mercoledì 29 luglio 2020

Quando la cronaca diventa storia: la scolaresca che rimase intrappolata nella "Tana che Urla"

I soccorritori davanti alla Tana che urla
(foto tratta da "La Nazione")
Umberto Eco non trovò miglior definizione con cui descrivere un giornalista:-Il giornalista è uno storico del presente-. Infatti non sono rari i momenti nei quali un fatto di cronaca diventa storia. Tali notizie nel momento in cui certe vicende vengono pubblicate sui giornali sono storie personali, accadute a colui che ne è stato il protagonista e nel bagaglio personale del lettore non sono altro che fatti approfonditi di cui già magari aveva sentito parlare. Ma allora quand'è che un fatto di cronaca diventa storia? Quando storia e giornalismo s'incontrano giungendo allo stesso punto, restituendo al fatto di cronaca uno sfondo costruttivo, rifacendosi in questo caso ad uno dei principi di Sant'Agostino: "Qualsiasi evento storico per quanto nefasto possa essere, è posto su una via che porta sempre al positivo e che ha sempre un significato costruttivo".
E così è per questo fatto di cronaca che sto per narrarvi. Un'avvenimento che risale a trentaquattro anni fa, era il 25 gennaio 1986 e tutto accadde nelle selve sopra Fornovolasco. Forse molti se lo saranno dimenticato, i più giovani è probabile che nemmeno sapranno di quello che accadde ai piedi della Pania nella
(da "Il Tirreno)
celeberrima "Tana che urla". Quello che rimane di costruttivo 
in questa storia  è che la natura richiede rispetto, esperienza, non approssimazione e pressapochismo, anche perchè la sua forza e la sua eventuale violenza sono l'energia più potente del mondo. Ma veniamo ai fatti.
Come ormai è abitudine, da anni Vittorio Verole passa da quella strada ogni giorno che Dio mette in terra, d'altronde lui è il titolare della "Grotta del Vento" e le cose da fare per quell'attività sono sempre molte e come tutte le mattine eccolo transitare davanti a quello spiazzo che di solito è adibito a parcheggio macchine, proprio per quelle persone che vanno in gita sul Monte Forato o che vanno a far visita alla "Tana che urla". La Tana che urla per chi non ne avesse mai sentito parlare è una grotta carsica, orizzontalmente profonda 400 metri circa ed è famosa per le sue leggende e sopratutto per la sua valenza scientifica. Già il nome però è tutto un programma, poichè tradizione popolare vuole che mettendo le orecchie a questa grotta si ha l'impressione che una
L'ingresso della Tana che urla
 (foto di Emanuele Lotti)
moltitudine di voci provenga dalle sue profondità, talvolta sembra di udire canti melodiosi, altre volte urla strazianti, oppure bisbiglii sommessi. L'immaginazione della gente del luogo ha voluto che questa grotta fosse abitata da fantastiche fate o da terribili streghe. 
Mentre da un punto di vista scientifico "la tana" ha un notevole valore, perchè suggerì ad Antonio Vallisneri (nel 1704) la teoria del ciclo perenne delle acque, in cui lo scienziato italiano (di Trassilico) confutò la cosiddetta “teoria marina”,che  riteneva che l’acqua scaturita dalle sorgenti,fosse generata da quella marina penetrata in profondità, fatta evaporare poi dal calore interno. Dopo questa doverosa precisazione come si suol dire ritorniamo "a bomba" o meglio alla cronaca dei fatti. Infatti, la sera, quando Vittorio fa ritorno a casa nota ancora le medesime macchine nel solito parcheggio. Piove a dirotto però e
L'interno della Tana
(foto tratta da verde azzurro notizie)
ormai è buio, Vittorio non si sente tranquillo e una volta tornato a casa si cambia gli abiti e torna giù al parcheggio e sale proprio fino alla Tana che urla. Lo spettacolo è impressionante dalla bocca della grotta  migliaia di litri d'acqua vengono vomitati a tutta forza, probabilmente lo sciogliersi della neve ingrossa ancor di più il getto d'acqua, rimane il fatto, questo è il pensiero dell'uomo, che se qualcuno è entrato se non è morto è rimasto sicuramente bloccato.

