giovedì 27 agosto 2020

Ricette garfagnine in tempo di guerra. Quando la fame si faceva veramente sentire...

C'è poco da fare signori miei, facciamoci caso... Oggi tutto quello

che è moda e tendenza, una volta era pura necessità, specialmente se si parla di cucina. Di questi tempi tutti quei piatti cosiddetti gourmet e raffinati che sono tanto in voga in televisione e nei ristoranti, all'epoca facevano parte della denominata "cucina povera" e perfino la filosofia del "riciclo" è diventata un vero must nei ristoranti stellati. Adesso con del pane raffermo o con la pasta del giorno prima, per non parlare della polenta avanzata, nascono piatti prelibatissimi e sopratutto (nei suddetti ristoranti) vengono fatti pagare carissimi. Insomma, stiamo parlando della cucina dei "tempi andati". Ad onor del vero tanto tempi andati non sarebbero, perchè il periodo storico di cui voglio parlarvi le nostre nonne se lo ricordano benissimo e vi sto parlando di uno dei periodi più duri e bui della nostra storia: la seconda guerra mondiale. Fu proprio in quel periodo, dove fra un bombardamento anglo americano e una requisizione dei tedeschi che le nostre care nonne "inventarono" quei piatti oggi tanto di moda. Al tempo però della moda non fregava niente a nessuno, bisognava mangiare e fare con quel poco
che era a disposizione. I garfagnini se si vuole erano più "fortunati" di coloro che vivevano in città, molte delle loro cibarie provenivano dalla natura stessa, nonostante ciò bisognava lavorare molto di fantasia e creatività per tirare fuori dei piatti accettabili, d'altronde la guerra e la famosa necessità aguzzavano l'ingegno. Quell'ingegno stesso che era poi condizionato dalla celeberrima carta annonaria, che non era altro che quella tessera nominativa che in tempo di guerra consentiva agli italiani di prenotare il cibo da un negoziante di fiducia. Pasta, farina, riso, non più di due chili a testa ogni due mesi. Ogni volta che ci si recava dal bottegaio, il negoziante staccava la cedola di prenotazione dell'alimento ordinato, bisognava però  avere sempre bene in mente lo slogan del regime... "Se mangi troppo derubi la Patria"... In barba a queste cervellotiche propagande, il problema qui non era mangiare
troppo, il problema consisteva nel mangiare, punto e basta e di conseguenza cucinare con quel poco che si poteva rimediare, privandosi del burro, dell'olio d'oliva (a consumo ridotto), così come dello zucchero, per non parlare della carne da consumare a giorni prefissati. Eppure i garfagnini riuscivano ad ovviare alle ristrettezze alimentari con una buona dose di immaginazione, tirando fuori semplici ma sostanziosi piatti. Uno di questi piatti era la minestra di patate. Le patate e le minestre in tempo di guerra avevano due grossi pregi. Il primo era che le patate erano di facile reperibilità, di poco costo e ottimo valore nutriente. Il secondo pregio consisteva nel fatto che le minestre o le zuppe potevano essere "allungate" all'infinito. Difatti uno degli svantaggi di questo piatto era che poteva venire a noia ai commensali di turno. La Beppa di Gallicano a riguardo ricordava un episodio di quando (ri)presentava
per l'ennesima volta tale pietanza alle figliole. Le bambine entravano trafelate in casa: - Mammma, mamma ieri sera abbiamo mangiato la minestra con le patate bollite, oggi che si mangia?- e la madre:-Bimbe, oggi cucino per voi una prelibatezza unica. Vedrete che vi piacerà! Oggi per pranzo c'è la minestra con le patate lesse...- Solo questo semplice episodio racchiude tutto il pensiero di quello che significava cucinare in tempo di guerra. Fattostà che questa ricetta la si poteva (e si può) fare con quattro semplici ingredienti: farina, olio, acqua e patate. Per una persona mi si dice che servono 100 grammi di farina, tre cucchiai d'olio d'oliva e tre patate. Si metteva quindi la farina nella pentola e si accendeva il fuoco piuttosto basso, si aggiungeva l'olio e si mescolava finchè non si otteneva una crema di color brunato. Dopodichè si aggiungeva acqua e si mescolava fino a raggiungere una cremosità media. Infine una volta pelate le patate e tagliate a dadi venivano tuffate nella zuppa. Quando le patate diventavano morbide la zuppa era pronta. Come si suol dire "Ottimo e abbondante!!!". Sempre nella serie de "l'ottimo e abbondante" rientrava anche "la minestra d'erbi", ovverosia la minestra con le erbe di campo. Qui a differenza di altre minestre bisognava avere un po' di conoscenza della natura e della erbe stesse. Infatti la zuppa veniva fatta con le erbe spontanee che offrivano i prati garfagnini e saperle sceglierle era fondamentale, certe erbe potevano essere velenose o amare come il
