giovedì 30 gennaio 2020

I Gurkha nepalesi, soldati dimenticati nella storia della Garfagnana

Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Nuova Zelanda, Sud Africa,
Francia, Polonia, Italia, Brasile, India, Nepal, Belgio, Jugoslavia, Grecia, Terranova, Caraibi, Siria-Libano, Cipro, Senegal, Lesotho, Swaziland, Botswana, Seychelles, Mauritius. No, non è una sorta di "villaggio globale", ma fu lo stesso generale inglese Alexander che nelle sue memorie sui tragici fatti della Campagna d'Italia, durante la seconda guerra mondiale, elencò di avere avuto a sua disposizione contingenti militari di ben ventisei nazioni, una vera e propria Babele di razze e di lingue che si presentarono per la prima volta di fronte all'attonito popolo italiano. Anche i garfagnini per la prima volta si trovarono davanti a persone dalle fisionomie diverse dalla loro, molti furono presi da un vero e proprio senso di sbigottimento, lo stupore di trovarsi davanti persone "diverse" che parlavano un'altra lingua e avevamo abitudine differenti fu un vero shock, perdipiù (anche se alleati) la diffidenza aumentava: questi uomini erano armati fino ai denti. 
In Garfagnana, sul fronte della Linea Gotica si attestarono soldati
Soldati americani della
92a divisione Buffalo
di diverse nazioni, oltre ai tedeschi (che nelle loro truppe avevano austriaci, slavi e polacchi), c'erano americani (sopratutto gli afro-americani della 92a Divisione Buffalo) e i Brasiliani della F.E.B, che insieme furono i protagonisti assoluti dello scenario bellico garfagnino, ma ci furono altri soldati che quando furono chiamati a supporto della V Armata Americana si fecero trovare subito pronti e anche se il loro intervento nella valle fu marginale, non gli è stato mai riconosciuto il merito che probabilmente gli spettava, bene o male sarebbero stati pronti a morire per la liberazione della Garfagnana, proprio come gli stessi brasiliani e americani, il destino e gli eventi poi gli evitarono di scendere direttamente in battaglia, ma questo è un altro discorso. Questi soldati facevano parte dell' VIII Armata Britannica, ma erano tutt'altro che inglesi, erano i nepalesi della Brigata Gurkha.


Fieri, coraggiosi, leali fino alla morte hanno combattuto a fianco degli inglesi in tutte le guerre, la regina Vittoria li chiamava "i miei piccoli orientali così prodi e fedeli". Fedeli, in quanto erano legati da un debito di gratitudine alla corona inglese che li aveva difesi durante un invasione cinese. 
"Ayo Gurkha!", era il grido di battaglia che da oltre un secolo e mezzo precedeva l'attacco che lanciavano ai nemici di Sua Maestà. La loro tipica arma era il kukri, un micidiale coltello dalla lama ricurva e il loro nome deriva dalla città nepalese omonima. Piccoli, robustissimi erano i figli della dimora dei ghiacci: L'Himalaya, il loro coraggio veniva proprio da quella terra, dallo dura lotta con la vita e in questo se si vuole e con le dovute proporzioni erano simili ai garfagnini, dato che fin dalla
Il Kukri arma tipica dei Gurkha
nascita i genitori abituavano i loro figli a non sentire la fatica, a camminare molte ore al giorno per cacciare e per procurarsi i beni essenziali. Fieri e sicuri di se si rivelarono combattenti ideali per situazioni disperate, quando ogni altro reparto sembrava ormai sconfitto e con il morale sotto i piedi, allora venivano chiamati i Gurkha, proprio come nel caso della celeberrima Battaglia di Natale che si svolse in Garfagnana tra il 26 e il 28 dicembre 1944. Un'offensiva tedesca che sbaragliò le posizione alleate respingendoli di diversi chilometri, che vide, nonostante la valorosa reazione, il pauroso sbandamento della 92a Divisione Buffalo. Gli afro americani si erano ritirati in maniera disordinata per oltre dieci chilometri, lasciando, armi, munizioni,viveri e attrezzature nelle mani del nemico. La situazione a questo punto era allarmante per gli alleati, bisognava tappare la falla che si era creata su quel tratto di Linea Gotica garfagnina. Già da giorni però gli americani avevano notato strani movimenti di truppe tedesche e fu deciso così di mettere in allerta anche l'VIII Divisione Indiana e i Gurkha che ne facevano parte. Nel solito mese infatti, la 2a Divisione Neozelandese, insieme alla Divisione

Indiana, liberarono Faenza sul settore Adriatico della Linea, di fatto la resistenza sul fronte si fece più tranquilla, fu così, per questo motivo che Gurkha furono mandati in supporto alla disfatta alleata che si stava compiendo in Garfagnana. Quando arrivano però i valorosi soldati nepalesi, i tedeschi si erano già ritirati sulle posizioni di partenza, pertanto non ci fu nessun intervento diretto nella battaglia, ci furono però casi sporadici di guerriglia contro uomini della San Marco che stavano ripiegando, alcune unità d'avanscoperta dei Gurkha furono attirate in un'imboscata che si concluse con la distruzione di due mezzi blindati e la perdita di diversi soldati da ambo le parti. Altra documentazione sulla loro presenza(almeno a me)oltre ai fatti nudi e crudi dei loro interventi in Garfagnana non rimane, rimangono però impresse nella mente le parole di un anziana e minuta donna nepalese, moglie di Santa Bahaudur Rai, soldato Gurkha, morto in Garfagnana per circostanze sconosciute: "Non ricordo quando mio marito si arruolò. Dopo circa sei anni seppi che era arrivata una lettera. Mio suocero non si preoccupò di spiegarmene il contenuto. Mi disse solo che mio marito non c'era più, e che avremmo dovuto
celebrare i riti funebri. Seguii semplicemente le istruzioni e feci quanto mi chiesero di fare. Non potevo credere che mio marito fosse morto. Non ho mai visto il suo cadavere. Mio padre avrebbe voluto che mi risposassi. Ma non sono mai riuscita a dimenticarlo. Mantengo ancora la speranza che un giorno possa apparire di nuovo. In più di un'occasione ho sentito dire che era ancora vivo ed era stato promosso capitano"(n.d.r.: testimonianza raccolta da Luca Villa dell'Istituto beni culturali).Di li a poco i valorosi nepalesi vennero trasferiti a Pisa per un periodo di riposo. Ma quello che non fecero in Garfagnana,fu fatto prima a Montecassino e poi sempre sulla Linea Gotica nella parte adriatica, fu li in quella zona d'Italia  che lasciarono un segno tangibile del loro valore, tanto che a Rimini esiste il "Rimini Gurkha War Cimitery" dove sono sepolti 790 "Royal Gurkha Rifleman", si stima che in Italia persero la vita circa diecimila uomini, tutti
"Rimini Gurkha War Cimitery"
giovani di età compresa fra 18 e 26 anni. Ci furono molti atti di coraggio, come accadde a Sher Bahadur Thapa insignito della Vittoria Cross, il massimo riconoscimento conferito ad un soldato al servizio di Sua Maestà Britannica, per aver tentato insieme ai suoi compagni di espugnare San Marino o Thaman Gurung che ebbe la stessa sorte due mesi dopo presso Monte San Bartolo. Oggi i Gurkha esistono sempre, sono 3640 soldati, facenti parte di uno dei più prestigiosi corpi militari del mondo. Ormai è dal 1815 che prestano servizio per la corona del Regno Unito, il loro ultimo compito è stato quello di sorvegliare lo storico incontro tra il presidente americano Trump e quello
nordcoreano Kim Jong-Un. Ma quello che non si può dimenticare è che furono inviati a combattere in un Paese lontanissimo da loro; si chiamava Italia e all'Italia donarono il loro coraggio, i loro sogni e la loro stessa vita.   




