Al Gore, Chico Mendes e Erin Brockovich
c'era lui, Giovanni Pascoli... Tutti questi, qui sopra citati sono persone che hanno dato tanto per l'ambiente e sopratutto hanno dato il buon esempio, dimostrando che, il nostro pianeta lo dobbiamo proteggere sempre, e che i risultati prima o poi arrivano. Prima di tutti l'aveva capito Giovanni Pascoli, il primo ambientalista "ante litteram", da molti definito "il poeta contadino", amante della natura che nei suoi versi aveva uno spirito ecologista al di sopra di tutti. I riferimenti ideali nella testa del poeta erano Virgilio ed Orazio, veri poeti contadini che vivevano del loro lavoro, d'altronde la scelta di vivere in piena campagna a Castelvecchio rientrava proprio in questa ottica, si evidenziava ancor di più il rifiuto della città, vista come il male in persona, ad esempio nella poesia "L'Ora di Barga" si parla del ragno, del grano, del vento, tutti elementi naturali che aveva davanti e che una caotica città non poteva mai manifestare come in ambienti simili a quello della Valle del Serchio. I suoi migliori amici erano i contadini del luogo e quando qualche emigrante rientrava dalle Americhe per ricomprarsi la
terra da coltivare, da lui era visto come un nuovo eroe, colui che dava nuova vita e che invertiva il processo dell'abbandono delle campagne. Pochi infatti vedono il Pascoli da questo punto di vita, nessuno pensa a lui come un naturalista, ma come abbiamo visto la sua vita e la sua poesia non lasciano spazio a dubbi. Un contatto stretto con la natura lo possiamo trovare in moltissime sue poesie, dove le sue parole erano sempre ispirate da un volo di un passero, un cipresso, dal verso di un uccello notturno, da un lampo improvviso ed è proprio da questi versi che si possono trarre grandi insegnamenti, ed ecco allora che nel 1906 venne pubblicato "Odi e Inni" e nella poesia "Il Serchio", a margine di questa il poeta scrisse una nota davvero degna di essere letta, che ci ricorda due cose importanti, di quanto la
La poesia originale "Il Serchio"
natura si dia aiuto reciproco (al contrario dell'uomo) e di quanto siano importanti gli alberi, si perchè anche un secolo fa uno dei problemi era il selvaggio disboscamento e il Pascoli questo scrisse: "Gli alberi e le acque si amano e si aiutano con fraterna vicenda: gli alberi proteggono le acque, le acque alimentano gli alberi... L'Italia deve rivestire i suoi monti già spogliati dalla spensierata ingordigia dei possessori, se vuol da per tutto ciò che, per provvidenza, per disinteresse, per virtù dei maggiori, è qui in Val di Serchio"

La tomba di Merlino
un merlo dall'ala rotta
Non da meno fu il suo rapporto con gli animali, in loro trovava un amore disinteressato, di chi non vuole niente in cambio ed è anche per questo che possiamo considerare Giovanni Pascoli un antesignano animalista, non solo quindi un naturalista nel senso stretto del termine, ma un naturalista a tutto tondo, pronto ad amare e rispettare tutto quello che Madre Natura ha creato. Essere animalisti a quel tempo era ancora più difficile e se si vuole anche bizzarro, l'animale era considerato agli inizi del secolo scorso poco o niente, aveva un ruolo marginale nei sentimenti delle persone, l'animale "vero" era quello da lavoro e quello che si poteva mangiare, non così per il Pascoli, in lui trovavano amore e protezione e se invece Darwin in essi trovava l'espressione di sentimenti simili a quelli dell'uomo, il Pascoli ne coglieva una chiave poetica. Allora ecco che in casa Pascoli fu un susseguirsi di uccellini, tortone, merli, caprette, cani, alcuni di questi riposano nella loro piccola tomba nel giardino della casa del poeta a Castelvecchio; e sempre a proposito di animali e dell'intimo rapporto fra uomo e bestia rimarrà nella memoria di tutti la cavalla storna che trainava il calesse fino a casa, con sopra suo padre Ruggero assassinato. Nessuno vorrà dire chi è stato l'omicida, ma quando la madre del poeta ne fa il nome alla cavalla, lei emette un nitrito, un nitrito da brivido e di dolore disperato:
In piedi il padre di Giovanni,
 Ruggero Pascoli con la famiglia

"Chi fu? Chi è? 
Ti voglio dire un nome
E tu fa un cenno Dio t'insegni come...
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome... sonò alto un nitrito".

