mercoledì 28 ottobre 2020

Quello che fu il "vero" coprifuoco: Garfagnana 1943

Maledetta pandemia!!! Oltre al fatto principale di aver prodotto

oltre un milione di morti ed aver fatto ammalare una cospicua fetta della popolazione mondiale, hai infettato, oltre che noi poveri mortali, anche la nostra bella lingua: l'italiano. Hai introdotto nelle nostre bocche delle strane parole anglofone che fino a pochi mesi fa non ne conoscevamo l'esistenza e ne tanto meno il significato. Al posto della parola "chiusura" c'hai imposto quella strana parola: "lockdown". Il lavoro da casa si è invece trasformato in "smart working", le goccioline di saliva si sono trasfigurate nella parola "droplet" e qualcuno, non contento dello scempio linguistico in atto ha voluto deformare anche il "nobil parlare", trasformando la parola latina "virus" in un terrifico anglicismo che nel parlato comune l'ha portata a mutarsi nel termine "vairus"... Tale deturpamento lessicale non finisce però qui. Infatti come spesso accade (anche e soprattutto in questo periodo di emergenza sanitaria) usiamo determinate parole (stavolta italianissime) dandogli un significato non proprio consono al reale
contenuto della parola stessa. Il riferimento non è puramente casuale ed è attinente al termine più in voga in questa stagione autunno-inverno 2020, il vocabolo in questione è..:"coprifuoco". A certe parole, oltre che dargli il giusto significato, bisogna portargli il giusto rispetto, e noi, in Garfagnana, sappiamo bene cosa voleva dire "coprifuoco". Se si vuole capisco pure i signori politici, che questa parola incute paura e sgomento e lo sgomento di conseguenza porta al rispetto delle regole, però il riguardo a chi il vero coprifuoco l'ha patito sulla propria pelle direi che è a dir poco doveroso. La seconda guerra mondiale nella valle ha lasciato segni indelebili e seppur nel rispetto dell'attuale pericolo che stiamo correndo non è paragonabile a quello che per lunghi cinque anni accadde ai nostri nonni. Rimanere adesso chiusi in casa è un gioco da ragazzi: televisione, play station, termosifoni "a palla"... ma un coprifuoco in Garfagnana nel 1943 non era questo... Adesso vi spiego quello che succedeva...poi ditemi voi se è la solita cosa...

Prima di andare al nocciolo della questione è giusto però chiarire la genesi di questo termine, che non è figlia di quel tremendo periodico bellico, ma la sua nascita avvenne molto, ma molto tempo prima. Fu Guglielmo il Conquistatore, il primo re inglese che nel 1068 impose  lo spegnimento di tutti i fuochi del regno dopo il rintocco delle campane delle otto di sera. La maniera più usuale di smorzare queste fiamme era quella di "coprire il fuoco" con della cenere e il motivo ufficiale di ciò fu quello di prevenire ogni tipo d'incendio causale. Al tempo stesso però, non essendoci più luce nelle strade, costrinse i cittadini a rimanere chiusi in casa, vista la palese difficoltà che poteva esserci a camminare nel buio. Il termine fu "riesumato" e poi riutilizzato nuovamente (e stavolta con cognizione di causa) anche nella seconda guerra mondiale.