Bibliografia:

  • "Arrivano i Gurkha" di Luca Villa, casa editrice "Il Ponte" anno 2007
  • "Il Rimini Gurkha War Cimitery", oltremagazine.com, di Daniela Argiropulos, ottobre 2009

giovedì 23 gennaio 2020

Leggende, segreti e benedizioni. Quando gli animali erano veramente importanti in Garfagnana

"Era già più di un'ora che dalla cima del poggio stavo ad aspettare.
Il "mi" babbo, m'aveva detto di stare li ad aspettare buona, buona e attenta, intanto lui  e gli zii erano a metter a posto la stalla, a spalare il letame e a dare una pulita alla bella meglio allo
stallino del maiale, mentre la mamma e la "mi" sorella erano a dare una spazzata al gallinaio e a metter paglia nuova alle conigliere. In fondo a me stava bene anche così, m'era toccato il lavoro più leggero: sdraiata sulla "poggetta" al sole, a mirar la strada, ad aspettare Monsignore. D'altronde è giusto così, a primavera la benedizione è dei cristiani, ma oggi è Sant'Antonio e la benedizione tocca agli animali". Queste parole della Beppa mi sono rimaste sempre impresse nella mia memoria, fin da bimbetto, e il parallelismo fra "cristiani" e animali centra perfettamente l'importanza fondamentale di quest'ultimi. In una cultura contadina come quella garfagnina la cura dell'animale era una seria fonte di preoccupazione, quasi si trattasse proprio di uno dei membri della famiglia, perdere un'animale sarebbe stato un danno irreparabile per la famiglia. Nella maggior parte delle nostre famiglie esistevano in genere almeno una mucca, un bue, utilizzati per il reperimento delle risorse alimentari e per il lavoro nei campi, non mancavano nemmeno le pecore e tanto meno il maiale, le cui carni (conservate) avevano un apporto proteico nei duri inverni garfagnini di una volta. Insomma rappresentavano un'elemento irrinunciabile, ogni famiglia da loro traeva elementi necessari per
la sopravvivenza: carne, latte, formaggi, uova, burro e lana. Capirete voi allora del perchè anche loro avevano bisogno di protezione divina, proprio come gli uomini, e se per noi umani e la nostra casa era la Pasqua il momento della benedizione, per gli animali e per le stalle il giorno preordinato era il 17 gennaio, il giorno dedicato a Sant'Antonio Abate, protettore degli animali domestici. In quel giorno il prete faceva proprio come nei giorni che precedevano la Pasqua, invece di girare casa per casa, in quella data andava stalla per stalla ad impartire benedizioni a destra e a manca e proprio come si faceva (e come si fa ancora oggi)per la visita del prete, era l'occasione per un'accurata pulizia delle case. All'epoca, la stessa cosa veniva fatta con le stalle che in quel giorno venivano tirate a lucido(fin dove si poteva). In altri casi per agevolare la vita al parroco, gli animali venivano portati a benedire nella piazza principale del paese, il sacerdote poi gli avrebbe reso grazia con una formula vecchia di secoli:"O Dio creatore fonte di ogni bene,che negli animali ci hai dato un segno
della tua provvidenza 
e una compagnia nella fatica quotidiana, per  intercessione di S. Antonio Abate fa' che in un armonioso rapporto con la creazione, 
impariamo a servire e amare te sopra ogni cosa". Non sarebbe mancata poi l'occasione di un ritrovo e di un convivio contadino, un momento dove poter festeggiare mangiando e bevendo con dei vecchi amici, fare affari e comprare qualcosa per la casa. Ecco, come nacquero le fiere che si svolgono proprio il 17 gennaio.
D'altro canto non poteva che essere Sant'Antonio il protettore degli animali domestici, dato che prima di cominciare la carriera di Santo il suo lavoro era il "porcaio", infatti spesso nelle iconografie è rappresentato con un maialino ai piedi, quel maialino che non lo volle nemmeno abbandonare quando il santo fece visita all'inferno. Era un giorno freddissimo e Antonio, che aveva portato i maiali fuori a mangiare, cercò proprio all'inferno un luogo caldo dove ripararsi. I diavoli avendolo conosciuto non lo vollero far entrare, ma un vivace maialino s'intrufolò in uno spiraglio della porta aperta degli inferi, immaginate voi lo scompiglio, correva in ogni angolo e metteva sottosopra ogni cosa, i demoni erano disperati non riuscivano ad afferrarlo e disperati chiesero l'intervento del
Santo. Egli entrò e proprio come il fidato porcellino anche Antonio cominciò a tormentare i diavoli, facendoli inciampare con il suo bastone, indispettiti i demoni gli strapparono il bastone di mano e lo gettarono nelle fiamme, allora l'animale cominciò a fare confusione più che prima, a quel punto Antonio disse che avrebbe fatto quietare il suo fidato compagno solo se gli fosse stato restituito il suo bastone. I diavolacci lo accontentarono, ma il santo appena tornato nel mondo dei vivi cominciò a roteare il suo bastone in area come se stesse benedicendo,le scintille volarono da tutte le parti accendendo falò in ogni dove, da quel giorno per l'uomo fu il fuoco. 
Ma chi fu davvero Antonio? Era un egiziano del III secolo d.C che prima di convertirsi al Cristianesimo era un ricco nobile. Un bel giorno però, dopo che negli anni ne aveva combinate di ogni colore, mise in vendita ogni suo bene e abbandonò ogni agio, si ritirò in eremitaggio nel deserto di Tiberiade facendo voto di castità e povertà, fu qui in questo luogo che fu tentato più e più volte dal Diavolo che gli apparve sotto forma di maiale e in effetti è proprio questo episodio che fa si che il Santo venga rappresentato con il maiale: in questo caso il maiale, essere immondo, rappresentava il diavolo sottomesso da Sant'Antonio. A partire dal XII secolo il maiale venne "redento", quando fu concesso ai fraticelli antoniani il privilegio di allevare questi animali. Nei pressi dei loro monasteri non mancava mai nè un
mattatoio e nè un ospedale....vediamo il perchè. Nelle città dove erano presenti i religiosi ci si lamentava del fatto che i maialini andassero beatamente liberi per le strade, i comuni vietarono la circolazione, bisognava però salvaguardare la loro integrità fisica visto che la proprietà era degli Antoniani stessi. I frati infatti dagli animali ricavavano succulenta carne, ma sopratutto del loro grasso facevano unguenti e balsami, da usare negli ospedali da loro gestiti, questi rimedi erano perfetti per guarire da delle dolorose piaghe: l'herpers zoster, ovvero il fuoco di Sant'Antonio. Allora guai a toccare un maiale degli Antoniani, il Santo si sarebbe vendicato colpendo lo sventurato con la stessa malattia. Proprio al solito periodo risale la nascita della tradizione di benedire gli animali, i maiali sopratutto, destinati oltre che a riempire la pancia dei frati, ad alleviare le sofferenze dei malati, con tale benedizione "le bestiole" venivano preservate da ogni epidemia. Con il passare del tempo la tradizione si consolidò e i fraticelli quando andavano per le campagne a chiedere offerte per il convento si facevano accompagnare da un suino tenuto da una cordicella,
aspergendo poi ad ogni offerta dei devoti acqua santa anche sugli animali dei pii contadini. Le meraviglie non finiscono qui ed un'ennesima leggenda, conosciuta anche in Garfagnana, ci racconta proprio che ogni 17 gennaio gli animali avranno facoltà di parola; i contadini si tenevano però lontani dalle stalle perchè udire gli animali conversare sarebbe stato segno di cattivo auspicio... Peccato!.. chissà le cose che ci direbbero...

