mercoledì 22 dicembre 2021

Storia e caratteristiche di un albero di Natale tutto garfagnino

Con il tempo e i secoli che trascorrevano sono cambiate tante cose,
figuriamoci se in questi cambiamenti epocali non rientrava l'albero di Natale. Finto, vero, monocolore, futuristico, minimale, oramai le versioni di un albero natalizio sono molteplici. Nel suo allestimento ci si sono perfino cimentati rinomati artisti, spacciando queste creazioni come vere e proprie opere d'arte. Non parliamo poi dei suoi addobbi, siamo passati dalle caramelle colorate, alle palline di ogni foggia e tipo, per arrivare a futuristiche installazioni a led. Insomma, volendo ce nè per tutti i gusti, c'è addirittura chi lo addobba già a fine novembre, impaziente di assaggiare il clima natalizio, non manca nemmeno chi lo tiene in soggiorno fino a primavera, aspettando che possa miracolosamente "spacchettarsi" da solo. Fattostà, bando a quello che ognuno pensi sul suo uso e sul suo addobbo, l'albero di Natale rimane una vera e propria tradizione e con la sua storia e la sua simbologia è diventato parte integrante della nostra cultura. Naturalmente prima di arrivare in Garfagnana l'albero di Natale ne ha fatta di strada, tant'è che le sue radici affondano nella notte dei tempi in culture puramente pagane e precisamente furono i celti i primi che attribuirono un significato profondo a quell'abete. I druidi, gli antichi sacerdoti di quelle
popolazioni, lo consideravano un simbolo di lunga vita, proprio perchè era una pianta sempreverde, ed era con l'avvicinarsi dell'inverno che questo albero veniva addobbato con nastri, fiaccole e animaletti votivi, il tutto per propiziarsi il favore degli spiriti. Non solo i celti però, anche altre popolazioni del nord Europa si appropriarono di questo rituale, dato che furono i Vichinghi a seguire "il culto dell'abete rosso", pianta capace di esprimere poteri magici, infatti questi alberi venivano tagliati, portati a casa e decorati con frutti, ricordando in questo modo la fertilità che la prossima primavera avrebbe ridato a loro. Naturalmente l'avvento del Cristianesimo, così come fece per altre tradizioni pagane, decise che anche questa usanza andava "convertita" e fu così che l'uso di tale albero si affermò anche in molti altri luoghi. Bisognava però dargli un significato di fede e quindi era doveroso trovare un nesso (piuttosto) logico con la religione. Studia che ti ristudia il legame fu trovato nella scena biblica dell'Eden: nella notte in cui si celebra la nascita di Cristo, l'albero posto al centro del giardino dell'Eden diventava anche l'albero intorno al quale l'umanità ritroverà il perdono. Nei secoli a seguire la Chiesa, non proprio convintissima da tale motivazione, cercò di perfezionare il tiro e proprio in quell'abete, così come molto tempo prima i Celti, trovò la pianta principe per celebrare il Santo Natale, la sua forma
triangolare ricordava infatti la Santa Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. La spiegazione fu azzeccata e in men che non si dica
 la tradizione natalizia dell'albero decorato cominciò a prendere piede soprattutto nei Paesi dell'Europa del nord. Il primo albero natalizio di cui si ha menzione fu quello di Tallin, in Estonia, correva l'anno 1441. Di li l'usanza fu poi ripresa in Germania e precisamente a Brema, era il 1570. Insomma, questa consuetudine si sparse a macchia d'olio e in breve tempo arrivò in tutte le altre nazioni del mondo. E In Italia quando giunse? Bhè, in Italia eravamo molto più dediti al presepe, già nel 1223 esisteva questa usanza e fu San Francesco il primo ad introdurla. L'albero di Natale da noi era ritenuto quasi una sciccheria, una cosa che non ci apparteneva, lontana dai nostri modi di fare e pensare. La situazione cambiò nel 1898 quando la Regina Margherita di Savoia di ritorno da
La Regina Margherita di Savoia