Era la mattina del 26 luglio 1943, il risveglio per gli italiani fu brusco e confuso. Il giorno prima era caduto il fascismo, lo stesso Mussolini era stato arrestato. La confusione e il subbuglio regnava in tutto il Paese. A riportare l'ordine, lo stesso giorno, fu un brevissimo comunicato stampa di sole due righe: "Il ministro Badoglio, succeduto a Mussolini ha indetto per l'Italia lo stato d'assedio con la legge del coprifuoco. In tutte le città viene creato il Commissariato Militare". Pertanto dalle otto di sera alle sei del mattino, tutti dovevano rimanere in casa e come se non bastasse, così come sottolineava il comunicato del Maresciallo Badoglio, vigeva anche lo stato d'assedio. Per quelli che non sapevano cosa fosse o come comportarsi dissipò ogni dubbio la circolare Roatta (Capo di Stato Maggiore): "Muovendo contro gruppi d'individui che perturbino ordine et non si attengono a prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di combattimento et si apra il fuoco a distanza anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche. Medesimo procedimento venga usato dai reparti in posizione contro gruppi di individui avanzati. Non è ammesso tiro nell'aria, si tira sempre a colpire come in combattimento. Apertura immediata del fuoco contro automezzi che non si fermano all'intimazione. I caporioni e gli istigatori di disordini, riconosciuti come tali, siano senz'altro fucilati se colti sul fatto, altrimenti siano giudicati immediatamente dal Tribunale di Guerra sedente in veste di Tribunale straordinario"... Alla faccia di qualsiasi d.p.c.m !!! Per farla breve i militari avevano l'ordine di sparare a chiunque fosse sorpreso nell'atto di violare il coprifuoco. Contestualmente furono vietati gli assembramenti di varia natura, inclusi gli spettacoli teatrali. Tutte queste prudenze e precauzioni erano messe in atto allo scopo di fronteggiare una temuta sollevazione dei fascisti. Ma in Garfagnana delle sollevazioni e degli spettacoli teatrali in tutta sincerità non importava un baffo, quello che ai

garfagnini importava era il lavoro nei campi, quel lavoro che poi avrebbe portato il pane in tavola, per cui quello che non tornava ai nostri nonni di questo coprifuoco era l'orario. Si, perchè cominciare a lavorare alle sei del mattino per buona parte dei contadini voleva dire ritardare su tutte quelle mansioni quotidiane che servivano al buon andamento dell'attività. Ad esempio gli animali si dovevano accudire ben prima delle sei del mattino, bisognava poi pulire la stalla, preparare il fieno, dargli da mangiare, mungerli e preparare gli attrezzi per affrontare il duro lavoro nei campi che cominciava proprio quando iniziava a fare giorno, per di più eravamo anche in estate e ogni ora di luce in più  era preziosissima. Fortuna volle che buona parte di discrezionalità sugli orari il governo centrale la affidò ai prefetti, era chiaro che le esigenze della popolazione variavano in base al luogo in cui si abitava, in città si poteva anche rispettare l'orario imposto dal governo, ma in Garfagnana sicuramente no. Perciò il commissario prefettizio di Lucca


Martinelli, decise (in maniera anche piuttosto tardiva)di accogliere le rimostranze dei sindaci garfagnini, portando l'orario di fine coprifuoco alle 4 del mattino, nell'ordinanza veniva comunque ribadita una norma fondamentale e a dir poco basilare...: "Sarà 
fucilato senza preavviso chiunque si trovi a transitare durante le predette ore". Ma questa non era l'unica paura per i garfagnini. Come ben si sa nella nostra bella valle proprio in quel periodo si attestò per lunghissimi mesi il fronte (Linea Gotica), gli alleati da una parte e i tedeschi dall'altra, eravamo quindi in piena zona di guerra e i bombardamenti se non erano all'ordine del giorno poco ci mancava e fu proprio per ovviare a questo pericolo che ai garfagnini (e agli italiani) capitò fra capo e collo una nuova ed urgente norma: l'oscuramento. Nelle ore notturne qualsiasi fonte di luce non doveva essere accesa in nessuna casa, bisognava "stompare" (chiudere in dialetto garfagnino) ogni porta e ogni finestra per evitare così di far uscire il benchè minimo filo di luce, facendo in questo modo s'impediva di essere bersaglio per eventuali aerei nemici che giravano la notte. Insomma, tanto per rendere  chiaro il quadro della situazione bisognava essere in casa alle otto di sera, al buio e poi anche al freddo (i termosifoni ancora non esistevano...), eventuali trasgressori sarebbero stati immediatamente passati per le armi. Questo se lo ricordava bene la Beppa di Gallicano, quando la notte si alzava per andare in bagno alla luce di una flebile fiamma di una consumata candela. Il ricordo del Mario di Castelnuovo è invece un altro e la memoria va a quelle notti insonni insieme al suo babbo, quando facevano a turno per dormire,
pronti a scappare e a svegliare tutta la famiglia in caso di attacco aereo. Era quella infatti l'unica eccezione che si poteva fare alla regola del coprifuoco, solo in occasione di un bombardamento si poteva fuggire di casa per arrivare a ripararsi alla più vicina cantina o al prossimo rifugio anti aereo. Non mancava nemmeno, chi come al solito, approfittava della situazione, rischiando veramente come non mai la propria pelle, difatti il buio totale e l'assenza dalle strade di persone e mezzi faceva si che coraggiosissimi ladruncoli entrassero a rubare nei negozi di alimentari. D'altronde le lontane memorie degli anziani garfagnini ricordano di altre persone che sfidavano la dura legge del coprifuoco, erano le loro mamme, che come topi uscivano di casa, svicolando da un cortile ad un altro e da un portone ad un altro ancora, quell'affannosa corsa "solo" per recapitare qualcosa di urgente o di necessario ad un vicino bisognoso. Tutto ciò andò avanti ancora fino al 1944. Più di un anno durò il coprifuoco. Nel corso di quel tempo anche il governo di Badoglio modificò più volte gli orari di inizio e fine, poi finalmente qualcuno capì che prolungando ancora questa disgraziata regola si rischiava di far morire 
sotto i bombardamenti centinaia di persone, così terminò e i garfagnini poterono allontanarsi dal pericolo, cominciando di fatto una nuova esperienza: lo sfollamento.