Intanto la solita mattina del medesimo giorno i ragazzi della quinta D del Liceo Scientifico Vallisneri di Lucca si stanno preparando per una gita d'istruzione, d'altra parte è il fatidico anno dell'esame di maturità e gli studi vanno approfonditi, destino poi vuole che proprio quel 25 gennaio la gita ha come meta una di quelle grotte su cui ha fatto gli studi l'esimio scienziato garfagnino che ha dato il nome alla scuola dove i ragazzi studiano, fattostà che questo tipo
Lo scienziato garfagnino
 Antonio Vallisneri
di gite per un liceo scientifico sono tutto sommato all'ordine del giorno e nessuno si sarebbe immaginato che quella giornata di studio si sarebbe trasformata in 32 ore di vero inferno. L'avventura di quei ragazzi è cominciata il giovedì mattina, i giovani sono arrivati alla spicciolata, chi con il treno alla stazione di Barga-Gallicano, chi con le auto... intanto però già dalla mattina il cielo sopra la Garfagnana è
 sempre più scuro. Sono le undici del mattino ormai è tutto pronto per entrare nella grotta. Tutti presenti allora ! I dodici studenti (sette ragazze e cinque ragazzi) ci sono , il professore di scienze anche, le tre esperte guide del C.A.I idem, alla fine si aggiungono(per fortuna) ben sei speleologi. I ragazzi e gli accompagnatori quindi entrano e intanto fuori si scatena un furioso temporale di violente proporzioni. La lezione comunque sia è stata proficua ed interessante, gli speleologi hanno illustrato benissimo le caratteristiche di questa "tana", sono però le quattro del pomeriggio è l'ora di uscire, di far ritorno alla luce, anche perchè bisogna ritornare a casa, fra poco sarà buio pesto. A ogni modo per uscire dall'ampia camera della grotta, dove ora si trova la scolaresca c'è da attraversare un lungo corridoio(venti metri circa), o meglio una vera e propria strozzatura della caverna stessa, ma proprio nel momento che i gitanti stanno per affrontare il lungo corridoio si accorgono che questa strozzatura si è riempita velocemente d'acqua e ha bloccato inevitabilmente i ragazzi e gli
Sezione della tana che urla.
I punti cerchiati indicano
 il luogo dove erano
 intrappolati
i ragazzi e la strozzatura
 invasa dall'acqua

speleologi, è impossibile passare, il forte temporale che si sta abbattendo sulla valle e il conseguente aumento delle temperature che sta sciogliendo la neve della Pania sta facendo si che abbondanti fiumi d'acqua stiano per invadere in maniera inesorabile la grotta. In questo momento Vittorio Verole è davanti alla "Tana che urla", per lui non rimane che un'unica soluzione, telefonare in Prefettura e avvisare le autorità che sta per compiersi una tragedia, in concomitanza arrivano anche le prime segnalazioni dei genitori preoccupati, i loro figli non hanno fatto ancora ritorno... I soccorsi partono immediati e tutto così si trasforma in una corsa contro il tempo. Da La Spezia arrivano gli speleo-sub del Centro Luni, sono loro i primi a raggiungere la grotta, nel frattempo arriva anche il nucleo carabinieri sommozzatori di Genova, gli altri carabinieri nel contempo circoscrivono la zona, i vigili del fuoco nei pressi della "tana" piazzano luci ed idrovore. Il dubbio che rimane però è uno, saranno vivi o morti? Questo non importa ai soccorritori, loro ragionano sempre come se dovessero raggiungere persone in vita e così verso le due della notte i sommozzatori fanno il primo tentativo di recupero, si tuffano nell'ormai famosa strozzatura, niente, non ce la fanno, il primo tentativo è andato a vuoto. Si decide allora di far partire le idrovore, sono una decina, stanno funzionando a gruppi di tre, la loro forza è impressionante, stanno sputando fuori dalla grotta ottocento litri d'acqua al minuto, ma nonostante questo la strozzatura non si svuota. Intanto sono arrivati anche i genitori e i familiari dei malcapitati, anche i giornalisti sono giunti a Fornovolasco, sono tutti li al bar del paese in attesa di notizie.
Fornovolasco 
Ormai è l'alba e ancora piove a dirotto, la scenario è apocalittico, acqua e fango in ogni dove, è arrivato comunque il momento del secondo tentativo di salvataggio, nuova immersione e nuovo fallimento. Le ore passano e più passano le ore e più il pericolo di una fine infausta di questa vicenda cresce. Oramai è giorno pieno, anzi sono le dodici e trenta del 26 gennaio, un'ora e una data che questi ragazzi si ricorderanno per tutta la vita. A smesso di piovere, il sifone naturale della grotta si sta abbassando è il momento di partire con il terzo tentativo, finalmente i sub raggiungono i ragazzi nella camera della grotta, sono tutti sani e salvi, stanno tutti bene. La prima ad uscire  sarà una speleologa, sono le 17 e parte un lungo e spontaneo applauso da parte di tutti i soccorritori, parenti e giornalisti. Soltanto adesso c'è la sicurezza che la brutta avventura degli studenti finirà in modo lieto. Per far uscire tutti gli altri ci vorranno ancora tre ore, non è agevole superare quel cunicolo d'acqua, i carabinieri- sommozzatori hanno piazzato delle corde d'acciaio, una
Il momento del salvataggio
(immagine tratta da Rai news)
sorta di filo d'Arianna, che permette di fare spola, in modo così di accompagnare uno per uno tutti i componenti della scolaresca. Verso le otto di sera si potranno dichiarare chiuse le operazioni di salvataggio.

