mercoledì 27 gennaio 2021

Quando i cavatori garfagnini salvarono dalla distruzione lo splendore di Abu Simbel

L'Egitto, nella fantasia di ogni bambino rappresenta nell'immaginario
infantile la figura dell'esploratore e difficilmente possiamo dire il contrario visto che proprio quella terra è stata fonte di migliaia e migliaia di ritrovamenti e di scoperte archeologiche. Eppure, trovarsi di fronte al ritrovamento del tempio di Abu Simbel deve essere stata un'emozione unica, senza pari, superiore a qualsiasi sogno fanciullesco. Quel tempio fu eretto dodici secoli prima della venuta di Cristo sulla Terra e il faraone Ramses lo fece costruire per intimidire i nemici e per celebrare la sua vittoria nella battaglia di Qadesh. In effetti ancora oggi, vista la grandiosità e la magnificenza dell'opera, un po' di soggezione la mette ancora. Sulla facciata alta 33 metri e larga 38 spiccano le quattro statue di Ramses II, ognuna della quali è alta 20 metri e in ognuna il faraone indossa le corone dell'Alto e
Tempio di Nefertari
del Basso Egitto. Ai lati delle statue colossali ve ne sono altre più piccole, che rappresentano la madre Tula e la moglie Nefertari, mentre tra le gambe delle statue ce ne sono altre di alcuni dei suoi figli. Sopra le statue, proprio sul frontone del tempio ci sono altre 14 statue di babbuini che guardano verso est aspettando la nascita del sole per adorarlo, in origine  queste erano 22, quante erano le province dell'Alto Egitto. Insomma, possiamo dire senza ombra di dubbio che il complesso archeologico egiziano di Abu Simbel è uno dei più famosi e conosciuti al mondo, secondo solamente alle piramidi di Giza. Tuttavia quel 22 marzo 1813 quando l'esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt 
scoprì queste meraviglie, di quelle enormi statue spuntavano 
dalla terra solo le spalle: "Per un caso
Burckardt
fortunato mi allontanai di qualche passo verso sud e i miei occhi incontrarono la parte ancora visibile di quattro immense statue colossali, tagliate nella roccia alla distanza di circa duecento iarde dal tempio. Queste statue si trovano in un profondo avvallamento scavato nella collina
". Così lo studioso annotava ancora nel suo taccuino: "
Una delle statue ha ancora tutta la testa e una parte del petto e delle braccia fuori dalla sabbia. Di quella contigua non si vede quasi nulla, poiché il capo è rotto e il corpo è coperto di sabbia fin sopra le spalle. Delle altre due emergono solo le acconciature". Immaginatevi allora  l'entusiasmo per la scoperta. L'allegria e la gioia dell'esploratore svizzero era incontenibile, infatti furono informati i giornali di tutto il mondo e la fama di Burckhardt andò così alla stelle. Purtroppo questo entusiasmo durò poco e qualche mese dopo da quel mirabolante giorno tutto cadde un po' nel dimenticatoio. Fino al giorno in cui, alcuni anni dopo la scoperta, comparve sulla scena l'esploratore padovano Giovanni Belzoni, che rimase nella leggenda per aver riportato alla luce tutto il complesso di Abu Simbel. Le vicende ci narrano che Belzoni conobbe Burckhardt proprio in Egitto. Lo svizzero e l'italiano divennero amici e un bel giorno lo svizzero rivelò all'italiano di essersi imbattuto,
Giovanni Belzoni
risalendo il Nilo ai confini con la Nubia, nelle rovine di un tempio rupestre fronteggiato da quattro statue colossali e semisommerso dalla sabbia. Quei racconti stimolarono la curiosità di Belzoni e in seguito lo spinsero ad inoltrarsi nelle profondità nel paese, la sua intenzione era infatti quella di liberare il tempio di Ramses dalle migliaia di metri cubi di sabbia che lo circondavano. "Andammo al tempio di buon’ora, animati dall’idea di entrare finalmente nel sotterraneo che avevamo scoperto", scriverà Giovanni Battista Belzoni nel diario di viaggio
Dopo ventidue giorni di scavi, l'esploratore padovano sentiva che l’impresa era fatta e il mistero di Abu Simbel stava per essere svelato. Avevano spostato dieci metri di sabbia, lavorando col termometro che sfiorava i 50 gradi. La liberazione del tempio dalla sabbia avvenne il 1 agosto del 1817, fu un'impresa sensazionale. Difatti quella maledetta sabbia non bastava toglierla che quella ritornava. Belzoni aggirò l'ostacolo e con un colpo di genio gli venne l'idea di bagnare l'arenaria, innalzando al contempo palizzate di sostegno: "Togliere la sabbia ai lati perché potesse essere rimossa quella del centro". Fu così che quel giorno
Abu Simbel 1930
violarono il tempio maggiore, consegnando al mondo una vera e propria meraviglia. Trascorsero qualcosa come 142 anni da quel giorno e anche la Garfagnana entrò con Belzoni a far parte della storia del faraone Ramses e di Abu Simbel. Tutto cominciò nel 1959, quando il presidente egiziano Nasser diede il via alla costruzione della grande diga di Assuan, opera indispensabile per la modernizzazione del Paese. La costruzione della diga avrebbe comportato la creazione di un immenso lago a valle della diga (l'attuale lago Nasser), nel bel mezzo della regione storica della Nubia. Tale regione era disseminata di straordinari complessi faraonici di inestimabile valore storico e culturale, destinati però ad essere sommersi dalle acque del grande lago artificiale. Tra questi c'era anche l'immenso tempio di Abu Simbel. Cosa fare allora? Quale soluzione? L'otto marzo 1960 l'UNESCO per bocca del suo direttore generale Vittorino Veronese rivolse un appello a tutti i paesi del mondo perchè partecipassero a un'operazione d'emergenza: il salvataggio del patrimonio archeologico dell'Egitto che stava per essere sommerso dalla diga di Assuan. Una