In conclusione, non rimane che ricordare a chi usa le parole a vanvera, cosa si nasconde dietro ad un singolo vocabolo. Ogni termine ha il suo peso, il suo specifico significato e soprattutto la sua storia. Il sociologo francese Gustave Le Bon rammentava ai suoi alunni:" Certe parole sembrano possedere un potere magico formidabile. Migliaia di uomini si son fatti uccidere per le parole di cui non hanno mai compreso il significato..." . 

 

Bibliografia

  • "Coprifuoco. Vita quotidiana degli italiani nella guerra civile" di Gian Franco Venè. Mondadori Editore
  • Testimonianze dirette da me raccolte 

mercoledì 21 ottobre 2020

Tre famosi condottieri romani che lasciarono il segno in Garfagnana...

Condottieri, comandanti e valorosi guerrieri, erano loro i veri eroi,

gli idoli incontrastati, nonchè le autentiche leggende viventi nell'antica Roma. Oggi questi idoli ne abbiamo sparsi un po' in tutti i campi dello spettacolo: sport, cinema, musica... Un colpo di tacco di Cristiano Ronaldo non manca di mandare in visibilio uno stadio intero. A Roma 2000 anni fa lo stesso effetto lo faceva il gladiatore più famoso di tutti: Spartacus, un fendente della sua spada generava un'esplosione d'entusiasmo in tutto il Colosseo e se nei cosiddetti "peplum" il famoso attore di turno si beatifica delle sue artificiali vittorie passando sotto un posticcio arco di trionfo, al tempo Scipione l'Africano in barba a qualsiasi finzione cinematografica, non recitava, lui attraversava veramente questi possenti archi, fra la folla stipata che lo acclamava come un vero e proprio Dio. D'altronde al tempo la popolarità si misurava in base alle terre conquistate, più conquiste si facevano più notorietà si acquisiva e più notorietà si acquisiva più potere si otteneva. Di questi condottieri bramosi di potere e di fama, alcuni ne sono passati anche in Garfagnana e tre di loro hanno lasciato un segno indelebile nella storia del paese a cui (a quanto pare) hanno dato il
nome. Infatti così fu  per un discendente della "gens" Minucia, riconosciuta da tempo immemore come un'antichissima famiglia patrizia, si parlava di essa fin dai tempi della repubblica e l'importanza di questa stirpe nei secoli a venire acquisì sempre più prestigio ed importanza, tanto da dare il nome a diversi monumenti dell'antica Roma: il Pons Minucius (un ponte lungo la via Flaminia), il Porticus Minucia e perfino una strada: la via Minucia, che collegava Benevento con Brindisi. Duecento anni prima della venuta di Cristo, un'ennesimo illustre figlio di questa progenie ebbe l'onore di dare il nome a un paese garfagnino. Lui era Quinto Minucio Termo e il paese in questione era Minucciano. La storia di questo condottiero cominciò ad adornarsi di gloria quando nel 202 a.C era al servizio di Scipione come tribuno militare nella campagna d'Africa. Da li in poi fu un continuo successo: nel 201 
a.C fu nominato tribuno della plebe, nel 197 a.C "edile curule" (il magistrato che aveva cura degli edifici, delle strade, degli spettacoli e della polizia urbana), successivamente venne incaricato di fondare sei nuove colonie lungo le coste italiane. Ma fu nel 196 a.C che la sua carriera toccò l'apice, quando da pretore gli fu affidata la provincia della Spagna Citerione, in men che non si dica riuscì a
Minucciano