Tutto è bene quello che finisce bene e grazie a Dio e ai soccorritori tutti rimasero illesi. Quello che però stonò al tempo sulla vicenda fu l'inconsapevolezza e la superficialità di una parte dei protagonisti di questa vicenda. Così riportava il quotidiano "La Repubblica" il giorno 27 gennaio 1986: "I ragazzi sono usciti con l' aria tranquilla, sorridenti, anche se bagnati fradici e stanchi per le ore passate all'addiaccio, circondati soltanto da stalattiti. "Non abbiamo avuto problemi, tutto tranquillo", assicura con aria spavalda [omissis] che per secondo abbandona la "Tana che urla". Corre a cambiarsi in una tenda piazzata poco distante ma rifiuta, spavaldo, qualsiasi aiuto dai soccorritori" e ancora "No, non abbiamo avuto paura", ed infine, il giornalista e la gente si fecero la domanda delle domande: " In pieno inverno e con il tempo che minacciava temporali, era
Piccola cascata all'interno
della Tana
(foto tratta
da luoghidasogno.altervista.org)
proprio necessaria questa gita?"
.
 
Certe lezioni che la natura dà solitamente rimangono impresse tutta la vita e probabilmente a mente fredda così sarà stato per questi che al tempo erano dei ragazzi. Quello che è vero è che questa vicenda mi riporta alla mente un vecchio adagio che così dice "In natura non ci sono ricompense o punizioni; ci sono solo conseguenze"...


Bibliografia

  • "Bloccati nella grotta per 32 ore", "La Repubblica" 27 gennaio 1986 di Paolo Vagheggi

mercoledì 22 luglio 2020

La Garfagnana dell'immediato dopoguerra, fra mine, morti, rapine e... assassini

Di quello che fu per la Garfagnana uno dei periodi storici più
terribili e cruenti ormai si è raccontato tutto (o quasi). La seconda guerra mondiale lasciò lutti, distruzioni e una scia di dolore che si prolungò per molti anni. La consapevolezza dell'immane tragedia che ai garfagnini era capitata fra capo e collo fu tangibile da subito, da dopo quel glorioso 25 aprile 1945. Finita l'euforia e la gioia del momento arrivò il tempo di rimboccarsi le maniche e ricostruire oltre che a case, ponti e strade, bisognava anche rimettere in piedi l'animo delle persone, bisognava ricominciare a vivere, in tutti i sensi, e affrontare da subito i primi e i più urgenti problemi dell'immediato dopoguerra. La storia garfagnina della seconda guerra mondiale ha spesso dimenticato questi fatti, sappiamo infatti quello che successe prima, durante e nessuno (o meglio pochi) hanno raccontato quello che accadde immediatamente dopo la liberazione, eppure quegli imminenti problemi, erano veramente dei grossi grattacapi da risolvere. 
Già a livello a nazionale il clima non era dei più sereni, quel 7 agosto 1946 quando la diplomazia italiana si presentò alla
La firma italiana sul
 trattato di pace di Parigi
conferenza di pace di Parigi capì da subito quali sarebbero state le conseguenze da pagare. Non importava aver portato a quel tavolo tutto quello che avevamo compiuto dopo la caduta del fascismo: l'armistizio, la dichiarazione di guerra alla Germania, il contributo dato agli anglo americani, nonostante ciò per i nuovi alleati eravamo una delle nazioni colpevoli di aver trascinato il mondo in guerra e in qualche modo si doveva pagare pegno. - Prepariamoci a bere un'amaro calice-, così disse De Gasperi di fronte all'Assemblea Costituente e amaro fu veramente. 
In termini economici all’Italia vennero imposte riparazioni per un totale di 360 milioni di dollari, da ripartirsi tra i paesi vincitori e le ex colonie italiane, con la successiva rinuncia alla propria quota di Stati Uniti e Gran Bretagna; sul piano militare le forze dell’Esercito, dell’Aviazione e della Marina vennero ridotte a 300 mila unità, limitati a 350 gli aerei e drasticamente ridimensionato il tonnellaggio navale, con l’obbligo di mettere a disposizione delle nazioni vincitrici un ingente numero di unità navali da combattimento. Clausole, queste, che verranno attenuate in seguito dall’ingresso dell’Italia nella Nato. Tutto ciò però per la Garfagnana era lontano anni luce, quello che preoccupava ancor di più dell'economia e delle sanzioni era il degrado sociale e ambientale che avevano portato sei anni di guerra, questo fu il vero problema che le amministrazioni garfagnine dovevano risolvere, si
Castelnuovo.
 La rocca ariostesca bombardata
credeva di vivere ormai in una terra di nessuno, dove tutto era concesso. A confermare questo ci fu infatti il primissimo e vergognoso caso da risolvere, il più urgente. L'odore della morte in Garfagnana era più che mai presente, ma non solo in senso metaforico, era anche la triste realtà dei fatti. La valle difatti era ormai un cimitero a cielo aperto, centinaia di morti di ogni fazione e di ogni nazione erano sparsi per tutto il territorio. Quei corpi di quei poveri soldati che gli eserciti non erano riusciti a recuperare, erano li ad attendere una degna sepoltura, a complicare poi la situazione era che buona parte di questi morti era disseminata sopra i campi minati. 