fiele. Anche qui il costo della materia prima era praticamente zero e perdipiù non aveva bisogno di razionamento se non quello della loro inesorabile stagionalità. Comunque sia per dare un po' di sapore a tutte queste erbe raccolte si metteva insieme anche un cipollotto a rondelle e lo si lasciava riposare per qualche tempo. Si sbollentavano poi le erbe di campo, dopodichè si rosolavano in padella insieme ad una cotenna di maiale e si completava la cottura con l'acqua di lessatura. Questa ricetta rientrava nella categoria "non si butta via niente". Così come in nessuna maniera si buttava via il pane. Buttarlo via in tempo di pace era già un sacrilegio, figurarsi poi in tempo di guerra quando questo alimento era poco e preziosissimo. A conferma del suo valore assoluto è l'usanza che narra di quando i garfagnini non potevano farne a meno di gettarlo (magari perchè ammuffito) ai maiali, prima di darlo a questi animali lo baciavano tre volte, un'antica tradizione che testimoniava quanto gettare il pane facesse sentire in colpa. Difatti il pane raffermo in tempo di guerra (e anche dopo) era l'ingrediente principale per una succulenta minestra di pane. La mia mamma diceva che il suo aspetto "sembrava vomito di drago", ma il suo sapore era sublime. Un po' di patate, qualche cipolla, dei fagioli e qualche erbetta aromatica
trovata su qualche "poggetto". Tutto questo veniva fatto soffriggere 
con poco olio e sale in una capiente casseruola. Si univano poi le patate ridotte a dadini. Si aggiungevano i fagioli con un po' della loro acqua di cottura e si lasciava cuocere per una decina di minuti. Veniva poi tagliato il pane a fettine sottili che una volta sminuzzato in maniera grossolana veniva unito alla minestra, con un mestolo si mescolava il composto, lasciandolo bollire per alcuni minuti fino ad ottenere un'insieme abbastanza denso. Purtroppo (come si può leggere) molto di questa dieta "bellica" si basava su minestre e zuppe, la carne era un lontano miraggio e buona parte del sostegno energetico delle carne lo si poteva però trovare nelle polente. E' infatti è rimasta famosa ai posteri garfagnini la nota polenta con il "salacchino". Per i pochi che non ne hanno mai sentito parlare il salacchino è un'aringa affumicata e messa sotto sale. Questo sicuramente è uno dei piatti più poveri ed emblematici che fa capire bene quello che era la miseria in
tempo di guerra. Si metteva quindi il famigerato salacchino in una padella, con assai olio e si scaldava finchè il pesce non cominciava a sfarsi. Una volta che questo salacchino era stracotto il piatto era  pronto, i suoi pezzi(ma meglio ancora il suo olio) servivano a condire la polenta. L'usanza (ma sopratutto la necessità) voleva che in particolar modo le famiglie numerose (che in Garfagnana erano la maggior parte)usassero sfamarsi mettendo il salacchino così preparato in mezzo alla tavola, ognuno ci passava sopra il suo pezzo di polenta... A proposito di polenta... Signore e signori inchinatevi di fronte alla salvatrice di vite garfagnine più proficua che mai sia esistita. Ne ha salvate più lei in tempo di guerra che la Croce Rossa Internazionale. Ecco a voi la farina di neccio. Parliamoci chiaro, molte persone in Garfagnana senza di lei non ce l'avrebbero fatta a sopravvivere durante la seconda guerra mondiale. Quando il fronte si attestò da queste partì fu ancora più dura fare provvigione di beni alimentari.Il Mario di Castelnuovo così si ricorda:-Solo ed esclusivamente grazie all'enorme valore nutrizionale delle castagne che in quel periodo di guerra dal settembre 1944 all'aprile 1945 ci siamo salvati. Ogni via di comunicazione che potesse portare aiuti alimentari era chiusa. Ma il Signore Iddio volle però metterci la sua santa mano. In quel periodo maledetto si verificò una raccolta di castagne mai avvenuta prima di allora e  ancora oggi non si è vista di tali proporzioni- e così continua-Qui tra i boschi era tutto commestibile, ma per il resto non esisteva più nulla da mangiare; niente carne, niente latte, niente uova, niente farina o zucchero, nulla di nulla, si trovavano "solo" castagne, farina di neccio,
qualche patata e la tanta legna per accendere il fuoco
-. Dare quindi omaggio a questa farina per un garfagnino è più che mai doveroso e nonostante che la sue preparazioni possano essere innumerevoli la ricordiamo con la sua ricetta principe: la polenta di neccio. Portare ad ebollizione un litro e mezzo di acqua leggermente salata in una pentola grande, meglio se un paiolo, versare a pioggia un chilo di farina precedentemente stacciata mescolando continuamente con un mestolo di legno per evitare che si formino grumi, far cuocere a fuoco dolce per 45 minuti. Quando dalle pareti della pentola si staccherà in blocco vuol dire che è pronta, quindi rovesciarla su un tagliere di legno e tagliarla a fette. 