sedare ogni rivolta e a consolidare nuovamente il potere di Roma in quella parte di penisola iberica. L'anno dopo tornò a Roma dove gli fu tributato il trionfo... Ma con tutti questi luoghi lontani migliaia di chilometri dalla Garfagnana, Minucciano cosa c'entra? Minucciano, o meglio ancora quelle terre che diventeranno Minucciano, cominceranno a salire agli onori delle cronache verso il 193 a.C, quando da console a Quinto Minucio Termo fu affidata la Liguria come provincia, li, e in quelle vicine montagne era infatti scoppiata una rivolta, gli Apuani stavano mettendo a ferro e a fuoco ogni accampamento romano in terra di Garfagnana e anche in quei versanti che davano sul mar Ligure. Minucio Termo fu quindi inviato in questi luoghi per ripetere quello che anni prima aveva fatto in Spagna. Da subito il furbo console capì che questi "barbari" nostrali erano fatti di un'altra pasta in confronto agli spagnoli, tant'è, per paura di essere attaccato portò a Pisa il suo quartier generale, ben lontano dal centro delle rivolte. In inferiorità numerica fu costretto più volte sulla difensiva e 
nei boschi garfagnini in più di un'occasione  fu amaramente sconfitto. Nonostante le sconfitte il suo "imperium" fu rinnovato, furono inviati finalmente (per lui) dei rinforzi e l'anno successivo (192 a.C) grazie a questo ottenne delle vittorie decisive contro gli Apuani. A quanto pare, da fonti non documentate, fu proprio dove oggi sorge il borgo garfagnino che Quinto Minucio Termo, malgrado la vittoriosa battaglia, rischiò di veder distruggere le sue legioni. Il notturno e improvviso agguato perpetrato dagli Apuani
all'accampamento del celeberrimo condottiero fece seriamente vacillare i legionari romani, tuttavia i militi dell'Urbe seppero reagire e fecero propria la vittoria. Sembra proprio grazie a questo successo che il nome di Minucio Termo rimase legato a questa terra a perpetua memoria. Ma come spesso succede a una luminosa "stella", dopo anni di successi ed acclamazioni arriva anche il periodo ed il tempo in cui questa stella si oscura. Gelosie ed invidie furono le motivazioni principali per cui la stella di Minucio si smorzò definitivamente. Rientrato a Roma nel 190 a.C il console "garfagnino" chiese il trionfo per le vittorie ottenute, ma gli fu negato per la forte opposizione di Catone che lo accusava (si dice ingiustamente)di aver ucciso dieci uomini liberi in Liguria, di aver inventato false battaglie e di aver esagerato con il numero di nemici uccisi. Oltre a spegnersi la buona stella, nel 189 a.C si spense anche la vita di Minucio, morto in battaglia nella guerra contro i Galati.

