mercoledì 17 novembre 2021

Cronaca di un tragico femminicidio d'altri tempi in Garfagnana. Era (forse) il 1922...

Femminiciodio. Una brutta, bruttissima parola che è entrata
recentemente a far parte del nostro vocabolario per indicare l'uccisione di una donna, "in quanto donna" da parte di un uomo. Si potrebbe pensare che questo neologismo, come spesso accadde, sia stato coniato dalla stampa sensazionalistica, ma stavolta no. Per la prima volta questa parola fu usata dalla criminologa Diana Russel nel 1992 nel suo libro "Feminicide". Fino a quel momento nella nostra  bella e cara Italia l'unica parola esistente di significato simile era "uxoricidio". Tuttavia però, la radice latina "uxor" (moglie) limitava il significato del termine all'uccisione di una donna in quanto moglie. Fattostà che la Russel analizzò il grave problema facendo riferimento alle società patriarcali che usavano il femminicidio come forma di controllo e punizione sulle donne, la cui "colpa" sarebbe stata quella di essersi opposte al potere dell'uomo. Infatti, sarebbe sbagliatissimo pensare che la violenza, il sopruso e la prevaricazione contro la donna sia un male moderno, purtroppo è sempre esistito e la sua storia ha origini ultra secolari. Naturalmente questo non giustifica il fatto che sia un fenomeno "naturale" e immutabile nel tempo, anzi, più le società si evolvono con il passare degli anni e più si dovrebbe prendere coscienza del "viver civile". Ma non è così e mai sarà così, basta pensare a quella che oggi definiamo "violenza domestica e familiare", fino a meno di un secolo fa era considerato l'uso legittimo della forza da parte del marito o del capofamiglia, e se nel lontano 1607 si diceva che: "
 quando le mogliere non obbediscono li loro mariti, anzi li sprezzano e gli sono ritrose e pertinace nelle loro opinioni et che non gli basta essere riprese con parole, che sia lecito e conveniente a detti lor mariti dargli qualche schiaffo, pugno o percossa legiera et ciò per correzione et monitione et per redurle all’obedienza et questo sempre io ho inteso dir essere cosa lecita", nel 1865 il codice civile italiano affermava senza se e senza ma che la situazione non era affatto cambiata: "La moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l'autorizzazione del marito". Insomma, ribellarsi a questo status quo per la donna voleva spesso dire perdere la vita e questo però non capitava solo nelle classi sociali dei poveri e dei derelitti. Anna Bolena ne è 
Anna Bolena
l'esempio più fulgido e lampante. La seconda moglie di Enrico VIII, fu condannata a morte dal marito perchè accusata di averlo tradito. Non era assolutamente vero, in realtà, il re si era innamorato di un'altra donna e così decise di ucciderla facendole tagliare la testa. Artemisia Gentileschi fu una grandissima pittrice italiana del 1600, che fu violentata da un pittore con cui lavorava e che era stato più volte da lei rifiutato. Nel conseguente processo per stupro la difesa tenterà in tutti i modi di screditare la ragazza che sarà costretta a sottoporre la sua testimonianza alla dolorosa e pericolosa tortura dello schiacciamento dei pollici. Anche in u
no dei canti più suggestivi e famosi della “Divina Commedia” si presenta un caso di femminicidio. Stiamo parlando del Canto V dell’“Inferno”, in cui la protagonista Francesca da Polenta (o da Rimini) commette adulterio innamorandosi del cognato Paolo Malatesta e per questo viene uccisa con violenza dal marito. Come si può capire queste violenze nascono soprattutto per motivi passionali e germogliano quasi sempre in ambito familiare. Queste sono infatti anche le caratteristiche che nel secolo scorso portarono ad uno dei più efferati delitti compiuti in Garfagnana, a conferma che anche le zone più pacifiche e quiete come le nostre non sono esenti da questi avvenimenti. Infatti, questa che vado a raccontarvi è la cronaca di un femminicidio, a riprova evidente di quanto sopra scritto. 

