Il poeta,la sorella Mariù, un amico e il cane Gulì |
Il
mese di aprile per la nostra valle oltre alla felicità della
primavera iniziata porta anche un triste ricordo,la morte (6 aprile 1912) di un nostro
illustre ospite,forse il più illustre (almeno in tempi recenti):
Giovanni Pascoli.Voglio raccontare in queste pagine gli ultimi
momenti di vita del poeta così come le ricordava Mariù Pascoli,l'amata sorella, nel libro di memorie "Maria
Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli" (Memorie curate e
integrate da Augusto Vicinelli, con 48 tavole fuori testo, Arnoldo
Mondadori editore 1961).Pascoli ormai è allettato e i suoi movimenti ormai si limitano a poco e
si decide quindi di trasferirlo nella casa di Bologna per poter
esser meglio curato,tant'è che fu organizzato (il 17 febbraio del
1912)un treno speciale da Castelvecchio.Arrivarono a Bologna nel
pomeriggio ad accoglierlo erano presenti amici e autorità. Ci fu
poco tempo per i saluti. Stanco dal viaggio, fu subito trasportato
nella casa in via dell’Osservanza... e da qui
cominciano i ricordi di Mariù: "Il
gran maestro Murri che lo visitò varie volte, confermò le nostre
terribili previsioni. Il tumore maligno, svoltosi insidiosamente
nello stomaco, aveva invaso il fegato, che andava
dissolvendosi”(n.d.r: In queste memorie
della sorella viene affermato che fosse malato di tumore allo stomaco ma è lecito pensare che fosse affetto da cirrosi epatica.Il
certificato di morte riporta come causa un tumore allo stomaco,
ma è probabile fosse stato redatto dal medico su richiesta di Mariù,
che intendeva eliminare tutti gli aspetti che lei giudicava
sconvenienti dall'immagine del fratello, come la dipendenza da
alcool)Mariù scriveva
in quei giorni a un amica di Castelvecchio: “Io sono sola e per ora
non ho cercato nessuno. Per Giovannino basto, e questo è tutto. È
quella benedetta porta che mi ammazza! Non ha idea della gente che
viene per notizie”. E di gente in quei giorni ne entrava: medici,
infermieri, giornalisti, conoscenti, amici, preti e massoni.Costretto a letto ogni giorno leggeva
parecchi giornali seguendo “con sempre maggior ansia” le notizie
della guerra di Libia “che a volte non trovava troppo
soddisfacenti, e se ne addolorava”.Pensava anche alla sua casa di
Castelvecchio. Un giorno sentendo un cinguettio di rondini chiamò
la sorella dicendogli: “Tornano le rondini! Bisogna scrivere a casa
che badino di non distruggere i nidini sotto la nostra grondaia,
perché qualcuno mi fece l’osservazione che gli escrementi che ne
cadono insudiciano le piante che sono al muro Per me non è affatto
un sudiciume quello!”.Mercoledi,
3 aprile, dettò il suo ultimo testamento davanti al notaio e ai
testimoni “ il suo sinedrio “ come lì definì. “Lascio tutto a
Maria detta Mariù”. Intanto che il notaio scriveva disse
mestamente: “È ridicolo dire di lasciar tutto quando non si ha
niente!” “Verso sera disse: ho fame. Il cuore mi si allargò! Gli
detti subito un biscotto, che egli mangiò volentieri facendolo
scricchiolare coi denti, poi un caffè con ovo sbattuto, che prese
molto bene. Indi si assopì”Iniziò così lunghe ore di sonno e il respiro diventava sempre più grosso e affannoso.Maria, pensando
al peggio, mandò l’Attilia a chiamare il Padre Francescano Paolino
Dall’Olivo “amico di lui“Lo stato penoso di Giovannino
durò immutato fino a oltre il mezzogiorno del Sabato Santo. Sperando
disperatamente non mi ero mai scostata da lui, sempre tenendogli una
mano nella mia, e spesso inumidendogli le labbra, povere labbra che
il grave affanno prosciugava e arsiva! Ma ecco che, mentre le campane
sonavano a festa annunziando la gloriosa Resurrezione del Redentore –
la solennità cristiana prediletta da lui e da lui profondamente
sentita – ecco che le dita della mano che tenevo io cominciarono a
muoversi, ed anche un po’ a dischiudersi gli occhi. Dopo 36 ore si
svegliava!”La sorella dalla gioia iniziale si rese subito conto che
la situazione non era migliorata “il mio adorato Giovannino, uscito
finalmente da quel sonno in cui era rimasto 36 ore, era entrato in
agonia! E m’illusi fino all’ultimo. Tre ore ebbe d’agonia come
Gesù sulla croce! Alle ore 15 e qualche minuto del Sabato Santo –
6 aprile 1912 – a un tratto egli aprí del tutto i suoi dolci
occhi, sollevò e abbassò convulsamente le braccia con un alto
grido, poi reclinò da una parte la sua cara testa, emise tre brevi
respiri e poi… più nulla”.
I
giornali italiani il giorno dopo “ne fecero ampia memoria”
concedendogli onori “quali mai egli ebbe in vita”. Il re mandò
un suo telegramma di condoglianze.Era morto a 56 anni. Come Dante,
come Beethoven: “niente è a caso nel mondo” scrissero.
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