Potremmo stare qui ancora a riempire pagine e pagine e ad illustrare ricette, talmente sono tante e varie, ma oggi più che mai, quando ormai anch'io sono un adulto, riesco a capire e a dare significato ad una frase che mi diceva la mia mamma, che quando era bimbetto mi suonava come retorica e banale:-Mangia non fare storie su! Ai miei tempi quando c'era la guerra era un lusso avere queste cose in tavola!-... Meditate gente, meditate...  

giovedì 20 agosto 2020

Dalla poesia alla realtà. Ecco chi era il piccolo Valentino "pascoliano"

Li abbiamo sempre letti, li abbiamo scrutati, ascoltati,spesso ci siamo immedesimati nelle loro gesta, nelle loro emozioni e sensazioni

Valentino
e non mancava nemmeno l'occasione di immaginarceli fisicamente: il loro viso, il corpo, gli occhi, tante volte siamo arrivati perfino ad innamorarcene. Sono loro, sono i personaggi letterari. Quei personaggi che fanno parte del mondo dei romanzi, delle poesie o anche di semplici racconti. Gli scrittori e i poeti li hanno plasmati secondo la loro fantasia e creatività, magari creandogli ad hoc tratti somatici inconfondibili e caratteristiche caratteriali particolari. Tante volte però questa fantasia intrinseca dello scrittore ha lasciato spazio alla realtà, o perlomeno la realtà stessa è stata fonte d'ispirazione. Ecco allora che il personaggio di Alice... quella del Paese delle Meraviglie per capirsi, esisteva veramente e aveva un nome ed un cognome, nella realtà si chiamava Alice Liddel, era una bambina di sette anni e viveva ad Oxford vicino Londra, l'unica licenza che si prese Lewis 
Alice Liddel...
la vera Alice
Carrol fu quella di trasformare Alice in una dolce bambina bionda, in verità era castana. Che dire sennò di Sir Arthur Conan Doyle? Il suo Sherlock Holmes fu ispirato da un certo Joseph Bell. Bell era un professore in medicina, Doyle rimase notevolmente impressionato dalle sue capacità deduttive ed investigative, infatti il professore era collaboratore con la polizia come medico forense. Lo stesso Zorro, (che non è un'invenzione cinematografica ma bensì letteraria) è un personaggio realmente esistito. Johnston Mc Culley prese spunto da Joaquin Murrieta, noto come il Robin Hood di Eldorado, salito alle cronache del tempo (1919) come un bandito in cerca di vendetta, dopo che moglie e fratello furono uccisi per la falsa accusa di aver rubato un mulo. Diverso è il discorso se si parla di poesia, il poeta prende spunto per i suoi personaggi quasi sempre da soggetti realmente vissuti e quasi mai trasfigurati nella(sua) fantasia, poichè queste persone sono per loro fonte di tutta una serie di sentimenti ed emozioni, che sono il motore trainante della poesia stessa. Nonostante che tali persone siano realmente vissute la nostra fantasia non ci ha impedito di immaginare il viso di una qualsivoglia musa ispiratrice, e allora, quante volte abbiamo pensato a come poteva essere il volto e il corpo di Silvia di leopardiana memoria?
"Slvia rimenbri ancor quel tempo della tua vita mortale quanta beltà splendea..." , chissà come sarà stata cotanta bellezza... Anche il sommo Dante ha reso per sempre immortale nel nostro immaginario una gentil donzella con un semplice verso: "Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand'ella altrui saluta...". Lei era Beatrice.
Nemmeno nella nostra valle ci siamo fatti mancare dei personaggi del genere. Il personaggio in questione è talmente noto che ormai è quasi centoventi anni che stimola la fantasia e l'immaginazione (e lo studio...) di generazioni e generazioni di scolari italiani. Al solo inizio di quella poesia, l'idea va al viso di quel bambino: "Oh
Valentino vestito di nuovo, come le brocche del biancospino..
.". Quante volte questo componimento sarà rimbalzato nelle nostre teste e quanto volte ci saremo detti... Ma Valentino chi era???... Valentino, tanto per cominciare era il vezzeggiativo del suo vero nome. Il nome Valente su un bimbetto così gracilino ed umile sarebbe stato di troppo peso. Valentino viveva a Castelvecchio con la sua famiglia, composta dal papà Giovanni detto "il Mère", la mamma Chiara e quattro fratelli: il Tonino, la Carolina, l'Amabile e l'Augusto. Valentino era il più piccolo. La famiglia Arrighi, questo era il cognome di Valentino, viveva una dura vita, era difficile tirar su cinque figli per quei genitori, ma il lavoro di mezzadro del Mère nella residenza dei Cardosi- Carrara sul
La famiglia Arrighi
nel cerchietto
rosso Valentino
colle di Caprona permetteva quanto sarebbe bastato per sfamare tutti i componenti della famiglia... ma niente di più però ! Oramai erano anche diversi anni che la famiglia Arrighi lavorava duramente la terra dei Cardosi- Carrara, gli accordi erano chiari, ogni raccolto veniva diviso equamente, con libertà di vendita dei prodotti della terra da parte del Mère, tutto sancito alla vecchia maniera, con una stretta di mano. Il 1895 portò però a Valentino e a tutta la sua famiglia una novità inattesa:-
 “Ho deciso di vendere tutto, Mére: campi e casa. C’è il professor Pascoli che sarebbe disposto a comperare. Tu, intanto, se ha bisogno di qualcosa, dagliela pure: latte, formaggio, uova. Dopo, semmai, ci rifaremo. Hai inteso?”. Così sentenziò il Carrara... Così la proprietà andrà in affitto al professore fino al 1902. Nel 1902 con i soldi ricavati dalla vendita di alcune medaglie d'oro vinte nei concorsi letterari il Pascoli acquistò la casa, portandosi dietro, così come si raccomandò l'ormai vecchio proprietario, i vecchi contadini: "considerati a Castelvecchio gente alla buona, onesta e senza chiacchiere". Da allora Valentino e la sua famiglia diventeranno parte integrante della vita del Pascoli. Il bambinetto, come tutti i suoi coetanei dell'epoca, viveva una vita grama, semplice ma felice, i suoi compiti erano quelli di aiutare il padre in quello che poteva. Ma fu nell'approssimarsi di una Pasqua che il poeta notò quel bimbetto scorrazzare per i suoi campi, il suo osservare dalla finestra dello studio ispirò i versi che renderanno immortale Valentino nella storia della letteratura italiana. Il Gian Mirola (noto giornalista garfagnino) "fotografò" con la sua fenomenale penna quei giorni.
Un giorno, dunque, il Mére disse alla moglie: “Oh Chiara, non ti sembra che quel moccioso abbia bisogno di essere rivestito?” Eh, lo so anch’io, purtroppo!” rispose, un po’ seccata la buona donna. “Qualcosa gli ci vuole, ma…” e continuò a rimestare nel paiolo la
Valentino e
la mamma Chiara Mazzarri
semola da dare alla Bianchina.
“Ma qualcosa gli ci vuole!…” ripeté il Mére tentennando il capo. Ma, lì per lì, non seppe neppure lui come risolverla. Palanche non ne aveva e bisogni in casa ce n’erano tanti da cavare gli occhi. Intanto- continuò la Chiara- non abbiamo una palanca per far cantare un cieco. Fra un mese e mezzo è Pasqua. Ed io come glieli compro una giacchetta ed un paietto di calzoni al Valentino?”. Poi ci ripensò meglio; si sa, il bisogno spinge. Ed ecco che una bella mattina, quando il Mére era già nei campi a legar viti, la Chiara spazientita spacca il salvadanaio, conta gli spiccioli, si aggiusta alla vita il pannello delle feste e, via, se ne va a Barga, dal Carrara che gestiva un negozio di pannine.“Sor padrone, ho bisogno di qualcosa”Sono contento di servirvi, Chiara. Di che cosa avete bisogno?” “Due cencetti per Pasqua. Da spendere poco, vè! Che le palanche, da casa nostra, se ne son ite!” “Ma non vi preoccupate, scegliete pure!”. La Chiara scelse e pagò fino all’ultimo centesimo. Poi andò dalla Filomena, che cuciva per  donne e anche per ragazzi. “Zitta, non lo dire, veh! E’ una sorpresa” e tirò fuori la stoffa acquistata dal Carrara. “Vorrei che tu ci facessi un vestitino al mio Valentino. Due zoccoletti, prima di Pasqua, glieli comprerò. Ho due galline: se non mi coveranno tanto presto…” (Voleva dire: se faranno delle uova, le venderò, ci comprerò gli zoccoli). Invece tutti sappiamo come andò a finire. Le galline chiocciarono e la Chiara non potè più vendere un uovo. Valentino ebbe così il vestito ma non le scarpe...