Illuminante e d'ispirazione a questo articolo fu una pubblicazione di Matteo Cavezzali di qualche tempo fa su "Il Fatto Quotidiano", è sottolineato bene il fatto dell'importanza delle parole, di quanto le parole, specialmente quando si parla di natura debbano essere precise, perchè la natura non si inventa, la natura è natura perchè è così come è, e Giovanni allora rimprovera i colleghi poeti di averla maltrattata e trascurata, come può essere che nella poesia "San Martino" di Carducci la nebbia sia agli irti colli? La nebbia quando pioviggina non sale, ma scende! E il mare urla e biancheggia con il libeccio, non con il maestrale. Anche Giacomo Leopardi è caduto nella trappola, ne "Il sabato del Villaggio" si parla di rose e viole, ma le rose e le viole sbocciano in diversi periodi dell'anno, non si possono trovare rose e viole insieme. Con questo il Pascoli ci faceva capire che la natura non ha bisogno di essere forzata per rientrare in un ideale poetico, anzi questo la

rende goffa e irreale... Basta guardare e descrivere le cose come sono, perchè sono molto più affascinanti di come possiamo immaginarle noi, che in confronto alla Natura, siamo solo piccoli uomini...



Bibliografia

  • "Greta Thunberg, prima di lei era Giovanni Pascoli a lottare per l'ambiente" di Matteo Cavezzali "Il Fatto Quotidiano" 21 aprile 2019

mercoledì 15 maggio 2019

La Via Del Volto Santo: la sua storia, i suoi "ospitali" e il suo percorso medievale

"Nell'anno del signore 1215, il giorno 3 di Maggio, io Barna del fu

foto tratta da Trekking.it
Johannes de Neri, faccio testamento e parto. Questa volta non per un viaggio di affari, ma in pellegrinaggio al fine di ottenere il perdono dei peccati e sperare che il mio unico figlio, Maffeo, che viene con me e ha dodici anni, possa guarire del tutto. Ho salutato mia moglie Ludovica lasciandola alle cure di mio fratello Lapo e di mia cognata Maria. Alla mia penna d'oca e a questi fogli di pergamena affido il racconto del mio viaggio. Ho nel cuore la speranza di attraversare la terra di Garfagnana seguendo il corso del fiume Serchio e arrivare alla città di Lucca, nella cattedrale di San Martino, davanti al Volto Santo. Non ho mai percorso questa strada tra le montagne, meno battuta rispetto alla via di Monte Bardone; dicono sia più faticosa per i dislivelli. L'ho scelta per questo: perchè il nostro andare ci avvicini, passo dopo passo, a Dio".Questo è l'inizio di uno stupendo diario romanzato che gli alunni dell'istituto comprensivo di Camporgiano e la professoressa Lucia Giovannetti hanno scritto per far riscoprire, comprendere e coinvolgere maggiormente il lettore su quello che rappresentava la Via del Volto Santo, le speranze dei pellegrini, far conoscere la vita di quel tempo e le tappe di questa medievale via. Cominciamo con il dire che i luoghi principe del pellegrinaggio medievale erano tre: il Santo Sepolcro in Gerusalemme, le tombe
Santiago de Compostela
degli apostoli Pietro e Paolo a Roma e in Galizia e per precisione a Santiago di Compostela la tomba di San Giacomo. Insieme a queste mete tradizionali 
 e imprescindibili (e meglio conosciute con il nome di "peregrinationes majores"), per i cristiani del tempo esistevano anche delle "stationes minori", dei pellegrinaggi più brevi per capirsi, e offrivano a tutti coloro che non erano in grado di fare viaggi così lunghi e faticosi delle esperienze devozionali non meno sentite e partecipate. Fra queste "stationes minori" c'era proprio la Via del Volto Santo, che non era altro che un ramo della ben più famosa Via Francigena (o via Romea) che collegava la Francia con Roma "Caput Mundi" (per approfondimenti 
http://paolomarzi.blogspot.com/le-antiche-strade-html), questo ramo passava dalla Lunigiana, attraversava la Garfagnana e arrivava a Lucca nella cattedrale di San Martino al cospetto del Volto Santo, statua lignea che la tradizione definisce "un'immagine acheropita"(non vi spaventate...vedremo dopo cosa significa), ma perchè direte voi questi poveri pellegrini invece di intraprendere la difficoltosa via delle montagne non si incamminavano sul ramo della Francigena che portava alla più agevole strada che passava dal mare? Si vede che qui i pericoli erano maggiori, a quel tempo la zona marittima era infestata da feroci pirati e per di più c'era il costante pericolo di contrarre malattie malariche, quindi si preferiva dirigersi fra le impervie montagne. Il cammino cominciava da
il percorso del Volto Santo
Pontremoli, una volta lasciata Pontremoli il pellegrino 
saliva ad Arzengio, da lì proseguiva per Ceretoli. Poi arrivava a Dobbiana (Filattiera) alla chiesa di San Giovanni Battista. Poi proseguiva per Serravalle, e si scendeva nel Bagnonese. Proprio dalla pieve di Sorano si fa iniziare la "Via del Volto Santo" che attraversa la Lunigiana toccava la pieve di Santa Maria di VeneliaLicciana Nardi, la Pieve di Soliera ApuanaFivizzanola Pieve di OffianoRegnano, San Nicolao di Tea. Un ramo di strada proveniente dalla bassa Lunigiana toccava invece la Pieve dei Santi Cornelio e Cipriano a Codiponte. Ecco poi che si entrava in Garfagnana, la prima meta era la Pieve di San Lorenzo (Minucciano)Minucciano, Piazza al Serchio. Il percorso toccava poi San Donnino, Camporgiano, Castelnuovo, Gallicano, superava il Ponte del