mercoledì 15 gennaio 2020

Le tracce dell' Antica Roma in Garfagnana: nei nomi dei paesi, nell'urbanistica e nelle strade

"Non fuit in solo Roma peracta die", ovvero, "Roma non fu costruita in un giorno", così dicevano gli antichi romani e niente di questo è più vero. Questa non solo è una frase fatta ed intesa in senso ideale: diffusione dei loro usi, costumi, religione, ma è una frase che trova il suo pieno significato nel senso letterale della parola. Immaginiamoci di essere nel 117 d.C, il momento di massima espansione dell'impero di Roma, la sua superficie ricopriva quasi sei milioni di Km2, quante strade saranno state fatte per raggiungere ogni suo angolo? Quante città saranno state fondate o riedificate? Da qualche ipotetico calcolo si dice che "solamente" di strade consolari lastricate e in terra battuta siano state realizzate in un numero difficilmente calcolabile, ma pari però ad una lunghezza complessiva di duecentocinquantamila chilometri circa. Per quanto riguarda la fondazione di colonie, castra o qualsivoglia centro abitato, in effetti anche qui non si ha un'idea precisa, tante sono le
Impero Romano
formazioni nei secoli di queste future e nuove città. Quello che si sa di sicuro è che buona parte dei paesi conosciuti in Garfagnana è di origine romana; in ognuno di essi c'è il marchio di Roma, nel loro nome e nella struttura urbanistica e stradale del paese stesso. Ma prima di addentrarci nell'argomento facciamo un salto indietro di oltre duemila anni e vediamo come arrivarono i romani nelle terre perdute di Garfagnana. Erano gli anni della dura lotta contro gli Apuani, coloro che in origine abitavano le nostre montagne, questi rudi uomini erano di ostacolo alla potente Roma, che mirava  ad un'ennesimo sbocco sulla Pianura Padana e a una possibile via alternativa per raggiungere la Gallia. Finalmente (per i romani), dopo caparbie lotte (durate anni e anni), ebbe su di loro la meglio, sconfiggendoli una volta per tutte. In concomitanza con la loro sconfitta venne fondata la colonia di "Luk", (oggi Lucca), il nome era (ed è) di origine celto-ligure e
Lucca romana
significherebbe "luogo paludoso",eravamo nel 180 a.C e questa nuova colonia era di fondamentale importanza dal momento che controllava lo sbocco della Valle dell'Auser (Auser: nome antico del fiume Serchio). Di notevole importanza, tre anni dopo (177 a.C) fu la fondazione di una nuova colonia, la colonia di "Luna" (o meglio di Luni), la città, nata alle foci del fiume Magra, fu un porto fluviale e marittimo di notevole importanza, la sua posizione era strategica da un punto di vista commerciale, da li venivano imbarcati verso Roma i blocchi di marmo delle Apuane che abbelliranno la potente Roma...e in mezzo a queste due colonie c'era una valle che doveva fare da collegamento, una valle espropriata con il sangue nemico che doveva essere
Il porto di Luni
completamente colonizzata: questa valle era la Garfagnana. Il primo passo da fare era di adoperarsi per una vera e propria urbanizzazione, la Garfagnana era una terra a dir poco selvaggia, impervia e difficilmente raggiungibile, ci sarebbe stato da rimboccarsi le maniche e così fu. Per le opere infrastrutturali i romani presero spunto dal modello greco, ma con una sostanziale differenza:
"Mentre i Greci consideravano di aver raggiunto la perfezione con la fondazione di città, preoccupandosi della loro bellezza, della sicurezza, dei porti e delle risorse naturali del paese, i Romani pensarono soprattutto a quello che i Greci avevano trascurato: fare le strade per raggiungere queste città", più chiaro di così Strabone (storico e geografo greco del 60 a.C)non poteva essere. Infatti il console romano Claudio Marcello, nel 183 a.C curò la realizzazione della prima strada (consolare) che avrebbe attraversato la Garfagnana: la Via Clodia, che prendeva proprio il
la via Clodia
nome dal suo ispiratore; la strada partiva da Lucca e toccava Sesto di Moriano, Valdottavo e Diecimo, località che prenderanno il nome dalle pietre miliari li poste per segnalare la loro distanza da Lucca (sextum, octavum, decimun lapidem), risaliva poi la Valle del Serchio, passava per tutta la Garfagnana fino a Piazza al Serchio, da dove proseguiva verso nord e verso Luni (l'altra colonia), valicando il Passo di Tea. Un altra mossa fondamentale e vitale sarebbe stato quello di abitarle queste zone... La Garfagnana fino a quel tempo era una zona quasi inesplorata, gli inverni erano duri e rigidissimi, insomma era un luogo veramente inospitale. Che fare allora? La prima cosa fatta fu quella di insediare dei presidi militari, dei "castra"(o castrum). Questi castra, proprio come nel caso garfagnino, venivano edificati in luoghi di frontiera e costruiti (come ancora oggi appare) su sommità, posizione ideale per fronteggiare eventuali attacchi nemici. Non immaginiamoci però questi accampamenti in stile "Asterix", per meglio capirsi questi insediamenti non si basavano su tende come alloggi, ma avevano edifici veri e propri, poichè questi siti erano luoghi stanziali, dove le truppe vivevano, difesi da