alcuni viaggi fatti nelle prestigiose corti europee rimase stupita dalla visione di questi bellissimi alberi natalizi. Fattostà che tanto fu il suo stupore che decise di allestirne uno negli splendidi saloni del Quirinale. Il risultato fu sbalorditivo, si narra che le palline erano di vetro soffiato e i nastri che lo contornavano scintillavano di seta bianca. Insomma, la novità proposta dall'amata regina in men che non si dica fu apprezzata e copiata da tutte le famiglie italiane, trasformando ben presto l'abete in uno dei simboli del Natale italiano. Anche in Garfagnana ci si adeguò a quella che allora era una moda imperante e con i mezzi (pochi)che avevamo a disposizione, ognuno nella propria casetta cercò di allestire il proprio alberello come meglio poteva. A proposito di alberello, bisogna dire che in origine i nostri avi garfagnini non usavano il classico abete per il proprio albero natalizio, al tempo di abeti in Garfagnana ce n'erano ben pochi, dato che tale pianta non è autoctona. Si pensò così di ripiegare su quello che di più simile
la nostra montagna offriva e il ginepro (in dialetto zinepro) era quello che più si avvicinava. Fu così che in Garfagnana prese 
usanza di fare l'albero di Natale con il Ginepro. Naturalmente la tradizione garfagnina fece leggenda di questo uso e la favola ci racconta che quando San Giuseppe e la Madonna scapparono per andare in Egitto e il perfido Erode dava la caccia a tutti i bambini, fu proprio lo zinepro che salvò Gesù, comportandosi meglio delle altre piante. Era una notte buia e tempestosa, pioveva a più non posso, e dopo la pioggia anche la neve. Il povero San Giuseppe non sapeva come fare a riparare dal maltempo se stesso e Maria, non c'era l'ombra di una capanna, nemmanco di un metato, di fronte a se aveva solamente selve. Videro allora una ginestra e gli chiesero riparo, la ginestra stizzita le mandò via. Gambe in spalla allora, finchè non videro una bella scopa (n.d.r: un'erica), alta e frondosa, all'ennesima pietosa richiesta di riparo la scopa ebbe a dire:- Surtitimi di torno, io nun ne vo' sapè di voialtri. E poi se per disgrazia passa Erode e vi trova qui sotto mi brugia anco me. Surtitimi di torno v'ho ditto!- Intanto continuava a nevicare copiosamente e ai due poveri sposi non rimaneva altro che cercare un albero benevolo. La stanchezza però oramai le stava vincendo, fino a che non scorsero uno zinepro, anche a lui chiesero riparo:- Vinite, vinite pure- gli rispose e per ripararli meglio e perchè Erode non li trovasse protese i suoi aghi in avanti - Cusì se viene Erode si punge tutto-. Il malvagio tiranno passò, ma non le trovò. Il mattino dopo aveva smesso di nevicare e finalmente San Giuseppe e la Madonna
ripresero la strada per l'Egitto. Da quel giorno per i garfagnini lo zin
epro diventò il loro albero di Natale. Per quanto riguardava le decorazioni si facevano con quello che la casa offriva, niente palline colorate naturalmente, costavano molto e da noi erano quasi introvabili. Infatti, buona parte degli ornamenti erano tutti commestibili: frutta secca o frutta colorata come arance e mandarini, i biscotti della mamma non mancavano, così come non mancava la creatività e la fantasia nei bambini del tempo che fu: -Arrivava la vigilia ed era tradizione in casa mia fare l'albero proprio quel giorno. L'albero veniva fatto di zinebro, mia madre mi aiutava a metteva sul tavolo fichi secchi, castagne secche, noci, qualche arancio e qualche mandarino. Io mi procuravo dei pezzetti di carta  di vari colori o anche di carta argentata per incartare le castagne e le noci che avrebbero fatto da palline, poi qualche fiocco di cotone sembrava neve, la stella veniva fatta di cartone poi la coloravo di giallo con la matita e l'albero era fatto. Era bello il mio albero! A me sembrava così! Veniva messo alla finestra in cucina, la finestra dava sull'aia ,io mi sentivo
felice e passavo molto tempo ad ammirarlo".
Così la signora Iva di Gallicano ricordava il suo albero di Natale del 1948. Reminiscenze e memorie di tempi lontani, quando il Natale sapeva di comunità, di calore umano. Quando ancora tutto era legato alle piccole cose, quando eravamo più poveri di beni materiali ma più ricchi nell'anima.