La diga di Assuan
gara di solidarietà a cui il nostro governo (insieme a molti altri) aderì con estrema convinzione e generosità. Comunque sia rimaneva in molti la convinzione dell'impossibilità del salvataggio del ciclopico sito, era un'impresa quasi impossibile, considerando proprio le dimensioni e l'urgenza dell'operazione (l'inondazione era prevista per il 1966) e in più i dubbi degli ingegneri su quale procedimento eseguire per la salvezza di Abu Simbel erano molti. Nel 1963 si decise per la soluzione più improbabile e la più spettacolare, si decise 
che i templi sarebbero stati tagliati in più di mille blocchi, per essere trasferiti su un altopiano 65 metri più in alto e rimontati esattamente nella posizione originale. Nella pratica ciò significava rimuovere tonnellate di terra e trasportare centinaia di blocchi di pietra.
Lavori ad Abu Simbel
foto di Werner Emse
Era un’impresa senza precedenti e ancor oggi rappresenta 
una pietra miliare ineguagliabile nella storia dell’archeologia. Ecco allora entrare in scena la Garfagnana e la sua gente. Il governo italiano affidò gli stupefacenti lavori all'impresa lombarda "Impregilo", che si mise così a cercare manodopera in tutta Italia per il taglio dei blocchi di pietra. Fu così che gli ingegneri della ditta milanese si recarono anche in Garfagnana. A Gorfigliano esisteva il fior fiore degli intagliatori di marmo, furono reclutati così il meglio della specializzazione marmifera locale: Tonino Marchi e il figlio Carlo, Leandro Casotti, Ivano Paladini e Michele Ferri, tutti giovani ragazzi che avevano cominciato a lavorare il marmo fin da
ragazzetti, il Pisanino e la Tambura furono per loro una vera e propria palestra  d'esperienza, quell'esperienza che dovevano trasferire per salvare una delle più importanti opere dell'archeologia mondiale. Il loro compito sarebbe stato quello di tagliare, smontare, trasferire e riassemblare 1003 blocchi di pietra. Insieme a loro una poderosa squadra di altri cavatori di marmo, un nucleo decisivo di duemila persone fra tecnici e operai che dovevano riposizionare perfettamente il tempio, portandolo sessanta metri più in alto in perfetto allineamento solare, così com'era nella vecchia collocazione quando una lama di luce  all'alba di ogni 22 ottobre e 22 febbraio penetra nella profondità del tempio illuminando le statue divine. Al loro arrivo in Egitto gli operai garfagnini trovarono sul luogo di lavoro una vera e propria città abitata da tremila persone, costruita proprio per questa impresa, non mancava niente, negozi, bar, alloggi, mense e perfino una centrale elettrica. Il lavoro si doveva svolgere in quattro fasi e la prima di questi
foto di Georg Gerster 
 fasi era quella che impegnava gli operai di Gorfigliano. Gli uomini 
si dedicarono a rimuovere tonnellate di roccia attorno ai templi. Precedentemente era stata collocata al loro interno un’armatura d’acciaio per evitare frane, mentre le facciate furono ricoperte di sabbia per prevenire danni alle sculture. Quindi l’operazione più delicata: il taglio in blocchi degli ipogei. Si effettuarono delle sezioni di tre metri di altezza fino a cinque di lunghezza, con un peso di 20 tonnellate per pareti e soffitti e di 30 per la facciata. Il contratto stabiliva che i tagli dovessero essere di un 
foto di Georg Gerster
massimo di 6 millimetri, ma i marmisti si fecero un punto di orgoglio nel farli ancora più sottili, soprattutto negli elementi decorativi. Una volta tagliati, i blocchi venivano etichettati con un codice che ne indicava la posizione, venivano introdotti in contenitori di cemento rinforzato e trasferiti in un sito di deposito. I lavori durarono otto anni, dal 1960 fino a quel 22 settembre 1968, quando con una grande cerimonia si annunciò al mondo la rinascita dei magnifici complessi monumentali di Ramses II e di sua moglie Nefertari. L'Egitto nel ringraziare le ventidue nazioni che aderirono all'impresa decise che questi partecipanti avrebbero potuto conservare una parte dei pezzi rinvenuti negli scavi. Quattro Paesi ricevettero in omaggio perfino un tempio completo che fu inviato e smontato e poi ricostruito nel luogo di adozione, per questo che oggi a Torino troviamo il 
tempio di Ellesija, a New York quello di Dendur, a Leida quello di Tafa e a Madrid quello di Debod. Infine il governo egiziano dalla pagine de "Il Corriere della Sera" scrisse parole di ringraziamento
foto di John Keshishi
agli italiani, ricordando che: "
Era stato salvato il gioiello dei tesori della Nubia, il monumento più grandioso mai scolpito nella roccia, esaudendo in questo modo il sogno del faraone Ramses di rendere il suo tempio immortale", anche grazie, aggiungo io, agli operai garfagnini.