Risalendo sulla vecchia "Strada di Vallico", l'antica via che collegava Vallico a Gallicano a poche centinaia di metri dall'alpeggio di San Luigi ci s'imbatte in una vecchia e consunta lapide che riporta una scritta a futura memoria: "Alla Santa memoria di Giuseppina Furischi sposa e madre esemplare. Dal proprio consorte quivvu crudelmente uccisa. La famiglia". Le domande e la curiosità che attanagliano la mente dell'ignaro passante sono molte e la prima che balza alla mente è pensare come sia stato possibile che in un luogo così piacevole e pacifico possa essere successo un così grave fatto di sangue. A dar soddisfazione al nostro desiderio di conoscenza sono stati gli attuali e ultimi vecchi pastori dell'alpeggio, che oralmente hanno trasmesso il misfatto ai posteri. La vita a San Luigi(comune di Fabbriche di Vergemoli) è da sempre trascorsa in maniera semplice e senza fronzoli, lassù ad 871 metri d'altezza il lavoro nei campi e la pastorizia erano le attività principali, difatti, li in quella località posta a spartiacque fra la Valle di Turritecava e Gallicano è da tempo immemore che i pastori vivono delle loro attività agricole, producendo per se stessi e per i mercati paesani del fondovalle, formaggi, insaccati e dell'ottima farina di castagne e fu proprio durante la raccolta di castagne che il fattaccio si compì. Ma partiamo dal principio, da quando Goffredo Benelli un giovane pastore del luogo agli inizi dei primi anni del 1900 partì emigrante per le lontane Americhe. Quello era il tempo 
San Luigi
delle grandi emigrazioni garfagnine, la miseria da queste parti era tanta e le opportunità di lavoro che davano gli Stati Uniti erano buone. Forza di volontà e sacrificio erano le doti che un emigrante doveva avere, a maggior ragione se a casa si lasciava moglie e figli, proprio quello che accadde al Benelli. Ci si può immaginare quali e quanti pensieri poteva avere nella testa un emigrante, lasciando la famiglia a casa e tante volte a fomentare pensieri assurdi e maligni ci pensava la gente del paese di origine, nonostante si fosse a migliaia e migliaia chilometri di distanza. Sta di fatto che a San Luigi, così come in altrettante località garfagnine, era abitudine durante le serate "a veglio" fare e comporre delle satire. Per chi non lo sapesse (in questo caso) la satira è un componimento (per così dire) poetico, fatto per deridere e sfottere le persone e che mette in risalto, a volte con ironia pacata, e a volte con invettiva sferzante, vizi e difetti di svariati personaggi e quei personaggi nei piccoli borghi erano la gente che in paese vi abitava. A San Luigi "maestro" in questi scritti era tale Gustavo Puccetti. Il Puccetti era uno di quelli a cui piaceva, e non poco, alzare il gomito, per di più era anche uno di quelli che si deliziava a mettere zizzania, insomma era un vero e proprio pettegolo. Dalla sua parte però aveva anche un pregio (mal sfruttato), era bravo nell'arte dello scrivere,
 dato che: "era intelligente e aveva studiato per diventare prete". Fattostà che a conseguenza di ciò, la malasorte e la  becera maldicenza di queste satire colpirono la sfortunata Giuseppina Furischi, moglie del Benelli. I fatti narrano che il Puccetti, a quanto pare, si faceva vanto di aver avuto una storia un po' piccante proprio con la stessa Giuseppina (si reputava che questo non fosse vero), d'altronde la poveretta era un bersaglio facile da colpire, la donna era giovane, sola e con dei figli piccoli, il marito era emigrante e la sventurata forse non si sapeva neanche difendere e poi ci sarebbe stato poco da difendersi... Niente si poteva fare quando una di queste velenose satire raggiunse per lettera il marito. In questo componimento si parlava