Bibliografia

  • "Stasera venite a vejo Terè" Le veglie della Garfagnana. Gruppo vegliatori di Gallicano. Banca dell'identità e della memoria

  • "La Pania" dicembre 1990 "Il zinebro" professor Gastone Venturelli
  • Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" Paolo Fantozzi. Edizioni le lettere
  • mercoledì 15 dicembre 2021

    Viaggio alla scoperta delle parolacce e degli insulti garfagnini. Perchè si dice così...

    Che il turpiloquio e le parolacce siano vecchie come il mondo, certo
    non ve lo devo insegnare io, quello che però lascia perplesso un povero profano come me è che gli insulti in generale siamo stati fondamentali per lo sviluppo della società e questo non lo disse uno "scenziatello" qualunque in cerca di visibilità, assolutamente no, difatti Freud, il padre della psicanalisi asseriva che: "colui che per la prima volta ha lanciato all'avversario una parola ingiuriosa invece che una freccia è stato il fondatore della civiltà". L'etologo Irenaus Eibl Eibesfeldt invece avanzava un'ipotesi ancora più azzardata: "gli insulti sono stati il più importante motore nello sviluppo del linguaggio, perchè hanno aiutato a risolvere gli scontri in modo non cruento". Insomma, davanti a cotante affermazioni di esimi professori non mi rimane che togliermi il capello e vista l'importanza che questi termini hanno avuto nell'evoluzione dell'uomo non resta che intraprendere un piccolo e curioso studio sulle parolacce tipicamente (e non) garfagnine. Prima però di addentrarmi nell'argomento mi è doverosa un'introduzione, perchè niente venga lasciato al caso. Cominciamo con il dire che le parolacce o gli insulti in genere erano già nel vocabolario di egizi, greci e romani, questo per ribadire che il turpiloquio è vecchio quanto l'uomo, visto proprio che duemila anni prima della nascita di Cristo compare già nel più antico poema della storia: la saga del babilonese Gilgamesh, nel quale si dice che una
    "baldracca" trasformò il bruto Enkidu in un essere civilizzato. Nello stesso periodo storico gli egizi non andavano tanto per il sottile e a quanto pare bestemmiavano senza nessun ritegno e remora. Stando all'interpretazioni di alcuni geroglifici e papiri gli studiosi deducono che Nefti, la dea dell'oltretomba, era definita "femmina senza vulva" e il dio Thot un essere "privo di madre". Tutto questo rimane però interpretabile, quello che non interpretabile è quello che scrisse a suo tempo il poeta greco Archiloco nel IV secolo a.C. Attraverso versi in rima (i cosiddetti giambi)componeva poemi che avrebbero fatto arrossire anche Rocco Siffredi, in compenso però i greci non bestemmiavano per paura di far infuriare gli dei dell'Olimpo. I nostri antenati romani da par loro a parolacce non erano da meno dei "cugini" greci. Anche il loro vocabolario conteneva termini che sono rimasti nel nostro dizionario degli insulti: "stercus" (merda) "mentula"(membro maschile), "futuere"(fottere)e "meretrix"(prostituta). Comunque sia per levarsi ogni dubbio su questo "forbito" dizionario consiglio una visita a Pompei e leggere sui i muri i graffiti di oltre duemila anni fa... Rimane il fatto che con l'andare dei secoli nel nostro bel Paese non ci siamo fatti mancare niente su questo argomento, nemmeno la singolarissima circostanza di avere dentro una basilica romana 
    una iscrizione dell' XI secolo che riporta la più antica parolaccia in lingua volgare (volgare in tutti i sensi...). L'affresco in questione raffigura Sisinnio, ricco cortigiano di Nerva, che era convinto che Clemente (futuro Papa), lo
    avesse stregato per sottrargli la moglie e convertirla. Ebbene, lo sdegno di Sisinnio fu talmente tanto che in una sorta di fumetto li rappresentato apostrofò Clemente con un sonoro: "Fili de pute".Insomma è inutile girarci intorno, la lingua italiana indubbiamente è quella che nel suo "campionario" contiene più di tutte le altre, insulti, imprecazioni e offese di ogni tipo. Se poi questa materia passa a gerghi specifici e soprattutto ai dialetti italiani, ecco che allora si apre una vera e propria babele. In Garfagnana da questo punto di vista abbiamo svariate ingiurie che hanno origine da molteplici ambiti: storia, natura, animali, altre ancora invece le abbiamo importate da città vicine o addirittura da altre nazioni. "
    Bischero" ad esempio è una parola che non ci appartiene ma che sicuramente abbiamo fatto nostra, anche se la sua origine è più che mai fiorentina. La nascita di questa offesa (anzi in questo caso meglio definirla bonaria ingiuria)affonda le sue radici nella storia di Firenze e bisogna andare verso la fine del 1200  quando la Repubblica Fiorentina decise di costruire la Cattedrale di Santa
    Maria del Fiore e offrì alla famiglia Bischeri, una delle più potenti al momento, una grossa somma di denaro in cambio del terreno su cui sarebbe poi sorto il Duomo. 
    La famiglia, avida di soldi, rifiutò più volte e alla fine, per sfortuna o per dolo, un incendio devastò le loro proprietà radendole al suolo e lasciandoli senza soldi e senza terra. Da allora "fare il bischero" o semplicemente "bischero" significa comportarsi in modo poco furbo, proprio dal nome di quella sfortunata famiglia che, a causa di un comportamento poco assennato, perse tutto. Anche l'offesa tipica nostrale "sciabigotto" trae origini dalla storia "nobile", purtroppo l'ipotesi non è provata nè documentata, ma la tradizione dice che nel corso di una visita di Napoleone a sua sorella in quel di Lucca, il condottiero ebbe l'idea di affacciarsi dalla finestra di Palazzo Ducale per salutare la folla plaudente, non tutti però erano plaudenti e festosi e una parte di questa folla