Invece a questo generale romano bastarono alcuni mesi di sosta in Garfagnana, senza combattere nessuna battaglia o uccidere

chicchessia per dare il suo nome a ben quattro paesi. Ma, ad onor del vero, meno si aveva a che fare con questo personaggio e meglio era. In fatto a desiderio di potere e di fama (buona o cattiva che fosse non gli importava), Lucio Cornelio Silla non lo batteva nessuno. Tra i condottieri romani di epoca repubblicana fu quello che si avvicinò di più all'accecante bagliore del potere senza confini. Gli antichi lo descrivevano come uomo senza scrupoli, questa mancanza lo portava a tradire amici e ad eliminare chi, forse un giorno lo avrebbe potuto tradire. Rimase comunque un abilissimo generale, anche se il suo esercito non lo seguiva per fedeltà, ma solo per le laute ricompense che gli offriva. La vita di Silla fu segnata da una continua scalata alla gerarchia sociale, fin da piccolo, quando nacque da una famiglia nobile decaduta. La sua gioventù fu poi molto "chiacchierata", si diceva che si faceva mantenere da una prostituta greca che, a quanto pare gli lasciò in avere una cospicua eredità. I destini suoi e della Garfagnana s'incrociarono nel 102 a.C, quando partì da Roma con le sue legioni per aiutare Gaio Mario e i suoi legionari a sconfiggere nella lontana Gallia i Cimbri e Teutoni. Nel suo tragitto per arrivare nell'attuale Francia passò anche in prossimità dell'attuale borgo di Sillano e li si fermò. Il rigido inverno garfagnino e le abbondanti nevicate non permetteva all'esercito di Silla di attraversare le montagne, perciò il generale decise di svernare su questi monti in attesa di tempi migliori. Furono costruite così delle robuste capanne di legno per ripararsi dai rigori del freddo, in attesa della primavera. All'arrivo della buona stagione questa capanne furono abbandonate, l'esercito riprese la marcia verso la Gallia e coloro che abitavano quelle zone s'insediarono in queste baracche lasciate dai soldati. Non a caso un detto popolare dice che: "Sillano, Sillico, Sillicano e Sillicagnana sono i paesi più vecchi della Garfagnana". Fattostà che una volta giunto a destinazione, 
Silla sconfisse i nemici presso Acquae Sextie(oggi Aix en Provnce). Una volta tornato a Roma cominciò veramente a fare piazza pulita di tutti i suoi nemici e nell' 82 a.C, dopo la battaglia di Porta Collina entrava a Roma e assumeva pieni poteri, consacrandosi dittatore. 
Quando la sua figura sembrava ormai assimilata a quella di un monarca assoluto, Silla sorprese tutti e abbandonò il potere, ritirandosi a vita privata. Le ragioni di questa sua scelta non sono chiare: forse l'effetto della grave malattia alla pelle che lo portò alla morte nel giro di un anno, forse la voglia di godersi la vita al fianco di Valeria, la sua quinta moglie.

Il prossimo personaggio che vado a raccontarvi non raggiunse mai la celebrità dei suoi colleghi qui sopra citati e se si vuole la sua fama non è legata a conquiste, vittorie o a chissà quale epiche