Castra romano
solide mura, a conferma di questo, nella maggioranza dei casi in Garfagnana si svilupparono sopratutto dei "castra" cosiddetti "stativa", cioè accampamenti stabili, fatti per essere sempre abitati, tant'è, che li i legionari portavano le loro famiglie e gli ufficiali avevano delle case di tutto rispetto. Nella maggior parte dei casi queste abitazioni erano fatte in legno, che con il tempo si evolveranno in costruzioni in muratura e ancora con i lustri, i decenni e i secoli cresceranno e si articoleranno nei paesi che oggi conosciamo. Non solo, lo sviluppo di questi posti fu incentivato anche da Roma, qualunque cittadino romano che avesse avuto intenzione di abitare o colonizzare queste impenetrabili terre avrebbe avuto vantaggi fiscali importanti, nonchè la distribuzione gratuita delle terre, ecco che grazie anche a ciò, intorno a questi castra si sviluppò anche un certo commercio e la creazione di strade
la costruzione delle strade
secondarie, quelle che collegavano il castra al bosco (per il rifornimento di legna) o quelle che univano al villaggio più vicino, per agevolare scambi o piccoli commerci. Ma perchè per la Garfagnana si parla di "castra" e non di colonia come per Lucca e Luni? Va fatto un sostanziale distinguo, la colonia non era affatto un presidio militare, ma bensi per colonia si designava quel luogo dove veniva insediato un gruppo di cittadini romani, che li stabilivano un centro autonomo ma con vincoli di stretta alleanza con Roma. Rimane il fatto, che oggi nelle viuzze interne dei nostri paesi si possono ancora vedere gli assetti viari dell'antica Roma, spesso non ci facciamo caso, ma buona parte delle stradine interne dei centri storici garfagnini (di fondazione romana) formano un reticolato di cammini che si intrecciano fra loro, attraversati da un cosiddetto "Cardo Massimo" (la strada principale che attraversava l'accampamento romano da nord a sud) e da un decumano maggiore (la strada principale che tagliava il luogo da est a ovest), ad esempio, questo si può notare benissimo a Gallicano, il cardo massimo attraversa tutto il centro storico per via Bertini, mentre il decumano maggiore è quello che oggi unisce est -ovest via San
esempio di castra romano
Fabiano, via San Sebastiano e via Castello. Questo schema urbanistico, 
tipico degli accampamenti romani, creava di fatto un quadrilatero e nell'intersecarsi delle due strade principali si trovava il Foro, il luogo centrale della vita sociale, dove sorgevano gli edifici pubblici e dove si sviluppava il mercato. Ci sono paesi garfagnini però, che sono più "romani" che altri, perchè hanno l'impronta della "Città Eterna" anche nel nome. Alcuni addirittura prendono la denominazione da esimi consoli e generali. E' il caso di Sillano, che trae le sue origini fra storia e leggenda. A quanto pare nell'anno 102 a.C, il generale romano Lucio Cornelio Silla, proprio dove ora sorge il paese, fece costruire alcune capanne dai suoi soldati, una grossa
Lucio Cornelio Silla
nevicata infatti aveva bloccato per giorni la sua guarnigione sulla strada che conduceva in Gallia, mentre stava andando in soccorso alle truppe comandate dal cognato Gaio Mario. Una volta terminato il maltempo, le capanne vennero abbandonate e abitate da pastori e boscaioli locali. Vanta origini di un certo lignaggio anche Minucciano, nella figura del console Quinto Minucio Termo, dove qui fondò un castra, posto a difesa del confine, contro eventuali invasioni barbariche. Ben più modesta, in fatto solamente di scala gerarchica, la genesi di Gallicano, il nome prenderebbe origine da Cornelius Gallicanus valoroso legionario, al quale questa terra fu donata da Roma come ricompensa per le sue imprese, il suo nome compare addirittura nella "Tabula alimentare Traianea", un'iscrizione in bronzo dove si fa riferimento a dei prestiti fatti ai nuovi proprietari terrieri. Un colono di umili origini doveva essere anche tal "Fuscianus", che ebbe i suoi possedimenti in quel di Fosciandora, come anche a poca distanza, a Ceserana, ebbe le sue terre un certo "Caeserius", per non parlare di "Cassio" che ebbe buon occhio quando prese possesso delle terre di Cascio. Questi sono alcuni esempi, per rimarcare, se ce ne fosse
Gallicano
bisogno, l'impronta che lasciò Roma. Perchè la grandezza di Roma, fu il risultato non solo della potenza militare, ma sopratutto ebbe la grossa abilità di tenere insieme ed integrare le varie parti di un impero velocemente conquistato. Il suo dominio politico fu il più capace (fra quelli dell'antichità)a suscitare consensi e gettare radici, lasciando segni nel paesaggio, nella lingua, nella cultura e nel diritto delle nazioni. 