    cominciò a rumoreggiare in segno di protesta verso le imprese dell'imperatore francese, al che un po' sconcertato e arrabbiato si rivolse verso sua sorella Elisa e disse: "
    Cosa vogliono questi chien bigots?"("Cosa vogliono questi cani bigotti?"), da qui le autorità italiane li presenti e che erano intorno a Napoleone presero ad intendere la parola "sciabigotto", intesa però da loro in riferimento a persone "buone a nulla", come quelle che erano in piazza a protestare. Fra tutte queste parolacce anche sentirsi dare del "loffaro" non è proprio edificante, essere trattati da vagabondi ed indolenti non è proprio il massimo della vita. Fattostà che questo termine dispregiativo non ha niente a che fare con la storia, ma trae origine dalla natura. La loffa infatti è quel fungo biancastro dalla forma sferica contenente una polvere impalpabile, schiacciandolo questo fungo produce un rumore che fa una cosa gonfia ma vuota, proprio le stesse peculiarità del carattere di un indolente. Puzzi come una "fojonco" è rivolto a tutte quelle persone che hanno poca confidenza con il sapone. Il fojonco infatti non è altro che la faina, animale semi-saprofago che si nutre anche di carne e sangue e il suo odore (vista la sua alimentazione) è a dir poco nauseabondo. Un'altra offesa (grave) non tipicamente garfagnina ma che è da considerarsi propriamente toscana è "budello". Insieme a questa brutta parola si possono anche annettere tutte le varianti che coinvolgono anche il parentato (madre, sorelle e via dicendo).
    Naturalmente sappiamo tutti che questo sostantivo ha il significato di prostituta, quello che però è curioso sapere dove trae origine. Difatti, riguardo a questo è bene sapere che già in tempi rinascimentali esisteva una sorta di profilattico fatto proprio con budella di animale, era stato creato per scopi igienici, per difendersi soprattutto dalla sifilide, importata in Europa dal Nuovo Mondo. Quindi quando i lor signori frequentavano i bordelli dovevano (giustamente) munirsi del "budello" prima di affrontare la prestazione con la signorina di turno. E quando una persona viene apostrofato con la parola "locco", che significa? Il locco non è altro che una persona sciocca, un tonto insomma. La causa che ha originato questo epiteto tira in ballo l'incolpevole olocco, ossia l'allocco. Questo rapace simile al gufo è dotato di grandi occhi che quando vengono abbagliati dalla luce conferiscono all'uccello un'espressione sciocca. Il "chioccoron" invece è un insulto tipicamente garfagnino, la "chiocca" infatti è la testa e il chioccoron è un tipo particolarmente duro di comprendonio. Detto questo, è bene sapere che le nostre offese non nascono solamente dal nostro specifico dialetto, anzi, possono avere anche un non so che di internazionale. Sentite un po'. La parola francese "lorgne" significa pigro, ebbene, probabilmente questo termine lo facemmo nostro quando la valle andò sotto il dominio napoleonico. Anche se, ad onor del vero con il vocabolo "lornio" s'intende più specificatamente una persona impacciata nei movimenti. Come se non bastasse, senza essere da meno di altri dialetti, abbiamo anche una identica parolaccia dal significato ambivalente. Difatti di questa brutto termine esiste una versione maschile e una femminile dal senso però completamente diverso: "la potta" e "il potta". La provenienza e la sua origine
    comunque sia è unica e viene dalla citta di Modena, antica capitale garfagnina e proprio per questo entrata in uso anche nel nostro modo di dire. La versione al femminile (la potta) come ben sappiamo fa riferimento all'organo genitale femminile, ma la "potta" da cui trae la genesi è nientepopodimeno che un bassorilievo scolpito all'esterno del duomo di Modena, chiamato appunto "la potta di Modena", li è raffigurato un bisessuato che nella realtà si credeva che fosse una tale Antonia che ebbe ben 42 figli... Nella versione maschile (il potta), il significato cambia completamente e infatti questo epiteto viene attribuito ad una persona altezzosa e boriosa proprio com'era nel carattere Lorenzo Scotti, podestà della città emiliana nel XVII secolo. "Scriveano i modanesi abbrevito pottà per podestà su le tabelle, onde per scherno i bolognesi allototal'avean tra lor cognominato il Potta". Come questo documento riporta, per gli avversari politici bolognesi, il soprannome con cui era conosciuto l'arrogante podestà Scotti era proprio "il potta" in riferimento (anche) al bizzarro
     bassorilievo. Che dire poi... Si potrebbe continuare ancora, ancora e poi ancora. Un semplice articolo come questo non riuscirebbe a catalogare tutte queste "volgarità", come
    non si riuscirebbe ad inventariare tutto il repertorio lessicale quando uno vuole  veramente sfogarsi. Ora invece vanno tanto di moda quelle parolacce anglofone, secche, univoche e senz'anima: "fuck","shit"... Vuoi mica mettere la nostra bella lingua italiana: tutto un ginepraio di espressioni fiorite, fantasiose, orripilanti e allo stesso tempo oscene, con le quali puoi andare avanti un quarto d'ora di fila senza mai ripeterti...