imprese. Anzi, la sua notorietà assunse agli altari della gloria ben 1700 anni dopo la sua morte, quando nel 1747 nell'odierno comune piacentino di Lugagnano fu rinvenuta una gigantesca tavola di bronzo dalle misure stratosferiche: un metro e trentotto di altezza, due metri e ottantasei di larghezza, pari ad un peso di circa duecento chili. Questo ritrovato di epoca traianea (96 d.C-117 d.C) prese il nome di "Tabula alimentaria di Veleia". Il documento testimoniava un'antica forma di quello che oggi i politologi chiamerebbero "welfare", che non è altro che la fruizione dei servizi sociali ritenuti indispensabili al cittadino. L'imperatore Traiano difatti fondò "l'istituto degli Alimenta", questo istituto prevedeva un prestito ai cittadini da parte dello Stato per acquistare terreni o grandi appezzamenti di terra, dietro garanzia ipotecaria, i cui interessi venivano esclusivamente destinati al mantenimento dei giovani in situazione di difficoltà. L'iniziativa puntava ad un duplice scopo: sostenere e rilanciare l'agricoltura nell'Italia settentrionale e assicurare un futuro degno di tale nome a quelle
generazioni di giovani che non avevano i mezzi per sostenersi. Rimane il fatto che in questo vasto elenco di nomi trovati nella lastra bronzea spuntava anche un certo Cornelius Gallicanus, che come sembra, grazie a ciò, acquistò il suo appezzamento di terra nella futura Gallicano. Caio Cornelius Gallicanus a quanto pare non fu mai un militare, ma un solerte funzionario dello Stato, ricoprì molti ed importanti ruoli amministrativi nelle varie provincie dell'impero fino a che arrivò il giorno della meritata pensione... L'imperatore Traiano gli affidò però un ultimo compito quello di "curatore rei alimenta", un'ennesimo programma di fondi pubblici per la sussistenza ai bambini poveri. Fatto questo, Cornelius prese possesso da colono romano delle sue nuove terre in Garfagnana, le stesse terre che Roma incentivava a colonizzare attraverso forti sgravi fiscali, dopo che gli Apuani furono sconfitti e cacciati per sempre.
Gallicano

Ma la vita anche anche al tempo era effimera, breve e fuggevole e se per molti come concetto principale della propria esistenza valeva il successo e la bramosia di potere, altri ancora ricordavano a questi quanto era difficile vivere con questo pensiero fisso nella testa, perchè bene o male i filosofi latini ricordavano a tutti il riassunto universale della vita del "Veni, vide, vale"... "vieni, guarda e...saluta".


Bibliografia

  • - Mario Enzo Migliori - L’Origo Gentis Romanae. Ianiculum e Saturnia 2015
  • - Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - Libro VIII
  •  - Jérôme Carcopino - Silla o la monarchia mancata - trad. Alberto Consiglio - Roma - Longanesi - 1943 
Sitografia

  • https://wsimag.com/it/cultura/49982-la-tabula-alimentaria-di-veleia

mercoledì 14 ottobre 2020

Giacomo il mugnaio. La leggenda del più intrigante fantasma garfagnino

Quello che è indubbio è che di leggende in Garfagnana ne abbiamo

veramente tante, è un mondo vastissimo, un'infinità di storie che si rifanno alle nostre usanze, alcune spiegano l'origine di feste, riti e costumi, altre raccontano perfino l'origine di determinate ricette, altre ancora sono invece legate al paesaggio, magari inerenti ad una casa diroccata o forse a un antico ponte. Alcune leggende infine esaltano un personaggio, a volte famoso, a volte legato al misero "popolino". Difatti quando questi racconti narrano di persone veramente esistite scopriamo che la leggenda racconta una cosa e la verità storica un'altra, ma di tanto in tanto scopriamo qualcosa che appartiene ad entrambi, fondendosi così in un unica narrazione. Questo è il caso di questa leggenda che sto per raccontarvi è una leggenda nata a Gallicano ed ha la particolarità di riferirsi ad un fantasma. I fantasmi ad onor del vero non sono molto presenti nelle leggende garfagnine, spesso le nostre leggende sono legate a personaggi fantastici come il Buffardello, la Margolfa, gli streghi, altre ancora si rifanno ai cosiddetti luoghi della paura, altre si riferiscono ai santi, ma poche sono connesse a persone morte (realmente esistite) diventate in seguito (secondo leggenda) fantasmi. La nobildonna lucchese Lucida Mansi appartiene a questo
Lucida Mansi