in doppio senso e in maniera sottintesa ed ironica che qualcuno del paese fosse stato a mangiare "le susine" in Chiusa (località dove la famiglia Benelli aveva un'altra casetta)... e che "susine"!!! L'autore di tutto ciò, così si riferisce, non poteva che essere stato il Gustavo Puccetti, solo lui, con la sua arguzia e finezza nello scrivere poteva congegnare tale scritto. A dispetto di questo, senza sincerarsi della verità e del pettegolezzo il Goffredo Benelli tornò improvvisamente dall'America e pervaso dalla più completa gelosia rimise piede in San Luigi. Poco tempo dopo il suo ritorno arrivò il tempo della lavorazione castagne. Forse sarà stato  un novembre del 1922 quando di buon mattino la Giuseppina, il Goffredo e altre persone del posto partirono per andare a lavorare al metato. Era arrivato il momento di "sgusciare" le castagne e questa era l'occasione conviviale in cui tanta gente si adoperava allegramente in queste mansioni. Resta il fatto, com'era sua abitudine, che quel giorno il Goffredo partì di casa con a tracolla il suo fucile ad avancarica e s'incamminò in fila indiana con tutta la comitiva sulla strada che portava al metato. Giunti all'altezza della "mestaina" che ricorda la disgrazia,
La mestaina che ricorda il misfatto
testimoni raccontano che marito e moglie si misero a parlottare, improvvisamente Goffredo si rivolse verso la moglie e pronunciò queste parole: - Giuseppina ti sparo!-, Giuseppina si voltò e incredula
 gli sorrise, a bruciapelo dallo schioppo parti un colpo che squarciò il petto alla sventurata, che balzò morta nel fosso sottostante. Il Benelli preso dalla paura del probabile linciaggio dei parenti della Giuseppina fuggi per le selve, finchè non raggiunse Gallicano dove si costituì ai Carabinieri Reali. I resoconti orali raccontano ancora che l'assassino fu condannato e di fatto carcerato nella colonia penale dell'Isola di Procida. Pochi anni dopo l'efferato femminicidio Goffredo Benelli tornò libero, fortuna (sua) volle che  l'8 gennaio 1930 il Principe Umberto di Savoia e Maria Josè del Belgio convolassero a nozze. Com'era occasione per un matrimonio reale, il re concedeva l'amnistia e la grazia visto che: "In occasione delle nozze del principe ereditario, il re ha emanato un decreto di amnistia e d’indulto per reati comuni e militari. Si presume che del provvedimento odierno beneficeranno oltre 400 mila persone, delle quali circa un terzo imputate di delitti e il resto di contravvenzioni. In virtù del condono saranno liberati circa 600 detenuti. Consiglio di Stato
1/1/1930"
. Probabilmente il delitto del Benelli, così come altri di medesima tipologia fu inserito in quella categoria di crimini minori che si appellava al "delitto d'onore",  istituito dal codice Zanardelli del 1889 (e rimasto in vigore fino al 1981!!!) che all'articolo 587 prevedeva: "Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall'offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni". Insomma, l'uccisione della donna era considerato un reato marginale e di poco conto. Per giunta, i protagonisti di questi fatti negli anni a venire continueranno la loro tranquilla vita. Gustavo Puccetti morì nel 1968 per un tumore allo stomaco causato dall'abuso d'alcool, il Goffredo Benelli tornò a vivere a Vallico con una figlia, morì a 95 anni nel 1979.

In ricordo di Giuseppina Furischi, donna inconsapevole di un mondo che non è ancora cambiato.

Un ringraziamento al mio amico Daniele Saisi, il primo ad aver riportato alla luce questa vecchia e triste storia e che con pazienza ha raccolto le testimonianze orali dei "vecchi" di San Luigi. (Le foto dell'articolo sono sempre di Daniele)

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