Bibliografia

  • Imperium Romanun. La civiltà Romana.
  • Storia universale. Strabone

giovedì 9 gennaio 2020

Rocca La Meja: la più grande tragedia (voluta) di militari garfagnini in tempo di pace

Rocca La Meja... Per molti garfagnini questo luogo non dirà niente
, molti, forse, non sapranno neanche dove si trova, ma qui, in questi posti c'è un pezzo di Garfagnana. Rocca La Meja è una montagna delle Alpi Cozie, ben più alta delle nostre Apuane, dai suoi 2831 metri si ha una vista magnifica sulla Val Maira e su Canosio, un comune piemontese di appena ottanta anime che si trova in provincia di Cuneo. A poco più di trenta chilometri però c'è un altro "paesotto": Dronero. Ecco, questa località per le orecchie garfagnine può già suonare più familiare. E' infatti dal 1906 che Dronero si lega a filo con la storia della nostra valle e con gli alpini di casa nostra. Proprio da quell'anno li, furono arruolati nel battaglione omonimo la stragrande maggioranza dei garfagnini, sia in tempo di pace, sia nelle due guerre mondiali. Il ricordo di questi garfagnini, molti di loro usciti di casa la prima volta, rimase impresso anche nella
Dronero,caserma alpini Beltricco
memoria dei piemontesi locali che così ne narravano: "
Quei conforti (i gelati acquistati dagli alpini in libera uscita per Dronero), erano possibili per chi disponeva di qualche lira e, i piemontesi, salvo poche eccezioni qualche liretta l'avevano tutti, ma, i toscanini (n.d.r: un soprannome dato che aveva origine in due parole:toscani e garfagnini), in fatto di finanze se la passavano peggio di noi, ed era notorio che alcuni di loro passarono i 18 mesi di naia senza mai ricevere soldi da qualunque parte fosse.
La loro disponibilità di denaro veniva dalla "decade" (50 centesimi ogni 10 giorni, pagati dall'ufficio contabilità della compagnia). Di conseguenza, per chi non disponeva di quattrini voleva dire tribolare a digiuno dal rancio della sera fino al rancio del giorno dopo alle 11.30.Cari toscani, contadini, montanari della Garfagnana
Rocca La Meja oggi
o cavatori di marmo delle Apuane, io li stimavo. 
Arrivavano al Battaglione Dronero in maggioranza magri, denutriti, ma ben decisi a non essere da meno dei montanari delle Alpi. Molto frugali, sobri, non disdegnavano la "sbobba" che passava il convento e, seduti addossati ai muri del cortile se il tempo era bello, come del resto si faceva un po' tutti, tenendo la gavetta in mezzo alle ginocchia, mangiavano con appetito tutto; che fossero i "tubi" (i maccheroni), il lesso di vacca vecchia o il pastone di riso stracotto e fagioli semi crudi del rancio serale. Quando ce n'era in abbondanza non se la lasciavano scappare, mangiandola poi, la sera tardi, seduti sulla branda prima dell'appello o del silenzio. 
Mangiando tutto da non schifilitosi, quei bravi ragazzi si irrobustivano e, in fatto di resistenza alle fatiche e ai disagi della vita militare, non avevano nulla da invidiare ai valligiani piemontesi".
Per far capire bene la presenza della gente della valle, emblematico
Compagnia del battaglione Dronero
fine anni 30
è anche il ricordo di Luigi Grilli di Pieve Fosciana che appena arrivato alla caserma "Aldo Beltricco" di Dronero trovò di sentinella il suo amico Tommaso Tagliasacchi, in men che non si dica fu una rimpatriata di persone e conoscenti tutti garfagnini, molti di loro però non tornarono più a casa, nel 1942, il viaggio nelle steppe russe, durante la seconda guerra mondiale fu senza ritorno. Ma questa è un'altra storia. Ma anche la storia che sto per raccontarvi fu altrettanto drammatica e dolorosa, una storia che merita di essere ricordata perchè fu 
la più grande tragedia di militari garfagnini in tempo di pace. 
Il ricordo di quella sciagura lo lascio però alla penna di un testimone diretto, lo scrittore Pietro Ponzio, classe 1905.Correva l'anno 1937, era il 1° febbraio, e in quel maledetto anno, sul Rocca La Meja, si compì (volutamente) una strage di alpini.
"Dopo tre giorni, durante i quali aveva nevicato fitto fitto,
Caserma della Gardetta 1922
finalmente una sera ad occidente le nubi si ruppero, appena in tempo per lasciar vedere mezzo disco di sole che stava tramontando dietro il monte Cassìn:-Segno di bel tempo per il giorno che arriverà- pensarono gli abitanti del Préit. 
Infatti il giorno seguente i mattinieri, con gradita sorpresa, constatarono una limpidezza di cielo da rallegrare il cuore, ma quasi contemporaneamente e con minor piacere sentirono frullare "l'aire marìn", una brezza sciroccale e ciò voleva dire, dopo così imponente nevicata, pericolo immediato e sicuro di valanghe.
Ore 8 di quella mattina: dalla mulattiera, che dal fondovalle immette nella piazzetta dinnanzi alla chiesa, sbuca una colonna di soldati. Sono gli alpini della 18a compagnia del battaglione
Esercitazioni invernali in
Valle Maira fine anni 30
Dronero. Carichi come muli di pesanti zaini, fucili, racchette e ansanti, via via che giungono, si radunano e fanno alt per un momento di sosta. Un borioso capitano, pur con evidente riluttanza, si degna tuttavia di rivolgere la parola a un gruppetto di gente del posto, che stava osservando i soldati, per avere qualche informazione sull'itinerario in direzione della Gardéto. Gli interpellati, grandemente stupiti che quell'ufficiale voglia mettere i suoi soldati in così grave pericolo di essere travolti da qualche valanga, cercano di dissuaderlo, pregandolo di desistere, ché voler marciare verso Gardéto con una nevicata simile ed il vento di scirocco equivale ad un suicidio.Un tenente, che senza parlare aveva seguito il dialogo, si avvicina e dice al suo superiore:-Capitano, se questa gente ch'è del posto ed ha certamente esperienza, avesse
Esercitazioni invernali anni 30
ragione?-.Ma il capitano, infastidito, tronca la parola al tenente, dicendogli:-Lasci perdere, tenente, che vuole che sappiano costoro! Sono solo dei "rozzi" montanari-.
E la compagnia, dopo breve sosta, si rimette in marcia. Un andare massacrante! Gli uomini del plotone sciatori, pur faticando molto anch'essi, si tengono relativamente a galla, ma quelli del grosso della compagnia, anche con le racchette ai piedi, affondano in quello spesso manto nevoso di due e più metri di altezza, col risultato che la marcia si svolge talmente lenta, da impiegare più di un'ora e mezzo per coprire i circa due chilometri e mezzo che separano Preit dalla borgata Corte. 
Qui la compagnia fa di nuovo alt, ed alle reiterate e pressanti esortazioni che la gente del posto fa di nuovo a quel capitano, perché non prosegua la marcia, tanto è immediato ed
Canosio oggi
evidente il pericolo, costui, senza tenerne conto, ancora una volta offende con volgari apprezzamenti. 
Dopo breve tragitto la compagnia giunge a Grangéto, al bivio da cui si dipartono due direttrici verso la "counco de Pianés": a sinistra per Grànjos Quialaussà e la Méyo e a destra – la più breve – direttamente verso la Gardéto. Là il capitano si trova nell'incertezza: a destra i ripidi costoni di monte Pralounc gli danno da pensare; di fronte, a distanza, gli ancor più ripidi costoni sotto le Tres Poùnchos par che gli dicano: vieni, la morte ti aspetta! Nel rugginoso testone di quell'uomo impastato di sufficienza, pare che cominci a concretarsi qualche briciola di ragionamento; si consulta con il suo tenente e opta per la direttrice Quialaussà-La Meyo. Da quella parte, anche se minore, il pericolo esiste pur sempre e, malgrado certi schianti di assestamento, che potrebbero anche dare inizio a rovinose valanghe e che fanno raggelare il sangue nelle vene a quei malcapitati ed estenuati ragazzi, la marcia continua, miracolosamente senza danni, fin dopo Grànjos Quialaussà, ma, qui giunti, sentono in alto, alla loro sinistra, il pauroso boato d'una valanga, che si è staccata dal
Rocca La Meja innevata
monte Bergia e precipita veloce nella loro direzione.