stretto mondo, così come il capitano della fortezza delle Verrucole Francesco Accorsini, ma il più intrigante (a mio avviso) rimane il mugnaio Giacomo. La notorietà di questo fantasma non permane tanto nelle sue gesta da ectoplasma, ma rimane alquanto emblematica in quanto questa storia nel suo contesto principale è credibile ed eventualmente lascerebbe anche un ampio margine alla ricerca storica. La leggenda in questione è stata trascritta dall'amico Piero Angelini e grazie a lui siamo riusciti a salvarla dall'oblio dei tempi e al tempo stesso a consegnarla nelle mani esperte degli studiosi. Quello che lascia stupiti di questa narrazione (a differenza di altre leggende) sono i riferimenti precisi, che in questo caso sono moltissimi: date, orari e nomi fanno pensare che non possa essere tutto frutto di immaginazione e folklore, aggiungiamoci poi che il racconto è veramente  avvincente e coinvolgente, alla stessa maniera  di un romanzo di Edgar Allan Poe, ma qui non siamo nella tenebrosa e lugubre Inghilterra vittoriana di metà XIX secolo, siamo a Gallicano, in Garfagnana, nel 1876 e ora vi racconterò quello che accadde ad un povero mugnaio garfagnino.

Il vecchio mulino di Ponte alla Villa poggia le sue fondamenta

sulle rocce che costeggiano il letto del torrente Turrite. Lì, appena sopra il pelo delle acque, è sistemata la grande ruota ruota di legno che dava il moto alle macine. Dalla vicinissima strada provinciale si scorgono però soltanto il tetto e il piano più alto dell'edificio. Nelle due stanze poste su quel piano abitava solitario, nell'anno 1876, un anziano mugnaio di nome Giacomo. Era costui un tipo di poche parole, piuttosto scontroso, ed era anche noto per la sua avarizia. Ai ragazzi incuteva un certo timore anche per il suo aspetto fisico: alto e massiccio, sempre bianco di farina da capo a piedi, risaltava in modo truce sul suo volto una benda nera che gli copriva l'occhio sinistro. Nessuno conosceva le cause di quella ferita e circolavano in proposito vecchie storie. La maggior parte dicevano che in gioventù fosse stato imbarcato su una nave pirata; e sostenevano inoltre che si fosse procurato durante un arrembaggio la larga cicatrice che gli attraversava la parte destra del petto. Per questi motivi i ragazzi del paese, quando erano ben sicuri che non li potesse sentire, parlandone sotto voce fra loro, lo chiamavano “Giacomo il pirata”. In realtà il vecchio badava silenziosamente alle sue faccende e non dava noia a una mosca. Non sarebbe però esatto dire che non aveva nemici, perchè molta gente che si rivolgeva al suo mulino se ne
tornava scontenta perchè gli sembrava troppo pignolo quando tratteneva la molenda. E, in un'epoca in cui la gente lavorava dodici ore al giorno per guadagnare un tozzo di pane, anche un chilo di farina era una benedizione del cielo. L'unica persona con la quale Giacomo si mostrava affabile era un fratello minore, di nome Cesare, che faceva il ciabattino in Campilato. Non si sarebbe detto che i due fossero fratelli tanto erano diversi: per quanto Giacomo era serio e schivo, altrettanto Cesare era allegro ed espansivo, sempre pronto alla burla. Forse proprio perchè era così diverso da lui, forse perchè ormai era l'unico familiare che avesse, il mugnaio era molto affezionato al fratello e si considerava per lui come un padre. Per questo motivo gli abitanti del Ponte alla Villa rimasero impressionati quel giorno che udirono grida fortissime nel mulino e videro uscire il ciabattino sbattendo l'uscio ed andandosene verso Campilato su tutte le furie. Il mattino successivo Brigida, una giovanetta figlia del pastore che abitava allora “Sulla Valle”, se ne partì di buon ora, come ogni giorno, per portare a pascolare le pecore. Giunta al bivio detto
“del Brillo”, alla tenue luce dell'alba, le sembrò di vedere un essere umano sdraiato all'inizio del ponticello che conduce verso Campilato. La fanciulla si avvicinò piano piano, col cuore che gli batteva forte,
Campilato
e la prima cosa che vide fu la benda nera che copriva l'occhio del mugnaio. Allora provò a chiamarlo:
-Giacomo, Giacomo ! - ma l'altro rimase immobile e in silenzio. La pastorella si fece coraggio e si avvicinò ancor di più chiamandolo con un filo di voce. Ma quale non fu il terrore che la prese quando vide un lungo coltellaccio piantato nella gola del povero mugnaio ! Brigida lanciò un urlo e corse a perdifiato verso casa, piangendo e tremando. Così riuscì balbettando a spiegare quello che aveva visto, fece si che il padre scendesse fino al Brillo e si avvicinasse cautamente al corpo disteso nella strada. Il pastore si accorse subito che per il povero mugnaio non c'era più niente da fare. Dallo squarcio aperto nella gola del malcapitato, era uscito tanto di quel sangue da tingere di rosso la strada per tutta la sua larghezza. Il Prefetto Regio di Lucca inviò immediatamente a Gallicano il Commissario di Pubblica Sicurezza con una scorta di dodici carabinieri a cavallo, perchè svolgessero le indagini. Il Commissario interrogò a lungo gli abitanti del Ponte alla Villa e tutti riferirono della tremenda lite che era sorta il giorno precedente fra i due fratelli. Dopo tre giorni di indagini, sei
Loc. Il Brillo
il cerchio giallo indica
dove fu trovato
il cadavere del mugnaio
carabinieri si recarono in Campilato e, per ordine Commissario di Pubblica Sicurezza, arrestarono Cesare e lo condussero a Lucca, nel carcere di San Giorgio. Il processo fu celebrato il mese successivo nel Palazzo della Pretura di Gallicano, dove ora si trova il Comune, e, nonostante le sue disperate invocazioni ed i giuramenti di innocenza, fu dichiarato colpevole dell'omicidio del fratello e condannato a morte mediante l'impiccagione.