Bibliografia

  • "Il trasferimento del Tempio di Abu Simbel" di Ester Pons Mellado, "Storica- National Geographic", settembre 2020
  • "Cinque operai da Gorfigliano in Egitto per salvare i tesori della Valle dei Re", "La Nazione- Lucca" di Amilcare Paladini. Anno 1960

mercoledì 20 gennaio 2021

C'era una volta un ragazzo lucchese: la vita di Romina Cecconi

Questa che vado a raccontarvi non è una bella storia, è una storia
fatta di soprusi, persecuzioni, sofferenze e violenze. Quello però che rende speciale questa vicenda è la voglia di emancipazione e di rivalsa sociale da parte della protagonista nell'Italia bigotta e puritana del dopoguerra. Non parleremo allora, come è mia abitudine, di belle tradizioni garfagnine o
 di guerre fra estensi e lucchesi, parleremo però di una lotta, la lotta per la propria libertà. Questa, infatti è la storia di Romano Cecconi, diventato Romina. Romano era nata nel momento sbagliato (in piena guerra mondiale) e nel corpo sbagliato. Si, avete capito bene, nel corpo sbagliato, perchè lei si sentiva donna a tutti gli effetti, tant'è che dopo una lunga battaglia legale fu la seconda persona in Italia che ottenne sui documenti d'identità il riconoscimento del suo nuovo genere dopo l'operazione del cambiamento di sesso, contribuendo così ad aprire la strada alle legge 164, che permette tutt'oggi l'adeguamento del nome sui documenti. Nacque così a Lucca, era il 4 luglio del 1941. Schiaffi, litigi, umiliazioni, per tutti era la "donnicciola", questa era la sua vita in una provincia lucchese diversa da quella attuale, legata a tradizioni antiche dove il "pater familias" era a capo di tutto il parentado, dove la società era ben distinta in uomini e donne, gli uomini lavoravano  e le donne accudivano ai figli, vie alternative non esistevano e quando esistevano si tenevano ben nascoste, erano considerate uno scherzo della natura o peggio ancora un abominio di Dio, una punizione divina. Ma a quei tempi Romano non ce la faceva a nascondere quella che era la sua vera e propria essenza e quella madre (n.d.r: nativa di Bagni di Lucca) un po' manesca non ce la faceva a frenare gli istinti di quel ragazzetto:- Tante sculacciate gli davo da bambino. Visto come fanno le bambine, si girano, si atteggiano e si pavoneggiano e così faceva anche lui e io ero turbata, sicuramente non mi faceva piacere e io lo picchiavo e lui le pigliava, stava zitto e ricominciava nuovamente a fare in quel modo...-. La svolta della sua vita ci fu qualche anno dopo quando la mamma per fuggire dalla miseria più nera che attanagliava la valle nel dopoguerra decise di trasferirsi a Firenze e andare a lavorare in una trattoria. D'altronde uscire dalla
Firenze anni 60
provincia per Romina era come uscire da un incubo:- Non ho mai conosciuto il mio vero padre, quello che ci adottò era un brav'uomo, ma spesso si ubriacava e diventava violento. Dopo la sua morte siamo arrivate in una città che non conoscevamo, ma che ci sembrava bellissima-. A quindici anni Romina trovò il suo primo lavoro in San Frediano (n.d.r: un quartiere di Firenze), imparò a fare la doratura delle cornici, ma il mestiere durò ben poco, le distrazioni e al tempo stesso le opportunità che dava la città alle sue ambizioni andavano sfruttate... L'ambizione difatti era il palcoscenico, ma come ebbe a dire Romina: "Cosa resta per chi nasce in un corpo sbagliato? Solo due scelte: il palcoscenico o il marciapiede. Provai con il primo ma finì sul secondo..." Il suo esordio nel mondo dello spettacolo infatti fu al "Circo Gratta" e come un fenomeno da baraccone sulla locandina era presentata come "L'uomo-donna", li si esibiva ballando il Bolero, si travestiva da Brigitte Bardot e da Milva, ma il suo numero venne cancellato, turbava i giovani... Tentò la fortuna poi nella lontana Parigi nel famoso locale "Chez Madame Arthur", non raggiuse mai il successo, ma imparò ad assumere ormoni per ingrossare il seno. Tornò allora a Firenze e divenne con il tempo un personaggio conosciuto, le sue passeggiate notturne vestita vistosamente da donna in abiti
La Romanina
coloratissimi, lo sculettare in jeans strettissimi fecero nascere il mito de "la Romanina". Cominciarono così i problemi seri... Lei e la sua amica Silvia incominciarono a frequentare il Parco della Cascine, ogni giorno la Buoncostume faceva retate, passava più il suo tempo in Questura che sul marciapiede e le multe a suo carico per oltraggio al pubblico pudore fioccavano e cominciavano veramente a farsi tante. Quei soldi fatti con il mestiere più antico del mondo servivano per la tanto sospirata operazione per cambiare sesso, non certo per pagare multe. Ma nonostante tutto il mito della Romanina continuava imperterrito nel suo successo nella Firenze degli sessanta:-