Poi, le galline chiocciarono, e venne
marzo, e tu, magro contadinello,
restasti a mezzo, così con le penne,
ma nudi i piedi, come un uccello

Venne il giorno di Pasqua. Sole meraviglioso, voli, trilli di rondini. Valentino uscì di casa, scese le scale, arrivò sulla piazzetta un po’ impacciato nei movimenti a causa del vestito nuovo.

Oh, Valentino, vestito di nuovo!” si udì esclamare.

Si arrestò di colpo. Voltò gli occhi a destra, a sinistra, in alto.Guardò verso la casa del professore: il poeta affacciato alla finestra sorrideva. Il ragazzo abbassò il capo, diventò rosso rosso. Poi, via, di corsa a rifugiarsi in casa. Il Pascoli invece, rimase a lungo a guardare dalla finestra, muto. Lungo i borri dell’Orso, trale siepi dei biancospini fioriti penduli sull’acqua trasparente, le allodole, le cince, i pettirossi cinguettavano lieti alla primavera. Proprio come il bimbo del Mére e della Chiara, proprio come

Valentino: lui pure saltava, correva, ignaro se al mondo potesse esistere una felicità più grande della sua... anche senza gli zoccoletti. Così nacque una delle poesie più delicate del Pascoli. Tutti questi personaggi, la vita campestre e questa degna miseria non furono solamente trascritte su carta, lo stesso poeta imprigionò la memoria sulla sua nuova macchina fotografica Kodak. La macchina fu un regalo dei fratelli Orvieto per ringraziarlo della sua collaborazione a "Il Marzocco". Il Pascoli rimase talmente affascinato dal suo nuovo marchingegno che iniziò a battere le campagne di Castelvecchio fotografando a destra e a manca, fra questi scatti non mancarono la Chiara e... Valentino vestito di nuovo.Purtroppo finì anche il tempo delle belle poesie e delle stupende 

Due fratellini di Valentino

fotografie e i fatti (purtroppo) presero la direzione verso i più biechi sentimenti umani. Le vicende che seguiranno, segneranno in modo indelebile la vita di Valentino. "Ora quella gente, prima amica e servizievole nella previsione di un licenziamento con conseguente sfratto, si era messa a far tutti i dispetti e tutte le minacce". I rapporti fra la famiglia di Valentino e Giovanni Pascoli con il tempo si erano deteriorati, una serie di incomprensioni avevano  portato a paventare il licenziamento del Mère, non solo, tutto ciò avrebbe causato anche la cacciata dalla "chiusa", infatti Valentino e la sua famiglia abitavano all'interno della villa stessa del poeta. Lo strappo definitivo ad ogni buon rapporto lo dette comunque l'episodio di una bicicletta danneggiata. Difatti le cronache raccontano che il Pascoli ricevette in casa l'amico Alfredo Caselli e come si conviene alla buone maniere del tempo era buon uso offrire sigari durante una piacevole conversazione fra amici, ma i sigari in casa erano terminati... Fattostà che il poeta mandò di corsa il Tonino (fratello di Valentino) a comprare i sigari all'osteria in Campia: -Prendi la mia bicicletta nuova Tonino, non perdere tempo. Vai!- esclamò il poeta. Giunto ad una curva il malcapitato Tonino per evitare un ostacolo cadde rovinosamente a terra, il bimbetto "si sgusciò" le ginocchia e la bicicletta si rovinò su un pedale. Questo bastò al Pascoli per alimentare ancor di più i suoi sospetti su eventuali dispetti ed angherie da parte famiglia Arrighi. Per placare ogni irriguardoso sospetto non fu nemmeno sufficiente che la Chiara si offrisse di riparare a sue spese la bicicletta, il Pascoli rifiutò. Insomma, con la rottura della bicicletta, avvenne la definitiva rottura del rapporto con il Mère. Arrivò così il 1903 e la famiglia di Valentino fu sfrattata in maniera irremovibile. Naturalmente gli strali di questa vicenda non terminarono con il licenziamento, il Pascoli lamentava ancora parole grosse nei confronti del Mère, d'altronde aveva dovuto sborsargli una bella sommetta per "liquidarlo" (si parla di 240 e più lire), in più le frecciatine del poeta continuarono, definendo la famiglia  Arrighi, la famiglia "Chiari", riferendosi appunto a colei che tirava le fila della gestione familiare. La questione, come è logico che fosse stato in un piccolo paese, si ripercosse anche sui paesani, che senza se e senza ma parteggiavano per il contadino. A riguardo il Pascoli ricordava così (in una lettera al Caselli) il momento della partenza dal Colle di Caprona del Mère: "Oggi una grand
Momenti di vita contadina
 a Castelvecchio