San Michele (Piazza al Serchio) 
Diavolo, Borgo a Mozzano e poi si immetteva definitivamente per l'antica via romana, 
toccava i paesi di Diecimo, Valdottavo, Sesto di Moriano per arrivare a Lucca. Il tracciato aveva una lunghezza di circa 149 chilometri. Consideriamo poi che il pellegrinaggio era molto diffuso e non tutti "pellegrinavano" per il solito motivo, infatti c'erano due tipi di pellegrinaggio, esisteva quello cosiddetto devozionale che aveva il suo scopo nel chiedere grazia al Signore, mentre l'altro era un pellegrinaggio di tipo penitenziale, ed era originato da una forma di dura condanna per una colpa molto grave che il pellegrino stesso aveva commesso, così in questo modo si auto condannava a vagabondare in continuazione per terre sconosciute e chiedere colpa dei propri peccati a Dio. Comunque sia questi devoti avevano tutti dei segni e delle caratteristiche che facevano si che venissero sempre riconosciuti, cosicchè portavano
Un pellegrino medievale
con sè il "bordone", ovverosia il bastone, vestivano con una "schiavina", soprabito lungo e ruvido e a tracolla avevano una bisaccia in pelle, dove all'interno erano custoditi soldi e cibo, segno inconfondibile era poi "la pazienza", un cordone messo in vita come quello dei frati e così messi si incamminavo nella grazia di Dio, ma esposti a pericoli di ogni sorta. A dare man forte a questi fedeli c'erano gli "ospitali", disseminati per tutte quelle strade che portavano verso i luoghi religiosi. Gli "ospitali" nel medioevo erano un posto destinato ad offrire ospitalità a chi ne avesse bisogno, in particolar modo proprio ai pellegrini che non avevano soldi per pagarsi un letto in una locanda, quasi sempre erano collocati al di fuori delle mura dei borghi, per permettere ai viaggiatori di trovare un giaciglio, anche se fossero arrivati a tarda sera, quando le porte dei paesi erano già chiuse. Erano istituzioni gestite da religiosi, quasi sempre adiacenti a una chiesa o a un monastero e vivevano di elemosine o di lasciti di cittadini, non erano certo un hotel a cinque stelle, anzi, generalmente offrivano un letto, spesso un pagliericcio in "cameroni" comuni e in qualche caso una minestra calda, in ogni modo erano fondamentali per il percorso che affrontava il pellegrino. In