Affondati come sono nella neve e impacciati dalle racchette, ogni tentativo di sottrarsi all'investimento con la fuga appare impossibile. Ma là si verifica il miracolo! Fu davvero un miracolo che quella montagna di neve precipitante si arresti quasi a contatto con la colonna degli alpini, sfiorandola per lungo, con una inspiegabile deviazione dalla direttrice di caduta. Quel pauroso avvertimento dovrebbe far capire al capitano che è giunto, anche se in extremis, il momento di adottare ogni possibile accorgimento, per garantire il minimo di incolumità ai suoi uomini per il resto della marcia. Ma non è così. Dopo ancora un altro chilometro di cammino faticoso, giunti oramai alla base dei vasti e ripidi costoni sotto i contrafforti ovest di Rocca La Meja, là dove parte un crinale modestamente elevato, facilmente transitabile, che si allunga fin verso lou Jas de Marguerino, il capitano lo infila con il plotone degli sciatori, diretto a quella località, ed ordina al tenente di salire con la compagnia fino a metà costone, di transitarlo poi in trasversale verso sud e di riunirsi agli sciatori alle Granjos-de-la-Marguérino. Nessun "rozzo" montanaro, per cafone che fosse, e nessun ufficiale di truppe alpine degno di quella qualifica avrebbe, senza inderogabile necessità, mandato degli uomini a transitare quel costone in condizioni di così palese pericolo, ma avrebbe fruito del crinale fuori pericolo, dove, appunto, furono fatti passare gli sciatori. E perché quell'incosciente capitano non lo fece?
Sta di fatto che, appena la colonna inizia la traversata, una
valanga si stacca e investe il plotone di testa, trascinando in basso gli uomini e seppellendoli in un avvallamento. Nella grande disgrazia, fu fortuna che l'attraversamento era appena iniziato: poiché, se la neve fosse rovinata quando tutta la compagnia era inoltrata, essa al completo sarebbe stata travolta.
Altra circostanza inspiegabile per chi conosce la vita alpina e le rigorose norme preposte a garanzia della sicurezza degli uomini durante le marce militari in montagna, perché queste avvengano almeno con il minor danno possibile, è che in condizioni così pericolose il responsabile della compagnia non abbia fatto svolgere le funicelle da valanga. Dimenticanza? Indifferenza per l'incolumità dei suoi alpini, forse considerati non figli di mamma, ma solamente oggetti? Ore 17, già quasi il crepuscolo. Una pattuglietta di sciatori, sfiniti ed angosciati, arriva al Préit, di ritorno dalla marcia. Ai primi incontrati hanno appena il fiato di mormorare:-Sotto Rocca la Meya quasi tutto il plotone è rimasto sepolto da una valanga! La compagnia è di ritorno, molto staccata da noi-.
La notizia si sparge e in un baleno tutta la popolazione è radunata

nella piazzetta. L'ansia è grande, anche alcuni alpini del posto sono in quella compagnia, ma, fortunatamente, più tardi risulteranno tra gli scampati.
Passa un certo tempo e a monte sbuca una compagnia. Gli alpini procedono a testa bassa, sfiniti, con il morale a terra. Il capitano è disgustosamente impassibile, sul suo viso non si notano tracce di emozione, né di dolore, né rimorso. Lascia i suoi alpini sulla piazza fermi e disorientati e si dirige verso l'unica piccola locanda del posto, per ristorarsi. Un giovane sottotenente (il tenente era rimasto sotto la valanga) raduna i suoi soldati e li conduce ad una grande stalla disabitata, priva di porte e di finestre, dove avrebbero dovuto pernottare, senza disporre nemmeno di un giaciglio di paglia asciutta per stendervi le ossa indolenzite. Ma la grande umanità ed il buon cuore dei "rozzi" montanari del Préit in breve tempo si portò via gli alpini, a gruppetti, disponendoli al caldo un po' dappertutto: nelle stalle, se erano sane e asciutte, oppure nelle cucine, al caldo delle stufe.
Vengono subito ristorati con grandi tazzoni di caffè o latte
I primi soccorsi
bollente, poi fatti cenare con un po' tutto quel che la gente aveva a disposizione in fatto di vivande. Nelle stalle dormiranno su asciutti giacigli di paglia e nelle cucine su delle coperte stese sul pavimento, attorno alle stufe. Quella gente aiutò gli alpini come fossero figli suoi".