 Ero diventata una star, tanto che quando iniziai a fare la vita su e giù per via Tornabuoni (n.d.r: una delle vie del lusso di Firenze), la mia clientela era fatta di medici, avvocati, architetti. Io e la Silvia entrammo nel bel mondo di Firenze dalla porta principale. I ricchi ci invitavano nei loro attici con vista. Una volta mi ricordo che in una cantina vicino Santo Spirito, una taverna frequentata dalle grandi famiglie della città dove si facevano gli spogliarelli, ci fu una retata della
Buoncostume e finimmo tutti sulla rivista 
Specchio. Fu la mia prima copertina. Non c’era festa, night club o appuntamento mondano in cui io e la Silvia non fossimo le star. Ogni volta che succedeva qualcosa il giorno dopo mi ritrovavo sulle pagine de "La Nazione"
, con titoloni che gridavano allo scandalo. Lo facevano per vendere più copie, naturalmente- Insomma Romina era diventata una vera e propria icona, di sè, se ne accorse anche il jet set internazionale che la voleva nei suoi salotti, era amica delle figlie di Chaplin e il suo flirt con Vittorio Emanuele di Savoia fece scandalo. La misura però era colma, pressioni politiche sulla questura di Firenze da parte della Democrazia Cristiana dicevano di chiudere questo scandaloso capitolo. La palla fu presa al balzo e in violazione dell'articolo 85 del codice Rocco alla Romanina gli fu imposto il coprifuoco, divieto di uscire di casa nelle ore serali e notturne e l'obbligo di vestirsi da uomo. Ovviamente Romina non avrebbe mai rispettato tali restrizioni e così le condanne aumentavano, 
per ben quattro volte le porte del carcere sia maschile che femminile si aprirono per lei e come se non bastasse subì perfino l'umiliazione delle visite psichiatriche. Arrivò così anche il 1968 e se quell'anno per l'Italia fu il momento della grande contestazione per Romina il suo '68 si tradusse nel suo anno peggiore che coincise con la sua totale repressione. "Persona socialmente pericolosa" così recitava la motivazione per cui Romina venne spedita al confino, al soggiorno obbligato nel sud più profondo, a Volturino un paesino
Volturino (Foggia)
montano di duemila anime in provincia di Foggia, tanti "riguardi" non venivano prestati nemmeno ad un pericoloso mafioso. 
A dispetto dei giudici, per Romina quello fu il giorno della liberazione, non della repressione:-Quando scattò il confino, che ormai andavo per i trenta, mi dissi: ora o mai più. Casablanca era lontana, ma Losanna no. Prosciugai il conto in banca e scappai. Costava 700 mila lire quell'operazione. I soldi non bastarono. Scrissi a mamma: dimentica tutto, aiutami. Due giorni dopo eccola lì di persona, il mio cuor di mamma, con 500 mila lire in una busta, i risparmi di una vita. Sapeva di avermi ridato la vita per una seconda volta. Ci siamo guardate e abbiamo iniziato a piangere, come due grulle. Non avevo paura più di nulla, né del confino, né del ritorno alla solita vita. Che soddisfazione, due anni dopo, sventolare sotto il naso di un agente i documenti con scritto "sesso: effe"-. Nonostante questo al suo rientro in Italia la Patria non si dimenticò di lei, anzi fu lei che una volta rientrata dalla Svizzera si autodenunciò per scontare il famoso confino, e fu mandata inesorabilmente a scontare la sua pena a Volturino. Passati  tre anni nel paesino foggiano la sua fama si diffuse ancor di più. Romina aveva vinto, il suo stato di donna gli era stato
Romina Cecconi a Firenze
legalmente riconosciuto, aveva dovuto citare in tribunale perfino l'anagrafe, i tempi delle umiliazioni, delle violenze, dei processi e del carcere erano finiti, era arrivato il momento di aiutare le altre perchè non subissero la sua stessa sorte, 
ma non c'erano ancora leggi al riguardo, ma grazie a lei ce la fecero molte altre e lei le ha aiutò organizzando scioperi, cortei, andando in televisione e scrivendo un libro. Fu il 1976 e in tutte le librerie uscì "Io la Romanina: perchè sono diventato donna". Il libro ebbe un successo clamoroso, la Firenze dei salotti buoni cominciò a tremare per gli eventuali nomi che li potevano comparire (n.d.r: i nomi non c'erano ma si potevano intuire). Fu poi invitata anche nelle trasmissioni da Enzo Tortora per parlare della sua storia e il famoso regista Mauro Bolognini nel 1978 girò su di lei un reportage dal titolo: "C'era una volta un ragazzo: la vita di Romina Cecconi". Sulle sue vicende fu fatto perfino uno spettacolo teatrale con l'attrice Anna Meacci che ancora oggi viene rappresentato: "La Romanina-La vera storia del primo uomo in Italia diventato donna". Ma oggi "la Romanina" che fine ha fatto?
Romina è ancora in gran forma, quest'anno compirà ottant'anni e adesso vive a Bologna. Gli anni sono trascorsi e passate le luci della ribalta la sua vita si è svolta regolarmente, un marito, un divorzio, un fidanzato che la convinse a lasciare la strada e a comprarsi un edicola, proprio in quella Bologna in cui adesso vive. 
Per tutto il mondo l.g.b.t è ancora un mito per il resto è tutto un lontanissimo ricordo.