Adesso la limpida aria garfagnina era diventata aria fetida, l'odore acre dei cadaveri in decomposizione ammorbava l'aria e la terra, la salute pubblica era in pericolo e perdipiù, ospedali e dottori non erano pronti ad affrontare un eventuale emergenza sanitaria. La guerra era
I morti per le strade
finita da appena un mese e dalle pagine de "La Gazzetta del Serchio" partì il primo allarme: "Barga vive sotto la minaccia della propagazione di malattie infettive se entro quindici giorni non saranno rimossi quelle centinaia di cadaveri che giacciono insepolti sui campi minati. Il pericolo è enorme, addirittura terrificante, quando il povero medico locale non dispone di un solo chilogrammo di calce o di cloro". Gli appelli al Prefetto per bonificare l'intera valle si fecero pressanti da ogni dove, perfino gli alleati si rivolsero alla medesima autorità, dato che nei pressi di Gallicano furono rinvenuti una quindicina di morti civili parzialmente sepolti. Si scoprivano così ogni giorno nuovi morti e ogni giorno che passava la situazione diventava ancor più drammatica, vista poi anche l'inefficacia nell'affrontare la situazione delle cariche preposte: "...un grande disinfettante che non scarseggia in questa folgorante primavera, garantisce, ci aiuta e protegge come una provvidenza: il sole, eterno purificatore e distruttore degli invisibili", così sentenziò il medico provinciale, che con questa delirante giustificazione tentò di risolvere un grave problema, dicendo fra l'altro che il governo
Sminatori
centrale era già stato informato, che esisteva un rischio mine e che per il momento il rischio di epidemie non c'era. In conclusione la questione si stava "rimpallando" da un ufficio all'altro, le competenze per la mancata soluzione passavano da un'autorità all'altra e a risolvere la situazione ci pensò come sempre la povera gente. Un gruppo di ex partigiani della zona si adoperò a proprio rischio e pericolo (e gratuitamente) a recuperare questi poveri morti. Un lavoro immane fatto di sminamenti e rinvenimenti di salme putrefatte. Questi poveri morti venivano poi consegnati ai reparti brasiliani e americani, giunti a proposito sul posto. Gli altri cadaveri non identificati vennero tumulati nel cimitero di Pontardeto. 

Ma nonostante la guerra finita, la morte dai garfagnini voleva ancora il suo tributo, non bastavano quei cadaveri sparsi sulle montagne, la morte ne chiedeva di nuovi e magari ancora più giovani di quelli che aveva già preso. Ecco che allora un nuovo e stringente impiccio doveva essere prontamente risolto. Si calcola che fra il novembre 1944 e l'agosto 1945 gli addetti del nucleo artificieri di Lucca
Mine in Garfagnana
abbiano bonificato duecentomila mine, una quantità impressionante. Quei maledetti strumenti di morte portarono difatti a morte e a mutilazioni varie, sopratutto fra i contadini che accidentalmente zappando o arando il campo s'imbattevano in mine inesplose, tale sorte toccò anche a molti bambini che spinti dalla curiosità tipica di quell'età si mettevano pericolosamente a maneggiare questi pericolosi ordigni. Nonostante le bonifiche fatte i ritrovamenti di bombe continuarono ancora per diversi anni. I numeri delle vittime con il passare degli anni aumentarono in maniera importante, fra feriti permanenti e morti si conteranno più di mille persone. 
Anche da un punto di vista puramente sociale la situazione era completamente allo sbando, tutto il quadro sociale era infatti completamente da ricostruire, prima ancora dei ponti e delle strade. Eravamo di fatto quasi tornati ai tempi dell'Ariosto, bande di rapinatori e assassini vari circolavano nella valle in maniera libera ed impunita. D'altronde gli eserciti in ritirata avevano lasciato in circolazione armi di ogni tipo e foggia e chiunque, perfino i bambini se ne poteva impadronire tranquillamente, ma molte di queste armi non caddero in mano a dei bambini, di queste ne approfittarono
delinquenti di ogni risma e specie, in questa modo il rigurgito di violenza che si ebbe nella valle in quel periodo salì alle cronache di tutti i
Bambini su carro
armato abbandonato
giornali: furti, rapine e anche assassini avevano reso insicure le strade garfagnine, a fare le spese di tutto questo furono specialmente i commercianti che venivano regolarmente rapinati. A Ponteccio la rapina finì in omicidio, era il dicembre 1945 quando un uomo di Sillano uccise un venditore di Villa Minozzo (Reggio Emilia) per derubarlo di 7000 mila lire. Non ci furono purtroppo solo episodi sporadici come questo, difatti si formarono anche delle vere e proprie bande armate, fra le più famose c'era quella del Passo delle Radici specializzata a rapinare i camionisti che transitavano sul valico e su tutte aveva il predominio la cosiddetta "Banda Fabbri", le loro gesta arrivarono perfino ai media nazionali. Anche a Fornaci di Barga nei primi mesi del 1946 operava una banda che agiva in tutta la Valle del Serchio, rimasero alla memoria dei posteri svariati scontri a fuoco con i Carabinieri. Insomma, la Garfagnana era tornata ad essere terra di briganti di memoria ariostesca, tanto da essere diventata zona di rifugio per altre bande. Si parlò perfino che da queste parti avevano trovato riparo uomini facenti