    Bibliografia

    • "Dizionario garfagnino" di Aldo Bertozzi, edizioni  LIR, anno 2017
    • "Nuova Rivista di Letteratura Italiana"- "Il potta di Modena" precisazioni storico linguistiche attorno a un personaggio della "Secchia rapita" di Antonio Tassoni anno 2013
    • Raccolta di Proverbi Toscani di Giuseppe Giusti e pubblicato da Gino Capponi, Le Monnier Firenze, anno 1871

    mercoledì 8 dicembre 2021

    Origine e storia dei meravigliosi laghi della Garfagnana

    Era la sera del 6 novembre 1780 quando una rana diede l'inizio ad un
    cambiamento epocale in tutta la Garfagnana: la geografia della nostra valle cambiò per sempre... Va bhè dai, il concetto è un po' estremizzato e fin troppo specifico, sicuramente quello che è indubbio è che questo esperimento che vi illustrerò (molto) brevemente migliorò la qualità della vita di tutta l'umanità. Prima però di chiarire questa sensazionalistica affermazione partiamo con il raccontare i fatti dall'inizio. Senza dubbio è da quella data e da quelle suddetta rana che la storia dell'uomo mutò radicalmente. Questa rana, diventerà la rana più famosa della storia, grazie allo scienziato Luigi Galvani che effettuando un esperimento toccò con un arco conduttore i muscoli della zampa di una rana morta e scoprì che l’animale si mosse con un balzo. Senza saperlo, aveva inventato il prototipo della pila. Difatti sulla base di queste sperimentazioni, un altro grande scienziato italiano, Alessandro Volta, nel 1799 la realizzò: fu così la nascita dell’energia elettrica. Da quel momento, una buona parte del mondo scientifico per diverso tempo s'interessò marginalmente degli studi
    sull'elettricità che di fatto progredirono ben poco. Addirittura nel 1878 all'Esposizione Universale di Parigi questa nuova fonte di energia fu completamente snobbata, tant'è che lo scienziato inglese Sir Erasmus Wilson convintamente affermò:-Finita questa mostra, di luce elettrica non sentiremo più parlare!- Mai nessuna previsione fu così clamorosamente errata... Pochi anni dopo da questa dichiarazione l'Italia era all'avanguardia nelle due principali fonti rinnovabili: geotermica ed idroelettrica e l'energia dell'acqua è quella che toccherà da molto vicino tutta la Valle del Serchio. Insomma, cominciava così la corsa all'elettrificazione d'Italia. Annusando l'odore di bei soldoni ci fu un proliferare di nuove industrie e di nuove società elettriche pronte ad investire capitali nell'energia e di fatto a spartirsi geograficamente le zone d'Italia, in modo che ognuno potesse avere la sua fetta di torta. Al sud presero il monopolio la G.M.E (Gruppo Meridionale Elettricità) e la S.M.E (Società Meridionale Elettricità), che curò la prima elettrificazione della città di Napoli. Al nord del Paese esistevano la Società Adriatica di Elettricità, che s'interessava di tutto il nord est della nazione. In Piemonte poi c'era la Società idroelettrica Piemonte (la S.I.P),in Sardegna la S.E.S (Società elettrica Sarda)... e in Toscana? In Toscana (e in Liguria) regnava incontrastata la S.E.L.T, ossia la Società elettrica ligure toscana. Il suo fondatore nel 1905 fu nientepopodimeno che Luigi Orlando, colui che già dal
    1902 era il proprietario della Società Metallurgica Italiana, ovvero la S.M.I. L'occhio lungo (e più che altro lungimirante) della famiglia Orlando era infatti caduto proprio sulla Valle del Serchio. Quale zona poteva essere migliore di questa valle per la produzione dell'energia elettrica? La particolare conformazione del territorio con tutte le sue pendenze e la ricchezza d'acqua erano l'ideale per lo sfruttamento della risorsa idrica per la produzione di forza motrice, dando di fatto vita ad un business tutto locale ed esportato poi in tutta la regione. Fu in questo modo che per tutto il novecento il bacino del fiume Serchio e i suoi principali affluenti divennero l'oggetto di realizzazione di diverse dighe. Il paesaggio della Garfagnana iniziò una progressiva trasformazione ed a un mutamento perenne, che diede luogo alla formazione di laghi artificiali: Vagli, Gramolazzo, L'Isola Santa e altri ancora. Insomma nell'arco di quel secolo nel nostro territorio sorsero ben 13 dighe e una decina di laghi, si calcolava che già negli anni '30 del 1900 il 60% degli impianti toscani fossero realizzati lungo il bacino del Serchio, che producevano l'80% circa del valore energetico regionale. Nel 1933 ci fu invece un'altra svolta, la SELT allargò i suoi orizzonti
    associandosi con la Valdarno, che operava in altra parte della regione. Il connubio diede vita al colosso energetico SELT-Valdarno. Tutto questo andò avanti fino al 1962, quando tutte queste società furono nazionalizzate in una sola: ENEL. Dopo questa doveroso chiarimento ecco spiegato per quale ragione una rana cambiò per sempre la fisionomia geografica della Garfagnana... Fattostà, lasciando perdere qualsiasi business, faccende varie e attività economiche, possiamo dire senza ombra di smentita che questi laghi sono da considerarsi un valore aggiunto alla bellezza della Garfagnana, essendosi perfettamente integrati con il paesaggio circostante, tanto che senza di loro la Garfagnana non sarebbe più la stessa. Oggi questi laghi sono sfruttati, per la pesca, per le attività sportive e soprattutto per le attività turistiche. Tutti sono bacini artificiali, nati proprio in quel periodo storico. La Garfagnana ha un solo lago naturale ed il laghetto di Prà di Lama a Pieve Fosciana. Comunque sia il primo lago e la prima diga realizzata fu quella di Villa Collemandina. Era il
    La diga di Villacollemandina 
    in costruzione