Bibliografia

  • "Ero Romano, diventai Romina e l'Italia mi mandò al confino" di Michele Smargiassi, "La Repubblica" 1 dicembre 2002
  • "Le mie notti da Romanina" di Marco Luceri, "Corriere Fiorentino",11 novembre 2015
  • "Romanina, la donna pipistrello", "orlandomagazine.it" di Salvatore (Paolo) Pazzi, 13 aprile 2019 
  • "C'era una volta un ragazzo: la vita di Romina Cecconi" documentario RAI di Mauro Bolognini anno 1978
Il titolo dell'articolo in questione è ispirato dal documentario RAI di Mauro Bolognini "C'era una volta un ragazzo: la vita di Romina Cecconi"

mercoledì 13 gennaio 2021

Garfagnana: non solo "terra di lupi e briganti", ma anche terra di scienza

Tutto cominciò in questo modo qui: "Più tosto di' ch'io lascierò
l'asprezza di questi sassi, e questa gente inculta, simile al luogo ove ella è nata e avvezza"
. Era il 1524 e Messer Ludovico Ariosto governatore estense in Garfagnana con questi versi pose 
a perpetua memoria un marchio indelebile sulla pelle dei garfagnini. Da quella sua lettera (Satira VII) scritta all'amico Bonaventura Pistofilo dalla sua Rocca di Castelnuovo, il garfagnino fu etichettato per sempre come persona gretta, ignorante e senza cultura, proprio così, come le caratteristiche morfologiche della terra in cui viveva. Per dirla tutta non è che queste illazioni "ariostesche" fossero del tutto campate in aria, quello no, al tempo in Garfagnana regnava l'anarchia, le persone per le proprie necessità si affidavano di più ai briganti che allo Stato, perdipiù la gente viveva semplicemente dei frutti del campo e nella più completa
Briganti di epoca
ariostesca
umiltà, però portarsi addosso questa etichetta per secoli non è giusto e nemmanco vero. I tempi passano e le persone si evolvono e a confermare l'errata teoria che la Garfagnana fosse solo "terra di lupi e di briganti" è il fatto incontrovertibile che fu anche "terra di scienza". Ebbene si, nonostante tutte le opinabili opinioni questa terra così piccola e limitata partorì nei secoli a venire tre grandi scienziati di fama mondiale, dalle cui scoperte ancora oggi l'umanità trae benefici, scoperte che tutt'ora vengono studiate ed analizzate in tutte le università del mondo. Curiosamente possiamo notare che 
in età moderna di questi dotti personaggi la nostra terra ne generò uno per secolo, un numero altissimo considerando il nostro "piccolo orto" e fu proprio nel XVII secolo che nacque a Trassilico da Lorenzo e da Maria Lucrezia Davini di Camporgiano Antonio Vallisneri, era il 3 maggio 1661. Il padre era originario della provincia di Reggio Emilia e a Trassilico(oggi comune di Gallicano)ricopriva la carica di capitano di ragione della Vicaria. Tanto per capire capire bene chi fosse il Vallisneri è giusto dire che fu il principale esponente della tradizione medica galileiana tra il 1600 e il 1700. Era un uomo la cui erudizione spaziava in tutti i campi del sapere, dalla medicina all'anatomia comparata, dall'entomologia (n.d.r: lo studio degli
insetti)alle scienze della Terra per arrivare perfino all'embriologia. Insomma un'attività di studio intensissima, divulgata attraverso un carteggio monumentale che gli consentì senza ombra di dubbio di esercitare in Italia una sorta di egemonia culturale scientifica nei primi trent'anni del 1700. Tutta questa sua notorietà lo portò anche ad ottenere la cattedra di medicina pratica dell'università di Padova e in seguito quella di teoretica. Le sue ricerche e i suoi esperimenti ottennero poi risultati eclatanti: la scoperta dell'origine dei fossili, quella delle sorgenti, nonchè il ciclo di riproduzione degli insetti si devono soprattutto al suo sapere. La sua fama non si fermò qui e oltrepassò addirittura i confini italici, tant'è che la sua notorietà raggiunse le maggiori capitali europee al punto che l'imperatore Carlo VI d'Asburgo lo volle con sè, nominandolo medico di corte. All'apice della sua carriera, a sessantanove anni d'età (nel 1730), morì improvvisamente. Le sue spoglie mortali riposano nella Chiesa degli Eremitani a Padova. In suo onore è stata chiamata una pianta acquatica, la Vallisneria e a lui è dedicato il complesso che ospita i dipartimenti di biologia, di chimica biologica e di scienze biomediche sperimentali dell'università di Padova. Trassilico terra fertile non c'è che dire, infatti il secondo scienziato in questione è un'ennesimo trassilichino: Leopoldo Nobili, personaggio dalla vita a dir poco movimentata. Anche lui come il suo illustre compaesano