parte la celeberrima "banda Giuliano",  che aveva a capo il famosissimo bandito Salvatore Giuliano, il "Re di Montelepre". Ma altri episodi di extra territorialità furono scoperti nel gennaio 1947. Al Sillico furono arrestati una donna del posto ed un prigioniero tedesco evaso, la loro attività era lo spaccio di medicinali provenienti dal deposito centrale di Livorno, dove erano stati rubati da altri membri della banda che aveva anch'essa diffusione regionale. In conclusione, come possono leggere i miei lettori, la violenza faceva da padrona e veniva perpetrata non solo dalle associazioni a delinquere, ma anche da gente comune che per questioni di scarso rilievo (come liti familiari o problemi di vicinato) non esitava a passare a vie di fatto commettendo omicidi o tentativi di omicidio.
Americani a Lucca
Le cose si risolsero gradualmente da una data precisa in poi... Era il 2 aprile 1948 quando gli Stati Uniti d'America vararono "l'European Recovery Program", meglio conosciuto come "Piano Marshall". L'America mise ha disposizione dei paesi europei qualcosa come 13 miliardi di dollari. Questi soldi permisero (anche) all'Italia di ricostruire le case, le strade, i ponti, di ripartire con le industrie e il lavoro, di comprare cibo e materie prime e di ristabilire l'ordine sociale. Dall'altra parte gli americani videro calare l'influenza comunista su tutta l'Europa e vide aprirsi una nuova finestra commerciale con i redivivi paesi europei. Finalmente grazie anche a questi aiuti tornò una certa
Manifesto dell'epoca.
Piano Marshall
prosperità, ma già all'orizzonte si prospettavano nuovi dubbi e nuove domande da rivolgere ai generosi Stati Uniti d'America: tutto ciò fu disinteressato altruismo o strategia per legare definitivamente l'Europa all'America? Dopo più di settant'anni dai fatti i cosiddetti "posteri" hanno già la risposta all'ardua sentenza...




Bibliografia

  • "La terra promessa" di Oscar Guidi. "Collana della Memoria", Unione dei Comuni della Garfagnana. Anno 2017