Garfagnana ce n'erano molti e alcuni di questi erano proprio lungo la Via del Volto Santo, ma non vi furono solo "ospitali", nei pressi dei guadi dei fiumi o sui valichi garfagnini furono erette torri con stanze che accoglievano i viaggiatori, queste gestite però da guide a pagamento, di queste torri non c'è quasi più alcun segno è invece rimasto segno di questi "ospitali", come quello della Sambuca, qui sorgeva un monastero di suore che ospitava i viandanti, dall'altra sponda a Camporgiano c'è una chiesa dedicata a San Jacopo e che in antichità aveva anch'essa uno "spedale", unito a quello di San Pellegrino, poi arriviamo a Castelnuovo dove sul colle San Nicolao vicino all'attuale ospedale c'era proprio "un'ospitale", scendendo verso valle si arriva a Gallicano, qui si hanno notizie di un ennesimo "ospitale" adiacente alla chiesa di Santa Lucia, che dava alloggio ai viaggiatori per un solo giorno, tanta era l'affluenza di persone. Tutto questo peregrinare (mai vocabolo fu più azzeccato)come abbiamo visto, aveva come obiettivo finale il
Santa Lucia Gallicano
adiacente a questo
chiesa c'era un'ospitale
crocefisso del Volto Santo, collocato dentro la cattedrale di San Martino a Lucca. Ma perchè tutta questa venerazione millenaria per un crocefisso di legno? Tutto sta nella parola "acheropita", cioè fatto da mano non umana, ma bensì divina. Si crede infatti che tale opera sia stata scolpita da Nicodemo (citato nel vangelo di Giovanni). Nicodemo non era proprio uno scultore provetto e così si attentò nello scolpire nel legno la figura di Gesù, a quanto pare stanco dalla fatica si addormentò, lasciando da scolpire solo la testa, al suo risveglio il crocefisso era completato, gli angeli nella notte avevano lavorato per lui rappresentando su legno quello che sarebbe il vero volto di Cristo. Fra varie vicissitudini il manufatto arrivò a Lucca, che da quel giorno è venerato da tutti i lucchesi e non. La festa di Santa Croce si svolge il 13 settembre e per secoli i paesi e i villaggi che erano assoggettati a Lucca venivano obbligati a inviare rappresentanti in quel giorno di festa, i trasgressori avrebbero pagato con multe salatissime, si arrivava anche al pignoramento dei
Volto Santo nella
cattedrale di San Martino
beni. Nessuno a Lucca quel giorno poteva essere incarcerato e si concedeva amnistia per i reati minori. Anche il Sommo Poeta, Dante Alighieri nella "Divina Commedia" arrivò a citare il Volto Santo, gettando all'inferno tale Martin Bottaio anziano magistrato lucchese, che nel cercar salvezza dalla pece ardente invocò l'aiuto dell'immagine sacra, i demoni gli risposero che la pece dell'inferno non era come le fresche acque del Serchio a cui era abituato e di darsi pace che..."Qui non ha loco il Volto Santo"...   




Bibliografia

  • "Un viaggio nel medioevo lungo la Via del Volto Santo" Istituto comprensivo di Camporgiano Autori: Misia Casotti, Matteo Conti, Nicole Conti, Mauro Grandini, Alessia Lartini, Valerio Lorenzetti, Veronica Pardini, Francesco Pedri, Jarno Rocchiccioli, Monia Talani. Insegnante: Lucia Giovannetti
  • "Storia delle tappe in Garfagnana. La Garfagnana e la Via del Volto Santo" di Andrea Giannasi 