sopracitato fu figlio di un notabile di origine reggiana, il padre difatti era il podestà del borgo. Il futuro scienziato nacque a Trassilico il 5 luglio del 1784, in piena età napoleonica e dei mirabolanti trionfi dell'imperatore francese fu difatti ammaliato, tanto da iscriversi alla scuola militare di Modena. Li divenne uno studente modello, i suoi prodigiosi studi sulla matematica e sulla fisica meravigliarono perfino i suoi professori, sicuramente quello che faceva al suo caso sarebbe stata una carriera scientifica, non quella militare. Dello stesso avviso fu il padre che cercò in tutte le maniere di convincerlo a intraprendere la via dello studio, ma così non fu e con il grado di capitano d'artiglieria si arruolò nella Grande Armata napoleonica per partecipare alla campagna di Russia. Nelle steppe russe fu fatto prigioniero dai cosacchi e dopo inenarrabili peripezia riuscì a fuggire e a raggiungere l'amata Italia. Nonostante ciò gli fu riconosciuto il grande valore con cui aveva combattuto, tanto da ottenere la Legion d'Onore. Finita l'euforia napoleonica Leopoldo, per fortuna della scienza, riprese i suoi studi e le sue scoperte non si fecero attendere. Nel 1825 inventò il galvanometro (n.d.r: dispositivo che traduce corrente elettrica in un momento magnetico), l'anno successivo fu il turno della pila termoelettrica e in seguito brevettò il sistema di metallocromie. Queste invenzioni lo portarono
Trassilico
a fare conferenze in tutte le cattedre d'Europa, tant'è che la sua fama si diffuse su tutto il continente. Fu considerato il primo fra i fisici italiani della prima metà del 1800 "degno di stare vicino a Galileo e di confabulare con Volta", così come disse il professor Balletti nel suo volume "La storia di Reggio Emilia". Ma a quanto pare le sue aspirazioni rivoluzionarie prevalevano su quelle del sapere e il suo fermento politico tornò inesorabilmente fuori. Così fu che nel 1831 prese parte ai moti nel Ducato di Modena, le cose non andarono bene, anzi gli costarono veramente care, tanto che, una volta falliti i moti insurrezionali fu costretto all'esilio. Rientrato dalla lontana Francia trovò riparo nel Granducato di Toscana e Leopoldo II, il granduca, lo incaricò di reggere la cattedra di fisica sperimentale di Firenze. Pochi anni dopo il suo incarico i postumi delle scelleratezze giovanili si fecero sentire, e a causa di una malattia contratta nella campagna di Russia, il 22 agosto 1835 all'età di cinquant'uno anni il Nobili morì. Fu sepolto nella Basilica di Santa Croce di Firenze, oggi riposa accanto a Galileo Galilei, Michelangelo, Machiavelli e Ugo Foscolo...Da un secolo ad un altro e il XX secolo fu il secolo che vide la nascita di Francesco Vecchiacchi. Nacque a Filicaia (comune di Camporgiano) il 9 ottobre 1902 e già da giovanissimo prese su di se la passione dello zio ingegnere, tanto da costruirsi nelle vacanze estive un apparecchio radio ricevente. Già questo la diceva tutta sulle doti
del futuro inventore ed infatti dopo aver frequentato il liceo, nel 1925 si laureò in fisica in quel di Pisa (suo compagno di corso era Enrico Fermi). Una volta laureato fra le tante domande di lavoro inviate ci fu anche quella spedita alla Magneti Marelli di Milano che lo assunse nel 1932, li, con il tempo divenne direttore del laboratorio radio. Nella medesima città gli fu anche assegnata la cattedra di comunicazioni elettriche presso il politecnico. Grazie anche a queste nuove mansioni le possibilità di studio del professore garfagnino si ampliarono e fu proprio in quegli anni che grazie a Vecchiacchi l'Italia prese l'indiscusso primato nel campo dei ponti radio. Difatti nel 1939 il suo contributo fu fondamentale nella realizzazione del primo ponte radio multicanale: Milano- Cimone- Terminillo- Roma. Quell'anno fu poi magico, ed un ennesimo successo trovò compimento nella Fiera Campionaria di Milano. Mancavano ancora quindici anni prima dell'inizio delle trasmissioni ufficiali da parte della RAI, ma grazie a lui, proprio da quei locali e dagli strumenti da lui progettati realizzò con meraviglia di tutti la prima trasmissione sperimentale. Con gli anni e con il progresso le innovazioni in materia si svilupparono ancor di più, ed ecco che nel 1952 il professore garfagnino mise in funzione il ponte radio televisivo sperimentale TO-MI, primo collegamento a banda larga in Italia per le trasmissioni RAI. Da quel momento fu un fiorire di ponti radio sempre più sofisticati su tutti i monti della penisola. Nel frattempo il Vecchiacchi stava lavorando sul grandioso ponte radio Milano Palermo, in grado di portare il programma televisivo ripreso in qualsiasi punto d'Italia a tutti i trasmettitori nazionali e alla rete europea. Di questo progetto purtroppo il professor non vedrà mai la fine, proprio in quell'anno, il 1955, le prime avvisaglie di un brutto male si fecero sentire e a cinquantatre anni il 20 novembre di quel maledetto anno il "Cecco" (com'era chiamato affettuosamente in Garfagnana) morì. Non rivedrà mai più la sua bella Garfagnana e le sue amate Apuane che lo vedevano come un appassionato escursionista (il C.A.I gli intitolerà una via ferrata), decise però di ritornarci a riposarvi per sempre. Oggi è sepolto nel cimitero di Filicaia.
Detto ciò non rimane la speranza che da lassù, leggendo quest'articolo, il buon Ariosto si ricreda che da "questa fossa profonda" come ebbe a definire la Garfagnana non nacquero solo famigerati banditi, ma soprattutto gente che lasciò ai posteri il frutto del loro sapere... Ah! A proposito dimenticavo... Per quanto riguarda il XXI secolo in Garfagnana c'è ancora un posto libero da scienziato...