    1914 quando fu innalzata a tempo record: tre mesi. Questa diga alta 37,5 metri dette di fatto vita al lago che raccoglie le acque del torrente Corfino e Castiglione. La diga resse perfino l'onda d'urto del terribile terremoto del 1920. Il più famoso di tutti rimane sicuramente il lago di Vagli e il suo paese sommerso. Tutto iniziò nel 1941 quando (l'ormai famosa) Selt Valdarno, sbarrò il corso del fiume Edron con lo scopo di costruire un bacino idroelettrico. Tra il 1947 e il 1953 venne costruita la diga (92 metri d'altezza) e 34 milioni di metri cubi d'acqua sommersero per sempre l'antico paese di Fabbriche di Careggine. Quando il borgo venne sommerso contava 31 case popolate da 146 abitanti, un cimitero, un ponte a tre arcate e la chiesa romanica di San Teodoro, risalente al 1590. Anche il lago dell'Isola Santa ha in parte un'ennesimo paese sommerso sotto le sue acque. Prima di essere (semi) inondato la storia ci dice era una fiorente località. Le prime notizie scritte dell'Isola Santa le abbiamo nel 1260, certamente la sua nascita risale però a molto tempo prima. Il borgo poggia sulle rovine di un antico hospitale, chiamato l'Hospitale di San Jacopo, meta di sosta per viandanti e pellegrini di ogni sorta. Purtroppo però il progresso arrivò anche lì. Nel 1949 venne innalzata la diga per lo sfruttamento delle acque della Turrite Secca e il piccolo 
    Isola Santa 
    paese fu così in buona parte sommerso dalle acque del lago: alcune case, un ponte ed un mulino. Il peggio però doveva ancora arrivare, infatti le restanti case avevano problemi di stabilità, la grande escursione giornaliera delle acque rendeva fragile il terreno che era diventato soggetto ad un facile smottamento. Il paese nel 1975 fu così completamente abbandonato, era diventato un paese fantasma. Da un punto di vista turistico il lago di Gramolazzo è quello sicuramente più frequentato, tanto che la sua immagine è finita sui barattoli della celeberrima "Nutella" in una "limited edition" dei luoghi più belli d'Italia. Un campeggio con noleggio barche, alberghi, bar, ristoranti e aree attrezzate per il 
    Lago di Gramolazzo
    pic nic hanno fatto di questo luogo una meta turistica d'eccellenza. Un fatto che non si sarebbe mai immaginato la Selt Valdarno quando negli anni '50 del secolo scorso sbarrò il corso del Serchio di Gramolazzo. Il lago ha una superficie di un chilometro quadrato e un volume di 3,8 milioni di metri cubi. Un altro importante torrente che va ad immettersi nel lago è l'Acqua Bianca che proviene dal Monte Pisanino. Invece il paese di Pontecosi da tempo immemore aveva già uno stretto rapporto con l'acqua, infatti il castello che li sorgeva aveva la sua funzione principale nel controllare gli accessi al fiume. Ma la vera trasformazione ci fu nel 1925 quando con la realizzazione della diga nacque l'omonimo lago. Immissario del lago è anche il Fosso di Corfino che a sua volta proviene dal lago artificiale di Villa
    Lago di Pontecosi
    Collemandina. Lo specchio d'acqua è poco profondo e non balneabile, possiede però una bellissima fauna, essendo uno dei luoghi di svernamento di folaghe, anatre selvatiche, aironi cenerini e altre specie ancora. 
    Nel corso degli anni 2000 un gruppo di volontari ha recuperato terreni abbandonati all'incuria e che sono stati trasformati in zone relax con giardini e aiuole curate, parco giochi, bar e campo gara per il gioco delle bocce. La manutenzione è curata interamente dagli abitanti del paese. Il lago di Turritecava  è quello più a sud della Garfagnana ed ha una conformazione del tutto diversa dagli altri visto che inserito tra due gole rocciose. La sua creazione avvenne tra il 1937 e il 1939 e le acque che lo alimentano
    Lago di Turritecava
    (oltre a quelle dell'omonimo torrente) arrivano dalle cime meridionali delle Alpi Apuane: il monte Bicocca e il Monte Matanna. Il lago si sviluppa per ben 1200 metri di lunghezza e 70 di larghezza è ideale per fare canyoning. Andando dalla parte opposta, all'estremo nord della Valle, percorrendo la strada comunale che collega Sillano al Parco naturale dell'Orecchiella, subito dopo l'uscita dalla galleria irrompe improvvisamente la diga di Vicaglia, costruita nel 1920, questo invaso è alto 53 metri e le acque del Fiume a Corte formano il lago. Questo invaso d'acqua alimenta la centrale idroelettrica di Sillano la più alta di tutta la Garfagnana. Infine rimane lui, l'unico lago naturale della Garfagnana: il laghetto di Prà di Lama. Diciamo che il lago ha una storia del tutto particolare, nel tempo queste acque hanno alimentato timori e leggende, in paese si diceva che era un lago magico, ed in effetti la sua storia lasciava dei presupposti per quel tempo a dir poco misteriosi... 
    Lago di Prà di Lama
    La nascita del lago di Prà di Lama è recentissima, nel 1826 al posto del lago c'era un bel prato verde, dove al centro vi era una copiosa sorgente termale. Lì in quel luogo ci fu costruita una capanna, una casupola dove gli avventori facevano bagni ed abluzioni a scopo terapeutico. Nel giro di pochi mesi la situazione mutò clamorosamente, la capanna venne inghiottita dal terreno ed il suolo sprofondò lasciando il posto ad uno specchio d'acqua non troppo grande. 
    In quell'occasione il lago si ampliò e arrivò a misurare quaranta metri di circonferenza e undici di profondità. Nel 1842 il lago da come era "miracolosamente" comparso improvvisamente scomparì quasi del tutto, per poi nell'anno successivo un nuovo movimento del terreno provocò la nascita di altre dieci sorgenti che ingrandirono nuovamente il lago. Insomma, per farla breve oggi è ancora lì e in tutto il corso della sua storia il laghetto si allargherà e stringerà a suo piacimento (per saperne di più leggi:http://paolomarzi.blogspot.com/2014/11/le-terme-di-pieve-foscianacroce-e.html). In conclusione non mi rimane che lasciarvi con una speranza e visto che la stagione estiva ci ha già lasciati da un pezzo e il tempo delle ferie è già passato, io auspico che questo non impedirà a qualcuno di voi di sfruttare il fine settimana per venire 
    Lago di Vagli
    alla suggestiva scoperta di questi laghi. Luoghi affascinanti in qualsiasi stagione, pronti a regalavi fresco in estate, colori meravigliosi in autunno, e forse chissà, scenografici quadri imbiancati d'inverno.