mercoledì 8 luglio 2020

Un'emigrazione "inconsueta"... Quando in Garfagnana si partiva per la Sardegna

Mare stupendo, spiagge selvagge, sole cocente, movida sfrenata...
No, la Sardegna non ha rappresentato sempre questo. Prima del "Billionaire", prima di Porto Cervo, la Sardegna era sudore e fatica e la gente che partiva dal cosiddetto "continente" non partiva purtroppo per spensierate vacanze, ma per lavorare. Sembrerà alquanto strano ed anomalo ma ai tempi delle grandi emigrazioni non si partiva solo per le lontane Americhe o per gli esotici stati sudamericani, si emigrava anche all'interno dell'Italia, spostandosi da una regione all'altra. Naturalmente questo fenomeno non sarà inconsueto negli anni del secondo dopo guerra, quando dal sud Italia si emigrava verso le regioni industrializzate del nord. Sicuramente  rimane però insolito del perchè anche dalla Garfagnana si emigrava in Sardegna, regione se si vuole (all'apparenza) "povera" come lo era la Garfagnana al tempo.
Per spiegare al meglio il caso risaliamo all'origine di tale perchè, un perchè che parte prima della venuta di Cristo e da quelle fonti egizie che chiamavano la Sardegna "l'isola del grande verde". Un
luogo denso di vegetazione, foreste, boschi, che con il trascorrere dei millenni fu drasticamente rasato del suo verde. Ogni popolo che metteva piede su quest'isola distruggeva un po' di queste selve: Fenici, Cartaginesi e Romani abbatterono le foreste per far spazio alle piantagioni di grano e bruciarono i monti per stanare i nemici. Ma il peggio doveva venire e l'apoteosi giunse quando i Piemontesi (o meglio i Savoia) presero possesso dell'isola. Nel 1740, appena vent'anni dopo l'inizio del dominio savoiardo, il re Carlo Emanuele III aveva già distribuito a destra e a manca concessioni varie per il diritto di sfruttare le miniere con relativo permesso di prelevare nelle circostanti zone il carbone e la legna per le fonderie. Lo scempio continuò imperterrito fino al 1861. Nel 1861, con l'Unità d'Italia la partita si chiuse definitivamente, con lo sviluppo industriale la richiesta di combustibile si era fatta più pressante e perentoria. Con il regno di Umberto I fu impressa una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni, lo stato
Italiano fra il 1863 e il 1910 autorizzò la distruzione di splendide e primordiali foreste per l'incredibile estensione di 586.000 ettari... un quarto dell'intera superficie sarda... e per fare questo c'era bisogno di uomini, di forza lavoro, di gente dedita alla fatica e non bastavano i soli sardi e chi meglio allora dei "vicini" toscani? E ancora meglio, chi della gente di Garfagnana? Da sempre gente avvezza alla fatica e al duro mestiere del carbonaio e del boscaiolo?
"I toscani lavoravano di buona lena. Si udivano le loro voci allegre e forti mentre le schegge bianche sprizzavano, diffondendo l'odore del legno fresco. I toscani erano attenti, precisi e gli alberi cadevano tra una carbonaia e l'altra, e poi venivano sfrondati, trascinati via, segati e spaccati con i cunei e le mazze". Lo scrittore Giuseppe Dessì nel suo libro "Paese d'ombre" descriveva così il lavoro dei toscani, una mansione che questi uomini erano abituati a fare da secoli e secoli, ma questa volta l'ambientazione per loro fu decisamente diversa, l'attività si svolgeva nei boschi della Sardegna. "Quegli uomini dalla faccia rubiconda e dalla voce sonora" (così come li descriveva lo stesso Dessì)provenienti dalla Garfagnana, a differenza di altri garfagnini emigrati in altre
nazioni venivano in Sardegna attuando un emigrazione di tipo stagionale, di solito questa periodo di tempo andava da novembre a giugno, quando la nostra terra non dava nessun frutto per la sopravvivenza della famiglia. Questi uomini sarebbero poi tornati in Garfagnana in estate nel momento dei raccolti del grano, del granturco e sopratutto delle castagne. Sicuramente a casa propria nella fase invernale sarebbe rimasto qualcuno di famiglia a preparare la terra per la buona stagione. 
"L'emigrazione deve attribuirsi alla soverchia della popolazione di fronte alla poca quantità del terreno coltivabile, il quale non può dar lavoro o sussistenza che per pochi mesi l'anno. Quasi tutti gli emigranti sono poveri, e posseggono una cattiva casa ed un poco di terra coperta da castagni a cui hanno grande affezione", così il prefetto descriveva perfettamente il fenomeno dell'emigrazione garfagnina in Sardegna. Rimaneva comunque il fatto che la vita per il povero garfagnino anche in Sardegna sarebbe rimasta tribolata, questo tipo di emigrazione infatti (a differenza di quella americana) non era alla ricerca (proprio perchè stagionale)di un'evoluzione stabile sociale e lavorativa dell'individuo, qui più ore si lavorava e più si guadagnavano soldi, a sfruttare questa situazione erano sopratutto due ditte che assumevano questi
garfagnini per un lavoro durissimo. C'era quindi la "Carradori" che si era aggiudicata 2000 ettari di superficie boschiva nella Sardegna sud orientale e la "Quilici" che aveva appalti nel comune di Baunei (Nuoro). Gli infortuni sul lavoro erano purtroppo all'ordine del giorno, ma non solo, con il tempo si potevano contrarre patologie professionali all'apparato respiratorio, anche la vita sociale era limitatissima, si viveva nei boschi, in alloggi improvvisati, sprovvisti di qualsiasi comodità, il contatto umano era solo con gli altri carbonai e la mancanza di casa così si faceva sentire ancora più forte, difatti Adolfo Mazzanti di Gallicano ricordava: "In Sardegna dormivo dentro un sacco con cimetti di leccio, avevo caldo, ma c'erano anche le pulci. Dai, dai, a grattarmi, alla mattina loro erano piene, io dovevo alzarmi. E il leccio mi bucava con le punte dei cimetti. Dormivo con i miei compagni del carbone in una baracca coperta di carta catramata e per le gocce dell'acqua quando pioveva ci si metteva sotto un pentolino. Il vento rompeva la carta. La porta era una fascina. Si faceva legna e carbone. Nove stagioni in Sardegna. Alle quattro la mattina la sveglia. Alle otto colazione, lardo sardo
carbonaie
arrostito con il pane"
 . Anche la natura si dimostrava certe volte avversa, non bastava lottare strenuamente con condizioni di vita pessime: "Nella foresta Taccu Addai dove lavoravano centinaia di uomini sotto la ditta Quliici, due operai muoiono uccisi da un fulmine", così "L'Unione Sarda". A ciò si aggiungevano gli incendi, facilmente originati dal fuoco incontrollato delle carbonaie. Insomma, una pagina di storia dell'emigrazione quasi dimenticata, chi non dimenticò mai furono coloro che questa esperienza la vissero sulle proprie spalle: "Io sono andato in Sardegna nel 1938 e nel 1939. Ci ho fatto due campagne. Si partiva a novembre e si tornava a giugno, per San Pietro. Noi si scollettava il carbone, poi c'erano i carbonai che lo facevano e gli scariolanti che lo portava con il carro tirato dai buoi. Noi scollettini gli si facevano anche le strade, dove era più comoda la foresta. Così si risparmiava di portarlo noi. S'attaccava la mattina con le stelle e la sera con la luna, con la ditta Berti Mosè e figli. I carbonai erano quasi tutti pistoiesi. Era faticosa, la mattina e la sera in quelle piazze! Anche 100 balle di carbone per ogni piazza s'imballava in quelle foreste vergini, con quei lecci grossi. E se c'era da scollettarle c'era da pigliarle tutte in collo e portarle sulla strada dove c'erano i carri. Le balle più pese era 110-120 chili e non erano poi tanto pese, in altre ditte erano anche 140 chili. Però in quella ditta non c'era mai tregua, i carri andavano e venivano. Invece in altre ditte partivano la mattina, andavano su e alle nove avevano finto di caricà i carri e

prendevano la zappa e andavano a concià la strada centrale e fino alla mattina dopo non riprendevano. Noi invece non si finiva mai, però davano 50 lire in più al mese ed erano tante!...Però sortivano gli ossi! Venni a casa la mattina di San Pietro, quando la mì moglie mi lavò mi tirava via dalla schiena la pelle callosa...", così narrò Elio Biagi di Gallicano... Alla faccia del "Billionaire".