Bibliografia

"Profili di uomini illustri della Valle del Serchio e della Garfagnana" di Giulio Simonini, Comunità Montana della Garfagnana Banca dell'Identità e della Memoria anno 2009

mercoledì 6 gennaio 2021

Una "nuova" ed intrigante tesi sull'origine del nome Garfagnana

Isaac Newton, il famoso scienziato inglese, un giorno ebbe a dire:
"Nessuna grande scoperta è mai stata fatta senza una audace ipotesi" e se lo diceva lui non si poteva che dargli ragione. D'altronde cos'è un ipotesi se non un'idea provvisoria il cui valore deve essere accertato? Quindi per avanzare una determinata teoria ci vuole anche coraggio, poichè può essere sbugiardata in qualsiasi momento, a patto che dall'altra parte si formuli un'ennesima ipotesi supportata da ragionamenti congrui e osservazioni calzanti. Tutto questo bel ragionamento perchè tempo fa ho avuto modo di leggere ed analizzare una nuova supposizione sul significato del nome della nostra terra: la Garfagnana. Ci siamo sempre basati, ed io per primo, su svariate teorie da sempre consolidate. Difatti al tempo scrissi anch'io un articolo in cui citavo le svariate possibilità etimologiche del nome Garfagnana e mi rifacevo ad un ipotetico Tito Carfanius colono romano, nonchè proprietario latifondista di vaste
terre. Poi passavo ad analizzare antichi etimi in cui "carpana" o "garfana" potevano significare montagna o roccia. Naturalmente in queste molteplici possibilità non potevo nemmeno trascurare i Liguri- Apuani e il loro linguaggio, in cui "car" significherebbe pietra e "fania" fascia, ossia fascia di pietra. Infine, sempre su questo articolo, sfatavo la congettura più famosa che vuole che il termine Garfagnana trovi la sua nascita nelle parole "Grande Selva". Niente di più sbagliato, e questo non lo dico io, modesto studioso, ma esimi ricercatori che asseriscono che "grande selva" è una denominazione recentissima (pare XVI secolo) che veniva aggiunta alla parola Garfagnana, ovvero, Garfagnana detta "la grande selva". Insomma, quello che tengo a sottolineare è che tutte queste teorie non è che siano farlocche, tutt'altro, rientrano in ipotesi più che valide, che si appoggiano su studi seri e complicati, però, come detto qualche riga sopra la mia attenzione settimane fa è stata rapita dalla più recente di tutte queste ipotesi, la più nuova, la meno conosciuta e che merita quindi di entrare nel novero delle possibili supposizioni sul misterioso nome Garfagnana. D'altra parte bisogna dare una mano agli audaci e questo audace porta il nome di Pellegrino Paolucci. Ma chi era Pellegrino Paolucci? Ebbene, il Paolucci fu un grande studioso del diciottesimo secolo, nonchè parroco di Sillano. I suoi studi d'altronde erano tutto dire sull'erudizione di quest'uomo: egli studiò a Modena umanità e grammatica, a Parma logica e filosofia e a Pisa leggi civili e nel 1720 (a pochi mesi dalla sua morte) pubblicò
la sua più grande opera dal titolo "Garfagnana Illustrata". In questo libro si raccontava in maniera dettagliata la storia e le tradizioni della nostra valle. Studiando appunto questo volume mi accorsi infatti della suggestiva ed affascinante ipotesi dell'origine del nome "Garfagnana", una illazione al quanto interessante, mai udita ne letta prima. Tanto per rendere un po' più chiaro questo misterioso scenario partiamo con il dire che la prima volta che troviamo scritta la parola "Garfagnana"  è nel 769 d.C e la troviamo scritta coma "Carfaniana". In altri testi di poco successivi le diciture variano in: "Carfagnana", "Carfignana" oppure "Carfiniana". Rimane il fatto che il nostro illustre ricercatore su tutto questo proliferare di vocaboli ebbe una teoria tutta sua, che si basava su una dea della mitologia romana (già però conosciuta dagli etruschi): la dea Feronia. Questa dea era la protettrice della natura, degli animali selvaggi (dal latino: fera, ferae, le fiere)