mercoledì 1 maggio 2019

L'arte del banchetto rinascimentale. Ecco come si svolgeva in Garfagnana

Non crediamo che questa moda del mangiar bene, delle cene faraoniche
Banchetto reale di Sanchez Coello
e dispendiose, del mangiare con regole precise e prefissate sia "roba" moderna... No, no miei cari vi sbagliate. L'arte del convivio a tavola risale a circa 500 anni fa in pieno Rinascimento e in confronto agli usi culinari odierni non vi è paragone in quanto a fastosità e abbondanza e per di più non crediamo che al tempo tutto questo fosse ad esclusivo appannaggio delle rinomate città rinascimentali... No, no, tali usanze erano consolidate anche nelle più remote zone italiche, bastava che vi fosse un signorotto locale e sicuramente non sarebbe mancato per le occasioni speciali un banchetto degno di tale nome. L'eccezione unica e fondamentale facendo un raffronto contemporaneo è che bene o male oggi un individuo con una modesta posizione sociale,qualcosa sotto i denti lo mette, al tempo era un po' più dura, gozzovigliavano solo i notabili locali. Questa regola valeva anche per la Garfagnana, la maggior parte delle persone era umile e povera, a fatica nel lontano XVI secolo riusciva a mettere insieme pranzo e cena e quando in una famiglia non mangiava il genitore,
Il cibo dei poveri
mangiava il figlio e viceversa; buona parte del sostentamento arrivava comunque dalla terra, i poveri garfagnini (quelli che potevano mantenersi) facevano molto uso di verdure, legumi e pochissima carne, quelli che non potevano mantenersi si recavano alla modesta mensa cosiddetta "dei bisognosi", dove la scodella della minestra aveva una croce per ricordare agli sventurati che il loro cibo era frutto della bontà di Dio. Niente a confronto di quello che passava per la tavola dei governatori garfagnini in quel di Castelnuovo, l'unico che a quanto pare fu parsimonioso nel suo viver già di per sè morigerato fu l'Ariosto, i suoi predecessori o i suoi successori quando c'era da banchettare non si tiravano sicuramente indietro, anche perchè l'arte del "banchetto rinascimentale" prende corpo e si diffonde nel nord Italia proprio alla corte estense, proprio la medesima corte che per secoli fra vicende alterne governerà in quasi tutta la Garfagnana. Ercole I d'Este quando sposò Eleonora d'Aragona principiò questa sfarzosità, che raggiunse poi i massimi livelli di raffinatezza nel periodo compreso tra il regno di Ercole II (dotto in alimenti) e quello di Alfonso II, non parliamo poi del
Ercole II d'Este
dotto in alimenti
Cardinal Ippolito d'Este (figlio proprio di Ercole I), in un banchetto luculliano mangiò talmente tanti gamberoni che lo portarono all'indigestione e di li alla morte. Insomma, per farla breve tutti i governatori garfagnini venivano già improntati da Ferrara con questa arte nel proprio D.N.A e in effetti al tempo era considerata una vera e propria arte che univa il gusto dello spettacolo e della musica atta ad intrattenere gli ospiti, a quello della tavola, in poche parole era un vero e proprio status symbol che per mezzo dell'ostentazione della tavola imbandita, esaltava la grandezza del signore o del regnante di turno e in sostanza, quando il popolino in Garfagnana faceva la fame, all'interno delle fortezze estensi garfagnine (e non solo in quelle), nelle ricorrenze importanti, si metteva in atto un cerimoniale e un protocollo che nessuno avrebbe mai detto...

Tutto era contornato da vari personaggi con compiti ben precisi, che facevano si che un banchetto risultasse degno del proprio signore.
Rappresentazione del trinciante
C'era lo "scalco" che decideva il menù insieme al cuoco, decideva anche i posti a sedere, infatti non è che ci si metteva a sedere a caso in tavola, il governatore (in questo caso) sedeva con gli ospiti di maggiore riguardo a un tavolo posto su una pedana, in modo che tutti potessero ammirarlo, occupava questo posto dominante rispetto agli altri, al centro, se la tavola era a ferro di cavallo, a capotavola se era rettangolare, certe volte (ma non si è mai letto di questo in Garfagnana) a questi banchetti poteva anche presenziare un pubblico di sudditi (a presenziare... non a mangiare!), rimane il fatto che lo scalco era poi anche l'economo e l'impresario teatrale che organizzava gli spettacoli ed era talmente importante questa figura da essere spesso un nobile a rappresentarla. C'era poi il "bottigliere", decideva quale vino si addicesse al pasto, era anche il proprietario della cantina, a ruota del bottigliere ecco il "coppiere", colui che mesceva il vino. Altra figura importantissima era il "trinciante", questo personaggio tagliava e disossava la
Il coppiere
carne, dando agli ospiti più importanti i pezzi migliori, aveva inoltre la mansione di tagliare tutto ciò che passava in tavola (pesci,frutta e quant'altro), in pratica erano considerati dei veri  artisti, dovevano affettare le vivande senza appoggiarle su nessun piano. Addetto alla credenza non poteva che essere il "credenziere", era incaricato a impiattare e a condire il cibo. Ultimi in ordine di importanza (ma di fondamentale presenza) erano i paggi, gli odierni camerieri.