Bibliografia

  • "Stasera venite a vejo Terè?" Le veglie della Garfagnana. Gruppo vegliatori di Gallicano. Banca dell'identità e della memoria 2007  

mercoledì 1 luglio 2020

Garfagnana divisa e il dilemma delle carte da gioco...Perchè le "piacentine"? Come mai le "fiorentine"? E la storia dei giochi più famosi

Sfido chiunque... In questi mesi di segregazione sociale dovuta alle note vicende, almeno una volta, almeno un giorno, sono convinto che dai nostri cassetti almeno una volta il mazzo di carte è uscito, magari per passare qualche momento di serenità familiare, forse per vincere la noia. Se si vuole è stato pure un passatempo per tenere impegnati i bambini, per insegnarli qualche gioco di carte, bene o male anche questo è un modo per preservare le vecchie usanze ed un momento in più da condividere con i più piccoli... Altro che playstation ! Certo quando si giocava a carte nelle osterie e nei vecchi bar garfagnini era un'altra cosa, d'altronde questo svago era uno dei pochi (o forse l'unico) che i nostri avi si concedevano. La sera dopo cena o nelle giornate di festa gli uomini si ritrovavano in questi "baracci", avvolti da nuvole di fumo denso delle sigarette, pronti a giocarsi il fiasco di vino in memorabili partite a briscola, tresette e magari anche a scopa. Per chi ha vissuto quei bar, nelle proprie orecchie saranno rimasti quel "fiorire" di moccoli che facevano tremare il crocefisso sulla parete, oppure quelle "bussate" vigorose sui tavoli che ti facevano sobbalzare sulla sedia e che dire poi delle urla e delle
arrabbiature per una giocata un po' troppo avventata del compagno? Ad ogni modo anche in questo campo la storia ha voluto dire la sua e questi giochi e le carte in genere (storicamente parlando)sono un passatempo piuttosto recente, la larga diffusione si è avuta tra il 1700 e il 1800 e anche qui la Garfagnana seppe differenziarsi... 
Come ben si sa di carte da gioco esistono varie tipologie che si suddividono per ogni zona d'Italia, ci sono quindi le carte napoletane, le bergamasche, le trevigiane, le siciliane, insomma regione che vai carte che trovi. Ma non crediamo però, che sia l'invenzione della carte da gioco che quella dei loro semi derivi da italiche pensate, tutt'altro, tutte queste carte "regionali" hanno la genesi da tre ceppi (principali) originari che sono ripartiti in
semi francesi
carte con semi francesi (cuori, quadri, fiori e picche), queste carte e questi simboli sono quelli più usati e quelli riconosciuti in modo internazionale, esistono poi le carte con semi germanici (ghiande, foglie, cuori e campanelli)e quelle con semi latini o per meglio dire spagnoli (spade, coppe, denari e bastoni). In Garfagnana, nonostante che la nostra valle sia piccola e poco abitata giochiamo con due tipi di carte. La parte
semi tedeschi
nord della valle gioca con le carte cosiddette "piacentine" (semi spagnoli) e la parte più a sud con le carte denominate "toscane"(semi francesi) e per spiegare questa stranezza e questa bizzarria bisogna appunto scomodare la storia, per chiarire il perchè queste carte
da Piacenza giunsero fino in Garfagnana. Ad onor del vero tali carte quel viaggio non lo intrapresero mai, non arrivarono infatti dalla ridente città emiliana, ma vennero con le truppe napoleoniche, quando nel 1796 giunsero nelle terre garfagnine. Difatti fra una cosa ed un altra i soldati francesi nel loro tempo libero giocavano ad un gioco di carte chiamato "Aluette"
semi spagnoli
(gioco di origine spagnola), questo divertimento era uno svago tipico delle zone contadine della Gironda e della Loira e si giocava proprio con carte con semi spagnoli(spade, coppe denari e bastoni)
È giusto pensare che l'uso di queste carte fosse già ben conosciuto dai francesi e che in Garfagnana, almeno all'inizio, non abbiano dovuto inventare un bel niente. Con un piccolo sforzo d'immaginazione si può considerare che i primi (soldati) giocatori che portarono le carte nella valle avranno dato vita ad animate partite, probabilmente in qualche osteria. Gli
Soldati che giocano a carte
spettatori, incuriositi dalla novità, si saranno prima limitati ad osservare i nuovi giochi e poco per volta li avranno imparati, diffondendoli a loro volta. I fabbricanti, ed ecco che entra in campo Piacenza, visto l'aprirsi di un nuovo mercato, le avranno copiate e adattate nei disegni, secondo la loro fantasia e l'iconografia del paese in cui venivano utilizzate. Per farla breve, questi soldati,
 le medesime carte  non le diffusero solamente in Garfagnana, ma anche nella Lombardia meridionale, nelle Marche, nell'Umbria, Lazio e sopratutto nelle province dell'Emilia e proprio a Piacenza la litografia Bertola ebbe occhio lungo e diversificò la sua produzione, cominciando a produrre anche carte da gioco (molto) simili a quelle che avevano importato i soldati di Napoleone, per questo poi con gli anni presero appunto la denominazione di carte "piacentine". Ben presto furono adottate in buona parte della Garfagnana, poichè affini a quelle di napoleonica memoria. Il discorso cambia se
Le prime carte piacentine
guardiamo alla bassa Garfagnana. Qui l'influenza di questi militari fu sentita molto meno, l'impronta toscana del vicino enclave fiorentino di Barga era molto più forte, tant'è che si manifestò proprio e anche sul gioco delle carte. Qui, giust'appunto si usavano carte puramente francesi, quelle con cuori, quadri, fiori e picche e a quanto pare si usavano già da un po' di tempo, tanto da considerarle già carte toscane o fiorentine (n.d.r: le fiorentine classiche sono di formato più grande in confronto alle toscane). A questo punto viene da domandarsi, perchè a Barga (fiorentina) e nei suoi dintorni (non fiorentini) si adottarono quel tipo di carte? Donare un mazzo di carte, creato per l'occasione di un matrimonio regale, per riempire le ore delle loro Maestà e al tempo stesso
Prime carte da gioco toscane
riprodurlo e metterlo in circolazione in tutto lo stato fiorentino, sarebbe stato sicuramente un bel gesto per ingraziarsi anche i favori del popolo, e a quello che sembra così fu e le occasioni furono molteplici visti i numerosi matrimoni fra la famiglia Medici e la nobilissima stirpe francese. Si cominciò nel 1533 quando Caterina de' Medici andò in sposa ad Enrico II re di Francia, si continuò con Ferdinando I de' Medici, nel 1598 convolò a nozze con Cristina di Lorena e ancora nel 1600 il terzo importante matrimonio franco- fiorentino fra Maria de' Medici ed Enrico IV di Borbone re di Francia anche lui. In pratica dal matrimonio di Ferdinando in poi la Toscana sarà amica della Francia e subirà il suo fascino (non solo nelle carte da gioco), fino all'avvento della casata dei Lorena nel 1737. 