, dei boschi e delle messi, come pure dei malati e degli schiavi riusciti a liberarsi.
Rappresentazione
della dea Feronia
Sempre secondo la mitologia romana, Feronia era anche la dea della fertilità e sotto la sua protezione stava proprio ogni tipo di fertilità conosciuta, quindi non solo quella degli uomini, ma anche quella delle acque sorgive, del suolo e degli animali. Insomma era una dea della Natura, una dea, a quanto pare, fatta su misura sulle caratteristiche del territorio e del paesaggio garfagnino. Infatti, sempre secondo Paolucci, tutto l'arcano sulla nascita del nome della nostra terra gira tutt'intorno a questa divinità pagana. Già dalla sua denominazione latina 
"Capharonia" si troverebbe infatti la sua genesi. Tant'è che riferito a questo si racconta che dalle nostre parti il culto di questa dea era molto sentito e molti templi erano stati eretti per ingraziarsi la benevolenza della divinità. Intorno a questi templi, com'è rimasta poi usanza anche ai giorni nostri con le cosiddette canoniche, sorgevano le case dei sacerdoti di Feronia, queste case  presero poi il nome di Ca' Feronia, ossia casa di Feronia. Da Ca' Feronia, con il passare dei secoli il nome venne "corrotto" in "Cafaronia". Sempre secondo l'eminente parroco, molte di queste "Caferonie" (cioè case dei sacerdoti di Feronia), con l'avvento del cristianesimo vennero sostituite dalle attuali chiese, un fenomeno questo molto diffuso quando una cultura si sovrappone ad un'altra, specialmente se si parla di fede cristiana che dentro di se integrò questi antichi luoghi di culto pagani in una sorta di continuazione devozionale. Ma
il Paolucci, oltre a farci conoscere queste particolarità fece ancor di più e non si fermò solamente a congetture puramente analitiche e con uno slancio di fantasia narrò come in una sorta di romanzo epico di quando le truppe romane arrivarono in questa selvaggia ed innominata terra e si posero la domanda di quale nome darle: "Allorchè la Romana Potenza ebbe ritrovata la valle, vedendola innominata e bramando di porle un nome che si adattasse alle sue qualità; co' soliti riti, e auguri fece ricorso ai suoi idoli, da' quali ebbe risposta, che le fosse dato il nome da lei meritato...". Il nome tanto meritato venne fuori quando i romani, una volta ispezionata la valle si resero conto che la sua terra poteva produrre di tutto e si riferirono ad essa come: "
tellus illa FERT OMNIA"("una terra che produrrà ogni cosa"). Dopodichè, il tempo vorace di vocaboli, mangiò alcune lettere trasformando "fert omnia"
in Feronia, mutandosi poi per le ragioni sopra citate
nelle parole composte che generarono l'espressione "Ca' Feronia", il passo successivo fu di conseguenza il definitivo cambiamento in "Garfagnana". Con tutto ciò anche lo stesso Paolucci nella sua bellissima opera non dava spazio alla certezza assoluta della sua tesi, anzi, anche lui affermava che varie sono le ipotesi da prendere in considerazione e nella sua umiltà di uomo antico così disse: "Concludo che in questa varietà d'opinioni è difficile accertarne la vera. Ciascuna ha del probabile, onde chiascheduno può seguire quella che più gli aggrada".


Bibliografia

  • "La Garfagnana Illustrata", Pellegrino Paolucci, anno 1720