e dimostrazione con bandiere e evviva altissime è passata sotto le mie finestre accompagnando il Mère. È una dimostrazione contro di me. Sento le grida feroci che accompagnano il ladro, il birbante tagliatore d’alberi e di viti, il mascalzone, che da più di un anno avvelena l’esistenza del poeta di Castelvecchio"
. Immaginiamoci noi, in tutta questa diatriba, cosa avrà pensato Valentino? Prima musa ispiratrice ed adesso figlio dell'acerrimo nemico del poeta stesso. Purtroppo come capita in questi casi (ed in altri ancora) i bambini sono testimoni passivi delle "opere" degli adulti, dovendo poi subire inermi e senza colpa le conseguenze di ciò. Così infatti capitò a Valentino. Il Mère, ormai anziano, difficilmente avrebbe trovato un nuovo lavoro come mezzadro e così fu. La miseria quindi divenne ancora più miseria e la disperazione ancor di più disperazione. La Chiara (anche lei anziana) e i figli dovettero rimboccarsi ancor di più le maniche quando poi nel 1907 Giovanni Arrighi alias Mère morì... La situazione quindi si complicò terribilmente, le prospettive di
Valentino Arrighi a 19 anni

lavoro e sviluppo nella valle per dei ragazzi come Valentino erano pari a zero, e per lui questa non era vita. N
on rimaneva allora che un'unica soluzione, emigrare, andar in cerca di fortuna per "le lontane Meriche", destino comune a migliaia di garfagnini in quel tempo. Valentino partì e si stabilì a Cincinnati (Ohio), a quanto pare divenne un fine decoratore, non diventò però nè un magnate influente e nemmanco un ricco signore. Con il sacrificio e il duro lavoro si creò però una posizione dignitosa, quanto bastava perchè in casa sua un paio di scarpe non mancassero mai...


Bibliografia

  • "Pascoli e i Mere" BARGANEWS .com 22 febbraio 2012
  • "Lungo la vita di Giovanni Pascoli" memorie curate ed integrate da Augusto Vicinelli di Maria Pascoli , edizioni Mondadori 1961
  • Le foto riguardanti Valentino e la sua famiglia sono tratte dall'archivio Pascoli http://www.pascoli.archivi.beniculturali.it/index.php?id=106

mercoledì 12 agosto 2020

Il mulattiere, le mulattiere, il mulo e il loro Re. Storia di un antico mestiere garfagnino

Denigrato, offeso, screditato e spesso infamato..."Sei duro come un mulo !", così si dice quando ci si vuol riferire ad una persona cocciuta e ostinata, o sennò quando si vuol parlare di un individuo ricco caduto in disgrazia il modo di dire è "ha preso il calcio del mulo". Insomma una miriade di espressioni che da tempo immemore hanno condannato il povero mulo ad essere considerato uno fra gli esseri più stupidi e poco considerati di tutto il regno animale. Eppure il mulo ha segnato la vita dell'uomo come pochi altri esseri viventi. Già nell'antica Illiria il mulo era diffuso ed allevato dai contadini del luogo. Nello stesso tempo la sua utilità si diffuse ben presto in tutte le zone del Mediterraneo, nell'Africa e in tutti i territori circostanti, arrivando perfino a colonizzare il Nuovo Mondo. La sua