Una disgrazia che poteva essere evitata e tutto questo tormento per cosa? Per una semplice esercitazione militare. Nessuna urgenza, nessuna impellenza di una qualsivoglia azione di guerra o di soccorso, solo l'arroganza, la superbia e la presunzione umana vinsero sul rispetto della vita. I soccorsi comunque sia partirono immediatamente. La 19a compagnia alpini Dronero, mettendo a repentaglio la loro vita, partì alla ricerca di eventuali sopravvissuti. La valanga che colpì quei poveri alpini era enorme: 500 metri di lunghezza, tanto era grande la slavina che non lasciava individuare punti precisi per la ricerca dei corpi e più passavano le ore e più diminuiva la speranza di trovare qualche superstite. Con il tempo che passava e l'estenuante lavoro degli alpini cominciarono ad essere ritrovate le prime vittime: corpi inermi
i soccorsi sul Rocca La Meja
sotto dieci metri di neve, corpi sfigurati a causa del pietrame che la valanga aveva trascinato con se, altri poveri ragazzi nell'attesa della morte furono trovati abbracciati. Enorme fu però la gioia quando fu ritrovato vivo il caporale Busca...quel giorno evitò la morte, un'appuntamento rimandato solo di qualche anno, quando partì per le desolate steppe russe. Alla fine della storia i morti furono 23 (alcuni recuperati mesi e mesi dopo, con lo scioglimento delle nevi), cinque furono quelli
  salvati e come sempre le medaglie al valore, le corone di fiori e i funerali solenni misero la parola conclusione ad un dramma voluto dalla scelleratezza umana.
Di quei giovani garfagnini non ci rimane altro che il loro nome degno del nostro ricordo:   
Caporale Mario Piacentini, 21 anni di Gallicano 
Oggi nel ricordo
di quegli alpini
Caporale Aldo Pieroni, 21 anni di Castiglione Garfagnana
Alpino Santino Grassi, 22 anni di San Romano
Alpino Pietro Ottolini, 22 anni di Albiano
Alpino Emilio Ferrarini, 21 anni di Piazza al Serchio
Alpino Matteo Guazzelli, 21 anni di Piazza al Serchio
Alpino Antonio Linari, 21 anni di Castelnuovo Garfagnana
;corpo recuperato il 14 maggio.
Alpino Francesco Pioli, 21 anni di Castelnuovo Garfagnana
;corpo recuperato il 26 maggio.



Biblliografia:

  • "Val Mairo la nosto" Pietro Ponzo,editrice Brossura 
  • Articolo tratto da "Il Maira" gennaio 1998 a cura di Fabrizio Devalle e Mario Berardo
  • Stralcio di articolo di Pietro Ponzo del 2 agosto 1989 tratto da "Gent da ma valado- una voce dalla valle". Scritti per il "Drago" 1973-1992 edizioni il Drago e Comboscuro 

giovedì 2 gennaio 2020

Ricette antiche e origini di dolci garfagnini persi nel tempo...

Spesso sono bistratti, accusati di essere i maggiori colpevoli del
nostro colesterolo e messi al bando da qualsiasi dietista... In effetti parlare o scrivere di dolci per le feste natalizie è come fare un abuso su stessi, oramai siamo rimpinzati da ogni sorta di dolciume che ce lo sogniamo anche la notte... Ma nonostante tutto però, un dolce è qualcosa di più che un semplice "atto di golosità", il dolce è quella pietanza che per antonomasia sa d'infanzia, di ricordi e che possiede quel che di nostalgico. La classica torta ad esempio rappresenta un frammento di vita, mentre una qualsiasi altra pietanza come un qualsivoglia primo o un qualunque altro secondo ci lascia (sentimentalmente) indifferenti. Una torta invece no; una torta è sempre legata ad una storia, a un avvenimento importante o a  una ricorrenza speciale, ma non solo, il cosiddetto dessert può essere il simbolo di un "rito" domestico, di una tradizione familiare e popolare che si lega a filo
doppio con la storia di un territorio. La loro storia parte da molto lontano e nel Medioevo i luoghi per eccellenza per la produzione di dolci erano i monasteri. Verso la fine del XIV secolo e per tutto il XVI° ci fu un evoluzione importante in tal senso, il dolce venne sdoganato al di fuori dei monasteri e cominciò ad essere una portata di uso (per lo più) comune, ma naturalmente anche qui e in questo campo le classi sociali faranno la loro differenza. Da un lato l'aristocrazia dava sfoggio dell'arte pasticcera nell'uso di materie prime particolari e rare, che non si legavano affatto con la stagionalità, ne tanto meno con il luogo d'appartenenza. Le preparazioni dei dolci per l'elite del tempo avevano assunto una connotazione internazionale, un dolce era un trofeo da mostrare alle corti più rinomate di mezza Europa, ed ecco allora che nacque una nuova
Banchetti rinascimentali
figura: il pasticcere, la sua arte, era un'arte sopraffina che con il tempo trovò la sua massima espressione con la venuta nel vecchio continente di un nuovo alimento: "il sale dolce",
 più noto a tutti semplicemente come zucchero. Fino a quel tempo per dolcificare si usava il miele, ma la comparsa dello zucchero fu una svolta epocale, era raro e costosissimo, perchè ricavato dalla canna da zucchero, tipica dei paesi tropicali. Per il "sale dolce" si esigevano perfino dei pedaggi carissimi per permettere il suo transito nei vari paesi, tant'è che un panetto di zucchero poteva valere quanto un pane d'argento dello stesso peso. E il cosiddetto popolino? E nella stessa Garfagnana i dolci si mangiavano? Certo che si mangiavano e ce lo tramandano antiche ricette di vere e proprie leccornie, molte di queste andate dimenticate o in disuso. Quello che è certo che le preparazioni dolciarie della gente comune erano ben diverse da quelle della nobiltà, e in particolar modo per i garfagnini la realizzazione delle loro ghiottonerie era legata ai prodotti del territorio e dalla loro stagionalità e... alle limitate
dolci "poveri"
disponibilità economiche, quindi pochi ingredienti e dolci poco elaborati. In questi casi "la parola d'ordine" era recuperare gli avanzi di altri piatti(ad esempio focacce o polente), ma nonostante ciò la riuscita sarebbe stata sicuramente di una bontà unica. Questo è innegabile, dato che venivano fatti con il cuore e con passione, dal momento che venivano mangiati raramente perchè fatti per festività religiose importanti e per eventi particolari. Figuriamoci, talmente preziose erano queste ricette che venivano tramandate da generazione in generazione come un vero e proprio rituale. 