    Bibliografia

    • "Lucca, imprese di tradizione e successo. L'acqua come motore dello sviluppo", Storia dell'Economia, Cassa di Risparmio di Lucca
    • Archivio Storico ENEL. Personaggi che hanno fatto la storia dell'energia

    mercoledì 1 dicembre 2021

    "La febbre del sabato sera"... di una volta (in Garfagnana)

    Non capitemi male per favore... Il suddetto titolo non vuole esse
    re nè irrispettoso e nè tanto meno irriverente, vuole essere semplicemente esplicativo su quello che era il sabato sera e il divertimento per i nostri antenati. Anche per loro esisteva un sabato dedicato al riposo e allo svago, non era tutto un lavorare nelle fabbriche e nei campi, ci mancherebbe altro... Quello che è certo è che nessuno dei nostri avi era un Tony Manero che bazzicava le fantasmagoriche discoteche di New York, quello no, però l'essenza del film si può applicare anche alla nostra gente, infatti il film narra di un ragazzo che ha una passione sfrenata per il ballo, questo suo passatempo trova il suo sfogo il sabato sera nelle disco newyorkesi, uno svago che lo fa rifuggire (anche)dalle amarezze e dai problemi della vita. Un po' quello che succede pure oggi e che forse una volta accadeva di più, quando la vita era ancora più grama e misera e il sabato era l'occasione per distrarsi, divertirsi e lasciar da parte per qualche ora le preoccupazioni famigliari. D'altronde il sabato è stato sempre un giorno speciale, non per nulla il nome deriva dall'ebraico "shabbat", ovvero, giorno di riposo. Per i romani invece era "Saturni dies", il giorno di Saturno (ancor oggi in inglese sabato è saturday)e ad onore del vero bisogna dire che era un giorno di cattivo augurio. Tutt'altra cosa durante il periodo fascista  ci pensò "lui" a cambiargli nome in "sabato fascista", si evidenziava in quel giorno la conclusione anticipata dal lavoro per dedicare il resto della
    giornata ad attività culturali, sportive e paramilitari. Meglio di tutti però lo descrisse Giacomo Leopardi nella poesia "Il Sabato del Villaggio", il sabato paragonato alla metafora delle speranze e delle illusioni umane: "
    Questo di sette è il più gradito giorno/pien di speme e di gioia/diman tristezza e noia recheran le ore/ ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno". Insomma vediamo allora com'era un sabato garfagnino nei primi anni del 1900. Però, prima partiamo da lontano, da molto più lontano. Il concetto di tempo libero cominciò a prender piede  già nel medioevo anche se non era proprio come lo intendiamo oggi, però anche in quell'epoca in cui vita e lavoro spesso coincidevano vi erano feste e passatempi e non solo chiesa, lavoro, politica e guerre. Naturalmente il tipo dei divertimenti medievali variava da classe sociale a classe sociale, l'unica cosa che accomunava tutte le persone erano infatti gli ultimi due giorni della settimana: il sabato che poteva (sottolineo, poteva...) essere dedicato alla distrazione e la domenica che era obbligatoriamente dedicata al Signore. Fattostà che il cavaliere nel giorno di svago iniziava il pranzo alle dieci circa e dopo qualche ora di riposo riceveva i suoi ospiti nel giardino e li si dilettavano a raccontar novelle, discorrere, fare giochi di società ed eventualmente ad improvvisare danze, in certe Signorie non mancavano nemmeno i giocolieri e i musici. Ma anche i contadini garfagnini si divertivano, anche se in modo diverso, il divertimento qui era incentrato più che nel sabato nelle numerose feste religiose in cui esisteva l'obbligo di non lavorare e allora si abbondava in bevute e scherzi. In alcuni documenti storici degli archivi garfagnini si parla anche di rappresentazioni teatrali basate sui misteri della fede, ma c'erano anche i cantastorie che narravano imprese eroiche di guerre lontane e poi c'erano soprattutto quei giochi di strada, croce e delizia del misero popolino. Il più famoso nella Valle del Serchio era il gioco della ruzzola (l'attuale tiro della forma). Il gioco
    radunava decine e decine di persone, ben presto queste assemblee si trasformavano in un clamoroso e scomposto vociare, e quando gli animi più focosi ed energici, sollecitati da qualche bicchierotto di vino si trovavano al culmine della gara, per ogni minimo screzio o per qualche contestazione sulla regolarità della competizione in men che non si dica si passava alla baruffa e dalla baruffa alla rissa collettiva il passo era breve. In questo contesto era chiaro che di secolo in secolo per questi giochi seguiranno proibizioni e divieti vari, quello che doveva essere un semplice divertimento spesso e volentieri si trasformava in un turbamento per l'ordine pubblico. Era ad esempio il caso di Camporgiano dove nel 1605 si ordinava che: "per evitare li scandali, ed ogni altro buon rispetto, nessuna persona terriera o forestiera aderisca, nè presuma tirare trottole di legno". Neppure a Gallicano nel 1668 si badava tanto per il sottile: " Per l'avvenire s'intende e sia proibito nel castello di Gallicano e suo territorio ad ogni persona di tirar formaggio e girelle per le strade o altrove senza licenza del Signor Commissario, pena di due scudi d'oro per uno". Le autorità non erano preoccupate esclusivamente per le risse e gli infortuni, non si perdeva di vista nemmeno l'aspetto morale e religioso e in quel di Cascio Don Vincenzo Angeli oltre a lamentarsi delle bestemmie e degli improperi dei giocatori  diceva anche: "Il giuoco della palla o delle pallette si fa davanti a questa chiesa parrocchiale, è non è il raro caso che quest'ultima si sia arrivati a batter nei muri della chiesa stessa mentre ha fatto sempre mal sentire il fracasso e le parole improprie che spesse volte si proferiscono dai giocatori". Tuttavia il tempo passa e le cose cambiano e anche nei momenti di maggiore difficoltà e grande povertà, non si è mai smesso di cercare un modo per svagarsi ed era proprio in queste uggiose giornate autunnali quando la luce spariva sotto una fitta coltre di nuvole basse e la notte si faceva buia come la pece che in Garfagnana, davanti al camino e a una padella di mondine,
    illuminati da una fioca luce proveniente da una lucerna che cominciava un classico sabato sera invernale di oltre cento anni fa. Non erano le discoteche o i rumorosi pub le location di quelle serate, erano le stalle o le ampie cucine di una volta lo scenario ideale per le sere "a veglio". Era un rituale quasi sacro che si ripeteva nel tempo. 
    I vegliatori più anziani si mettevano con le loro seggiole vicino al camino e così piano piano  si avvicinavano i ragazzi e le ragazze, dopo pochi attimi ai ragazzi si aggiungevano le famiglie, intanto tutt'intorno nonostante il momento fosse di riposo e tranquillità i piccoli lavoretti andavano avanti, c'era chi aggiustava gli attrezzi, chi sgranava le pannocchie e chi badava al fuoco del camino  Nel frattempo mentre le mani erano occupate in cento cose fiorivano i racconti e le storie più o meno fantasiose, più o meno vere e tutto si confondeva in un misto fra verità e leggenda. D'altronde era durante queste feste che certi racconti rimanevano più impressi nella memoria di tutti, storie che affascinavano genitori e bambini, storie che parlavano di streghe, fantasmi e di buffardelli. Chi si avvantaggiava di questa situazione erano gli innamorati che approfittando dell'attenzione dei genitori al vegliatore sfuggivano al loro occhio vigile per scambiarsi dei fugaci baci. Arrivava poi il momento che gli estasiati bambini andavano a dormire e allora una volta messi a nanna i pargoli le
    donne chiacchieravo dei fatti e fatterelli del paese e gli uomini giocavano a carte. In certe serate non mancava nemmeno il tempo per giocare a tombola, anche questo era un gioco che accomunava molte  famiglie, il problema era che anche questo divertimento non era visto di buon occhio dalle autorità religiose: "il gioco distrae i fedeli dai loro doveri di buoni cristiani, soprattutto dalla preghiera". Bando a ogni sorta di impedimento la gente ci giocava comunque, dato che il tempo in cui ci si poteva permettere maggiormente diletto era limitato nei mesi. Era difatti l'inverno, il cosiddetto "riposo stagionale", per i contadini la stagione fredda era meno laboriosa e stancante e ci si poteva concedere qualche distrazione in più, dedicandosi perfino a qualche serata danzante; 
    mazurke e valzerini vari capitavano proprio il sabato sera. I Bar, le aie (dove di solito d'estate ferveva il lavoro contadino) e qualche rara sala da ballo erano i luoghi preposti al ballo. Anche qui, immancabilmente, contro questi balli "peccaminosi e tentatori" molto spesso tuonavano dal pulpito i vari parroci di quei tempi, spesso da quel pulpito il prete la domenica avvertiva le famiglie del pericolo di quei balli, un pericolo che incombeva sia sui giovani che sugli adulti. Arrivava comunque il momento dell'anno in cui la parola "divertimento" con tutti i suoi annessi e connessi doveva essere sospesa dal vocabolario di chiunque, ricco o povero, giovane o anziano che fosse, la Quaresima era il "de profundis" del sabato e dello svago, e qui nessuno doveva transigere. Paesi interi in Garfagnana si immergevano in un’atmosfera di attesa, un’attesa di silenzio paziente, con la chiusura di teatri, posti di ritrovo, perfino le radio rimanevano spente. Sempre nel silenzio, le famiglie di contadini, limitavano il loro pasto quotidiano a uno spuntino frugale, che doveva essere consumato rigorosamente al buio e dopo il tramonto. Anche talune 
    osterie, per evitare tentazioni, venivano chiuse e questo significava niente bicchierino di vino o partitina a carte. Arrivò poi il tempo in cui le feste perderanno il senso di comunità, arrivò anche il tempo del divertirsi "per forza" e quei sabati "a veglio" rimarranno un lontano e nostalgico ricordo da tramandare ai più giovani in un articolo di qualche blog...