robustezza, l'adattabilità, le sue poche pretese (se non un po' di fieno e di biada) e la difficoltà con cui era vittima di malattie lo fecero diventare un compagno inseparabile dell'uomo. Il meglio di sè lo potè dare però nelle due guerre mondiali, amico indivisibile del soldato già nella I guerra mondiale, fino a dopo gli anni '40 questo animale da soma sarà parte integrante ed insostituibile di tutti gli eserciti. In ogni esercito il mulo mostrò il suo valore, ed anche per le truppe del nostro paese costituì un aiuto notevole, diventando un compagno di viaggio insostituibile per ogni soldato. "Soldato a quattro zampe" era considerato questo prezioso animale che, durante le dure battaglie era in grado di donare il cuore ai propri compagni umani i quali, a loro volta, si affezionavano a tal punto al loro mulo da piangerne la morte, come avrebbero fatto per qualsiasi altro commilitone.
D'altronde l
a sua rusticità, la resistenza e la capacità incredibile di poter affrontare con tranquillità anche i sentieri di montagna più impervi, lo avevano reso indispensabile per gli spostamenti dei soldati di montagna. Basti pensare che un solo mulo era in grado di trasportare il carico di tre uomini, lungo salite impervie ed aspre e senza mai dare un segno di cedimento. Proprio per queste sue arcaiche caratteristiche divenne il protagonista assoluto di uno dei mestieri più antichi di tutta la Garfagnana: il mestiere del mulattiere. Un'antico lavoro questo che raccoglieva svariate mansioni ed incarichi. Il lavoro primario del mulattiere consisteva nel trasportare la legna, ma non solo, il mulattiere aveva anche il compito di fare il tassista, "il postino" (recapitare lettere o messaggi da un paese ad un altro), nonchè
scambiare merci e rifornire le botteghe dei paeselli sperduti per la montagna garfagnina. Già la montagna...Ecco, un altro merito che va a coloro che intrapresero questo mestiere fu proprio quello di anticipare 
lo sviluppo delle attuali reti stradali nella valle, furono proprio i mulattieri a creare nuove strade e nuovi sentieri per le impervie montagne nostrane, seguendo stretti e ripidi percorsi, attraversando fiumi e valloni, valicando passi montani, il mulattiere arrivava dappertutto creando di fatto nuovi viottoli che con il tempo diventarono vere e proprie strade, quelli che ancora oggi sono rimasti sentieri sono ancora quei primitivi cammini che  portano ancora il nome di "strade mulattiere". Antiche, antichissime, oserei dire queste vie, tant'è che in tempo di dogane il mulattiere ne inventava e ne creava ancora di nuove,
cercando di evitare così gli esattori preposti al controllo delle strade, eludendo in questo modo il pagamento dei dazi sulla merce che trasportava. Anche da un punto di vista puramente sociale l'apporto dei mulattieri fu fondamentale nella crescita della vecchia Garfagnana di un tempo, loro era il compito di trasportare la legna che sarebbe servita poi a fare le traversine della tanto sospirata linea ferroviaria Lucca- Aulla(n.d.r:primi anni del 1900), sempre merito loro era se i forni dei nostri paesi venivano riforniti di legna da ardere per fare il pane che avrebbe sfamato i garfagnini, lavoro duro questo, l'approvvigionamento dei forni doveva essere costante, per la cottura del pane servivano una dozzina di fascine al giorno, lo sforzo del mulattiere veniva ripagato dal fornaio con quel pane. E sempre loro era il merito di trasportare neve e ghiaccio dalle Apuane per mantenere fresche le vivande dei commercianti che avevano il negozio a valle. Non da meno fu il loro apporto (quando arrivò poi la ferrovia)
nel trasportare dalla stazione i primi villeggianti nei luoghi di vacanze. Quello che poi si sobbarcava però tutti questi pesi era il mulo, che nonostante ciò veniva tenuto dallo stesso mulattiere in maniera impeccabile, costantemente ben curato, pulito e nutrito. 
Il mulattiere prestava attenzione e cura verso il mulo, quest’ultimo era una risorsa e il sostentamento per la famiglia. Quando il mulo per svariati motivi veniva a mancare era un vero e proprio dramma! L’animale veniva preparato con cura per il trasporto: si cercava di mettere la paglia sotto la sella per evitare la formazione di piaghe da decubito sul suo dorso, il pelo era sempre ben curato strigliato e pulito quotidianamente, la criniera veniva accorciata, gli zoccoli venivano curati, si poneva anche un telo impermeabile arrotolato per coprirlo in caso di pioggia. A volte poteva succedere che la bestia si azzoppava o si feriva, era compito del mulattiere
curarlo preparando una miscela di olio bollito e cenere di paglia, per cicatrizzare. Se l’animale aveva un problema alle gengive e non poteva mangiare era premura pulirle con un legno appuntito, così che l’infezione non creasse danno. D'altra parte lo sforzo che doveva fare l'animale era enorme, e la sua cura era indispensabile. Il carico per ogni bestia era circa di due quintali, e il carico dei muli era un'operazione che richiedeva una sequenza di complesse azioni, bisognava infatti valutare 
ad occhio quanta legna o quanta merce poteva trasportare un dato animale(il peso variava se l'animale era giovane o adulto), ed inoltre bisognava avere la capacità di bilanciare i pesi sui fianchi del mulo stesso, sistemare bene la legna e la merce in modo che non cadesse a terra era un'altra operazione da fare con cura. Infine, solo nel caso in cui l'animale trasportava legna, l'arte sopraffina era il modo in cui legarla sulla bestia, tale nodo infatti veniva fatto in
modo che con un semplice strattone della corda tutto il carico cadesse ai fianchi dell'animale. Insomma un mestiere antico quanto la nostra stessa valle, e a quanto pare in tutto questo lungo arco di tempo la Garfagnana ebbe fra la sua gente proprio il 
"Re dei mulattieri", così si diceva da queste parti, chi si era aggiudicato questo fittizio titolo non se l'era aggiudicato senza un valido motivo. Secondo "vox populi", lui e il suo mulo avevano compiuto(a piedi) ben quattro volte il giro del mondo. Tale calcolo venne fatto dai paesani, dal momento che, tutti i giorni che Cristo mise in terra per ben 40 anni (dal 1915 al 1955), questa persona percorse quotidianamente il tratto San Pellegrinetto- Gallicano. Tutto questo bastava ed avanzava per concedergli cotanto titolo onorifico. La sua "maestà" si chiamava Oliviero Mancini, nato nel 1905 nel suddetto paesello nel comune di Fabbriche di Vergemoli. Iniziò il lavoro di mulattiere sostituendo il fratello Modesto (che gestiva la