Scendendo nello specifico, oggi però non voglio scrivere dei canonici dolci garfagnini che tutti conosciamo, oggi voglio raccontarvi di ricette dimenticate o di cui poco si conosce. Si, perchè riportare in vita certe ricette è come riportare in vita un pezzo di storia del nostro tempo, una trasmissione di memoria che va tramandata anche questa come un qualsiasi altro fatto storico. Un esempio lampante!? "Il Giulebbe di Ciliegie"! Ebbene si, è un dolce tipico garfagnino. Illustri e nobili sono i natali di questa prelibatezza, questo era il dessert preferito da Ludovico Ariosto, governatore estense in terre di Garfagnana, che allietava i suoi
il giulebbe di ciliegie
malumori garfagnini con questo squisito dolce. A quanto pare l'ispirazione per questa ricetta l'ebbe osservando dei pastori della valle che per merenda cuocevano dentro ad una "pentolaccia" delle ciliegie marasche, mescolate con latte, miele e burro, una volta che questo composto era ben rappreso lo spalmavano sul pane per un sostanzioso e corroborante spuntino. Orbene, una volta fatto rientro alla Rocca diede mandato ai suoi cuochi di preparare una cosa simile, naturalmente furono aggiunti ingredienti per così dire nobili, come dei biscotti simili ai savoiardi e alcune spezie esotiche come la cannella. Da quel giorno la preparazione del dolce fu esportata in tutto il ducato e denominata "la zuppa dell'Ariosto", un connubio di prodotti nostrali con il tocco in più che poteva dare solo l'aristocrazia. Un'altra squisitezza conosciuta (adesso non più) come tipicamente garfagnina è un dolce di cui non si è mai sentito parlare... Sfido chiunque...Chi conosce "il Benzone garfagnino"? Anche questa, ad onor del vero è una ricetta importata in Garfagnana dagli Estensi. In tempi antichi, in quel di Modena,era un dolce tipico e l'impasto per questa semplice golosità era composto da
il Benzone
farina, uova, burro, latte e miele, insomma una volta infornata veniva fuori una sorta di focaccia casalinga, da inzuppare nel latte o nel vino. Questa modesta ricetta fu talmente apprezzata anche in Garfagnana che ben presto la facemmo propria e addirittura a differenza della preparazione originale fu arricchita con frutti di stagione (fichi, mele, noci). Quello che rimane originale però è il nome, tipicamente modenese, che si rifà alla parola "belson" e più specificatamente alla tradizione di regalare questa specie di focaccia ai ragazzi cresimati, era il cosiddetto "pain de bendson", "il pane di benedizione". 

Queste due leccornie, come abbiamo letto, subiscono molto "influenze" modenesi", "la Mandolata di Santa Lucia" invece è un dolce tipico non di uno specifico paese garfagnino, ma bensì di
La Mandolata
un rione di Castelnuovo, il rione Santa Lucia. Infatti era (ed è) proprio in onore della Santa, che da il nome a questo quartiere che il 13 dicembre di ogni anno veniva preparato questo dolce dai suoi abitanti, una ricetta che gelosamente si tramandava da padre in figlio (ancora oggi), e che vedeva in loro la saggia mescolanza di ingredienti rappresentativi: il miele di castagno, noci, zucchero e un filo d'olio d'oliva, insieme formavano un prelibato simil- croccante. Una ricetta bellissima anche da osservare, poichè
 era stupefacente ammirare l'abilità nel "mandare le mani"(da qui il nome mandolata) di coloro che la stavano cucinando, difatti il miele cotto preventivamente formava una lunga treccia che veniva manipolata da mani esperte e sapienti. Non poteva poi mancare un dolce legato strettamente al castagno. "La Pattona di Trassilico", questa era la classica "merendina" per i trassilichini che andavan
la Pattona
o a lavorare nel bosco. La sua preparazione vedeva un'impasto di farina di castagne, mele a pezzetti, noci, nocciole e fichi secchi sminuzzati. Del tutto si facevano delle palline che venivano poste dentro delle formine e infornate. Il giorno dopo sarebbero state pronte per la veloce merenda del taglialegna. Si dice poi che del maiale non si butta via niente, verissimo, e questa golosità
 è uno dei classici esempi di "ricette da recupero" e infatti quando nel mese di dicembre si ammazzava il maiale e avanzava un po' del grasso si faceva "la torta di sciungia", una
Foto e realizzazione di
Francesca Bertoli
torta dolce fatta proprio con il grasso dell'animale, ingentilita da uova, farina e scorza grattugiata di limone, la risultanza era quella di un biscotto friabile molto saporito.

Sapori, usanze e ricette perse nel tempo, in quel tempo in cui è tutto più facile: in un supermercato puoi trovare tutto e in casa fra mille macchine, preparare un dolce accettabile è un inezia... Una volta no, una volta non c'era il tempo che scorreva e che fuggiva, una volta anche ogni dolce aveva la sua storia... 



Bibliografia

  • "Antiche ricette medievali" Autori Vari, 1906 editore Bemporad
  • "La Cucina Gallicanese in oltre trenta ricette" Paolo Marzi Serena Da Prato, 2019 Garfagnana editrice
  • Documentazione Privata datata 1817 del dott. Ascanio Particelli