Esisteva poi tutta una parte che riguardava l'intrattenimento, il giullare o per intendersi il buffone di corte era quello che riscuoteva più successo, era inventore di burle, narratore di novelle e sonetti irriverenti. Fra una portata e un'altra c'era anche chi declamava o recitava pezzi di opere o intere poesie; alla corte estense si esibirono pezzi da novanta come lo stesso Ariosto, Pietro l'Aretino o Ruzante, il tutto era sempre accompagnato dalla musica e dai canti che interrompevano la lunghissima successione di portate.
Ma cosa consisteva tutto questo ben di Dio? Cosa si mangiava in queste speciali occasioni? Bisogna fare subito una differenza fra un banchetto che si svolgeva direttamente alla corte estense e un banchetto che si svolgeva in Garfagnana alla corte del governatore o dei signori locali. Cominciamo con il dire che l'intrattenimento "garfagnino" era fatto sopratutto dai giullari e dalla musica, nessuno (a quanto pare) declamava poesie, l'arte poetica al tempo non attecchiva in Garfagnana... Variava anche il menù,
Il giullare
naturalmente nemmeno nella nostra valle non si badava a spese, tant'è che le portate erano talmente tante che i commensali non ce la facevano ad assaggiarle tutte. Venivano offerte vivande arricchite da ingredienti costosi (pensare che una noce moscata costava quanto sei mucche) e mentre prima a Ferrara e poi a Modena (capitali estensi) si potevano gustare le prelibatezze più esclusive e uniche, in Garfagnana ci si doveva "accontentare" di quello che si poteva recepire o da quello che si trovava in zona, qualcosa difatti veniva importato da oltre Appennino, ben poco però, perchè si rischiava che con il lungo viaggio le cibarie andassero alla malora. La cacciagione invece era locale, tant'è vero che un banchetto rinascimentale "garfagnino" consisteva in particolar modo in un'abbuffata di carne, vero emblema di potere, la carne era considerata roba da ricchi. Figurarsi che alla corte estense era già arrivata la pasta, già si mangiavano i maccheroni o una sorta di gnocco, nonchè tagliolini o minestre di riso, ma in Garfagnana no, si mangiava "la ciccia", ma non solo: frittate, lumache e funghi,

che dire poi di "una bona torta fatta di fegadetti di pollo", le frattaglie al tempo erano una vera leccornia, era poi molto in voga l'utilizzo di umidi e guazzetti vari, oltre ad un ampio uso del latte e dei suoi derivati: burro e formaggi. Le carni erano di ogni sorta e tipo: vitello, suino, 
capretto, 
pollame e cacciagione varia. Specialità erano gli arrosti di maiale con zucca in agrodolce e funghi porcini nostrali alle pere selvatiche (nella convinzione del tempo che le pere fossero un antidoto per eventuali funghi velenosi). Una curiosità dell'epoca dice che gli arrosti prima di essere messi allo spiedo venivano bolliti nell'acqua per ammorbidirli, perchè usava uccidere animali vecchi, non più abili al lavoro nei campi. Particolarmente apprezzate erano poi le teste di vitello, manzo e capretto delle quali veniva mangiato tutto, occhi compresi. Il "trinciante" qui aveva un particolare compito di tagliare la carne in pezzi non più grandi di un dito, la carne era dura e la maggior parte degli invitati aveva denti in pessime condizioni... Molto apprezzati erano anche i dolci, sopratutto le confetture, erano accompagnate da vino speziato. 
Sul banchettare Cristoforo di Messiburgo, cuoco di punta presso gli
Cristoforo da Messiburgo
famoso cuoco estense
Estensi scrisse un importante libro di ricette, pubblicato postumo nel 1549: "Banchetti, composizione di vivande e apparecchio generale". Con una frase rese lampante l'idea di quella che fu l'arte di un banchetto rinascimentale: "...una festa magnifica, tutta ombra, sogno, chimera, finzione, metafora e allegoria"...e allora, buon appetito a tutti!!!



Bibliografia

  • "Libro novo nel qual si insegna a far d'ogni sorte di vivanda" di Cristoforo Messiburgo, anno 1557 
  • "Rinascimento alimentare italiano" appunti storici
  • "Storia della cucina rinascimentale" autori vari, edizioni Belpasso, 1927