bottega di famiglia), morto durante la prima guerra mondiale. Al tempo a San Pellegrinetto gli abitanti erano ancora numerosi e le strade (purtroppo) ancora inesistenti, quindi toccava ad Oliviero partire prima dell'alba dal piccolo borgo e giungere a Gallicano per rifornire la bottega di famiglia e conseguentemente
Oliviero Mancini
garantire sussistenza a tutto il paese. Partiva alla testa di tre muli (ne possedeva 18), gli animali erano carichi di legna, frutti di bosco, suini macellati, panetti di burro, merce che una volta arrivato a Gallicano scambiava con altra ancora. Si raccontava che il suo arrivo, verso le dieci del mattino, era annunciato dallo schioccar di frusta, un suono di festa che faceva accorre tutti i bimbi in piazza Vittorio Emanuele II, non mancava nemmeno l'occasione che questi bimbi facessero un giro a cavalcioni del mulo. Verso le 15 del pomeriggio, dopo essere passato in trattoria, bevuto "du' bicchierotti di rosso" e fatto una partitina a briscola, Oliviero, all'ennesimo suono delle fruste salutava e ripartiva con i muli carichi di merce nuova per il lontano paesello, che raggiungeva solamente quando era già buio. 
Antichi mestieri, antichi modi di vivere. Storie che ci sembrano uscite da libri di fantasia, racconti talmente incredibili che quasi sembra che non siano mai esistiti... Provate a leggere questo articolo ad un bambino, vi guarderà negli occhi e vi ascolterà come se stesse ascoltando una favola... Ma ditegli che una favola non è, è storia vera, storia della nostra Garfagnana.


Bibliografia 

  • "Profili di uomini illustri della Valle del Serchio e della Garfagnana" di Giulio Simonini, Banca dell'identità e della memoria, anno 2009

mercoledì 5 agosto 2020

Viaggio nell'araldica "garfagnina". Il significato degli stemmi delle famiglie feudatarie di Garfagnana