Fra l'altro rimane il fatto che nemmeno i giochi tipici garfagnini
Giocatori di carte
 di Paul Cezanne
non hanno nulla dell'inventiva locale, nè regionale e nemmanco nazionale. La briscola ad esempio è francese, la parola "briscola" sembrerebbe derivi dal francese "brisque", che letteralmente significa "gallone". Il gallone era il grado indossato sull'uniforme dei soldati francesi che amavano passare il tempo giocando proprio a questo gioco. Il "tresette" ha origine spagnole risalenti al XVII secolo e così anche la "scopa". In Spagna era la "escoba", svago questo molto in voga fra i soldati iberici, contrabbandieri e pirati, che si giocavano il bottino conquistato, un pretesto per "ripulire" l'avversario.

Come abbiamo letto, tutto ciò non ebbe principio in Italia, ma in

men che non si dica la diffusione delle carte e dei loro giochi fu a dir poco rapida in tutto il Paese e vista la grande espansione  e popolarità lo Stato volle dire la sua...in che modo? Applicando sui mazzi di carte un bel bollo d'imposta. Nelle "piacentine" fino al 1972 era collocato sull'asso di denari, ed era posto sul ventre di quella bellissima aquila coronata, dapprima fu collocato sul quattro di denari, dove poi vi fu inserito lo stemma della città che aveva prodotto il mazzo. Nelle "toscane" il "privilegio" toccò all'asso di quadri. Ma le note negative purtroppo non finirono qui, si aggiunsero le lagnanze dei cosiddetti benpensanti che si lamentavano dei disordini che portavano questi immondi giochi: "Avviene in questa parrocchia, o sezione di Antisciana Comune di Castelnuovo che vendono acquavite anche senza i dovuti permessi,e, particolarmente in casa di uno, ove giocano alle carte e tante volte fino con disturbo e danno delle famiglie di ciascun giocatore, e alle volte hanno giocato anche in tempo delle

funzioni parrocchiali. Onde sono a pregare la bontà sua se emetterà avviso proibente la vendita dei liquori e parimente il giuoco delle carte"... Era il 1853, erano passati solamente cinquant'anni circa dalla loro piena fama, ed era già cominciata la dura vita delle carte da gioco.


Bibliografia:

  • "Usanze,credenze,feste e riti e folclore in Garfagnana" di Lorenza Rosso, Banca dell'identità e della memoria anno 2004
  • "Il rosso e l'azzurro" di Euro Gazzei, Carlo Cambi editore, anno 2001