"Cavalieri, il sacro dono della libertà è vostro e ne avete
pieno diritto. Ma la dimora che sogniamo non è in qualche terra lontana, è in noi e nelle nostre gesta, in questo giorno. Se deve essere questo il nostro destino ebbene sia, ma che la storia non dimentichi, che come uomini liberi noi stessi lo abbiamo scelto".
Re Artù docet... 
Beh! Che dire, forse uomini liberi saranno stati i Cavalieri della Tavola Rotonda, perchè la società feudale del tempo, in barba a qualsiasi poema epico, era ben strutturata e alla libertà, alla povera gente concedeva ben poco. Per ben capire la società di quel tempo pensiamo ad una bella piramide, al vertice il re, al centro i feudatari e alla base i servi della gleba (i disgraziati...). La classe dei feudatari (quella che a noi oggi interessa) possedeva la terra ed esercitava il comando politico e militare, sostituendosi così alle funzioni dello Stato in tutto e per tutto. Il signorotto infatti amministrava la giustizia per tutti gli abitanti del villaggio, regolava le rendite dei raccolti, imponeva
tasse e pedaggi sulle strade e per non farsi mancare niente obbligava il villaggio a servirsi dei suoi mulini, dei suoi forni e delle sue taverne. Il "munifico" feudatario, onde mantenere tutti questi privilegi doveva giurare fedeltà assoluta al suo re (o imperatore o Papa che sia...), infrangere questo vincolo significava cadere nel reato di "fellonia", che era la colpa più grande che si  poteva commettere. Insomma, per mantenere sotto controllo tutto questo il micragnoso signorotto locale aveva bisogno di un segno distintivo per capire e sopratutto far capire agli altri "quello che è mio e quello che è tuo", ecco allora la nascita dello stemma. Lo stemma (detto anche "arma") ad onor del vero ha la sua genesi dall'esigenza di distinguere in maniera 
netta l'amico dal nemico in una eventuale battaglia. La sua maggior diffusione si ebbe sopratutto negli epici tornei cavallereschi e in epoca di Crociate. Il suo uso nel tempo, non servì solamente nel riconoscere una singola persona, ma si
distinse nell'identificare un'intera casata, una famiglia, trasformandosi poi in una vera espressione grafica del cognome, tant'è, rifacendosi alla suddetta regola del tempo "questo è mio", tali stemmi li possiamo trovare ancora oggi su case, palazzi, chiese, cappelle, tombe, mobili, gioielli e chi più ne ha più ne metta.
Il mondo degli stemmi d'altronde è un mondo complicato ed intricatissimo e tanto per dare un'infarinatura sull'argomento oggi affrontato, possiamo fare un veloce distinguo. Gli stemmi si dividono oggi come allora in due principali categorie: gli stemmi gentilizi, che sono quelli delle famiglie insignite di nobiltà titolata (re, principe duca, conte, Signore, Nobile e così via) e gli stemmi di cittadinanza (che in Garfagnana sono molti più di quello che si pensi), che sono posseduti da oltre cent'anni da famiglie che pur non essendo di nobili origini si sono distinte per censo, ceto o cariche ricoperte.
Dopo questo velocissimo excursus non ci rimane allora che intraprendere un viaggio negli stemmi delle famiglie feudatarie più rappresentative di tutta la Garfagnana. Erano loro che comandavano, erano loro che facevano il brutto e cattivo tempo nella valle e tutto sotto l'egida dei loro stemmi(gentilizi). Non erano stemmi creati a caso, ognuno aveva il loro significato: colori, animali, alberi, castelli, croci, ogni simbolo e ogni disegno aveva un perchè.
La famiglia dei conti Castracane degli Antelminelli aveva a capo il famoso condottiero Castruccio Castracani duca di Lucca, ebbe
possedimenti nella Media Valle del Serchio: Bagni Lucca, Ghivizzano e Castelnuovo Garfagnana, dove nel 1300 ampliò notevolmente quella che oggi è la Rocca Ariostesca. Il suo stemma è un levriero rampante, cane che simboleggia la caccia e quindi l'animo costante di seguire l'impresa, i colori invece sono l'azzurro del cielo, colore che rappresenta la gloria e l'argento a simboleggiare la purezza, l'innocenza e la giustizia.
Huscit, Teudimundo e Fraolmo, sono solo alcuni discendenti della casata dei Nobili di Corvaia, famiglia di origine longobarda che governò anche su Gallicano. Difatti prima del galletto rampante gallicanese, ai tempi di questa famiglia, lo stemma imperante in zona era un castello di rosso torricellato, fondato su un monte a tre
cime. Il castello era emblema di un'antica nobiltà, nonchè simbolo di un'arcaica podestà feudale, il monte poteva avere invece un doppio significato, poteva indicare proprietà montane o più filosoficamente parlando era simbolo di grandezza, sapienza e nobiltà.
Con poco sforzo di fantasia abbiamo anche tutta una serie di famiglie feudatarie "garfagnine" che prendono il nome proprio dal loro fondatore, una di queste è la famiglia dei Gherardinghi, casata (addirittura) di stirpe reale. Pare che le origini siano da far risalire ad Ariperto, nono re dei Longobardi, da cui sarebbe poi disceso Gherardo, vero capostipite della famiglia in questione. Già prima dell'anno mille i Gherardinghi esercitavano una solida egemonia su tutta la Garfagnana: San Romano, Sillicagnana, Naggio, Petrognano, Vibbiana, Pontecosi, il
Sillico, Bargecchia e perfino in territori più lontani come Sommocolonia e il Gragno. La loro opera delle opere rimase però la costruzione de "La Vericla Gerardenga", meglio conosciuta oggi come la Fortezza delle Verrucule. A cotanta famiglia non poteva mancare uno stemma dalle figure importanti, infatti qui è protagonista una testa di drago coronata, su fondo azzurro. Il favoloso animale rappresenta la fedeltà, la vigilanza e sopratutto il valore militare, la corona sopra la sua testa ribadisce il grado di nobiltà della stirpe.
Rodilando III non poteva che essere il patriarca dei Rolandinghi. La fortuna di questa casata si ebbe quando nel lontanissimo 935 Corrado, figlio di Rodilando fu eletto vescovo di Lucca... Vi potete immaginare quali furono i nepostici vantaggi... I possedimenti della famiglia si allargarono in buona parte della Valle del Serchio
e in Garfagnana: Vergemoli, Barga, Mologno, Coreglia, Gallicano, Ghivizzano, Bolognana e Cardoso. Il loro dominio veniva esercitato dalla "Domus Rolandinghorum de Loppia" situata nei pressi della Pieve omonima. Di fronte a tutta questa autorevolezza non poteva essere che l'aquila a padroneggiare sull'arme della casata: potenza, vittoria e fedeltà all'impero il suo senso.
"Discendenti da Suffredus", individuati nella persona di Sigifredo di Cunimondo, loro sono i Suffredinghi. Una serie di matrimoni combinati con le maggiori casate di tutto il circondario le portarono ad essere una famiglia potente e ricca. Le proprietà comprendevano la Rocca di Mozzano, Anchiano, La Cune, Chifenti Fornoli, Corsagna fino ad arrivare ai
possedimenti garfagnini di Gorfigliano e Careggine. Anche qui l'aquila imperiale fa mostra di sè sullo stemma.
Come abbiamo letto ci sono casate che prendono il nome dal loro fondatore, altre ancora, nel loro stemma richiamano il nome della propria famiglia, è il caso della stirpe dei Porcaresi che esercitava il suo dominio in buona parte dell'attuale provincia di Lucca. Infatti la loro nobile origine era nella piana di Lucca, erano comunque titolari di un notevole patrimonio terriero: oltre che a Lucca e in Versilia, la famiglia aveva un feudo anche in Garfagnana e Trassilico era la sua "capitale". Tale feudo comprendeva anche Cascio, Verni e tutte le zone limitrofe. Il nome di questa dinastia è abbastanza eloquente nel
descrivere lo stemma di lor signori: troncato di rosso e d'argento, a due cinghiali affrontati. Se al tempo i nemici di questa famiglia vedevano il nostrano animale su scudi e vessilli c'era da che preoccuparsi: caccia e coraggio, unito alla ferocia è il suo significato.
Che dire infine dei Malaspina... Qui le particolarità da analizzare nello stemma sono due: lo spino rappresentato nell'arme riporta proprio al nome della casata stessa. La seconda particolarità è da ricercare nelle numerose divisioni fra i discendenti di cotanta famiglia. La casata si divise in due feudi: il feudo dello Spino Secco e il feudo dello Spino Fiorito (quello che aveva proprietà anche in Garfagnana), di qui anche gli stemmi diventarono
due, in uno sarà  rappresentato uno spino secco, in un altro uno spino fiorito. Che significato dare a questo stemma allora? Non è facile trattare l'arme del casato Malaspina, ma se vogliamo dargli un senso possiamo dire che una pianta selvatica nel proprio stemma è simbolo d'indipendenza.
Il viaggio nei nobili stemmi garfagnini finisce qui. A me non rimane che chiedere venia agli intenditori e ai professionisti di tale materia per la mia superficialità nell'aver affrontato l'argomento. Non mi rimane che la speranza di aver stimolato l'interesse e la curiosità in qualcuno
dei miei lettori, in modo che si appassioni ad una disciplina avvincente e stimolante come l'araldica.



Bibliografia 
  •  "Blasonario della Garfagnana", Francesco Boni de Nobili, Banca dell'identità e della Memoria, anno 2007 
  • "La simbologia araldica" www.portalearaldica.it