In una triste mattina invernale Cesare fu portato al patibolo, la forca era stata appositamente innalzata in Piazzetta, la gente per il macabro evento si era accalcata sul luogo dell'esecuzione, perfino dalle finestre delle abitazioni si aspettava il compimento. Probabilmente a tale vista il condannato cominciò a maledire i presenti e si lanciò nel peggiore degli anatemi: il fantasma del fratello Giacomo nelle notti di luna piena avrebbe vagato per il paese di Gallicano, partendo proprio dal luogo della sua uccisione. Queste minacce però non spaventarono il boia che, alle ore 6:15 del 13 novembre 1876, eseguì la sentenza alla presenza delle autorità. L'impressione che questo fattaccio ebbe sui gallicanesi fu sconcertante, si vociferava nei mesi e negli anni seguenti di strane presenze nel castello del paese, le persone

Piazzetta San Giovanni 
luogo dell'esecuzione
avevano sentore di essere sinistramente seguite per le strette viuzze, si diceva addirittura che si sentiva bussare alle porte o alle finestre, c'era anche chi giurava di averlo visto aggirarsi nei pressi della Pretura. Rimase il fatto che nel 1884 per scongiurare ogni paura, proprio lì, al Brillo, dove fu assassinato Giacomo fu eretta una mestaina, infatti era consuetudine nei luoghi maledetti costruire una marginetta con lo scopo di esorcizzare e proteggere, ricordando al contempo l'osservanza di una preghiera.

Dopo 136 anni quella "mestaina", oggi, 2020, è ancora lì, per esorcizzare ogni turbamento, nel medesimo luogo dove fu trovato cadavere il mugnaio Giacomo, anche quel ponticello che nel 1876 era

La mestaina oggi
intriso del suo sangue e che conduce in Campilato esiste sempre... Solo il fantasma di Giacomo può essere considerato un mito, per il resto sono troppe le attinenze, i legami e i riferimenti legati alla realtà per consegnare in modo totale questa storia fra le braccia della leggenda.

Ringraziamento

Rinnovo il ringraziamento a Piero Angelini per aver riportato in vita questa bella leggenda.

mercoledì 7 ottobre 2020

Le fattucchiere garfagnine e il potere delle loro erbe

"Esaudiscimi, ti prego, e favorisci i miei propositi; ciò che io

ti chiedo, dea, tu voglia garantirmelo. Le erbe, qualunque genera la maestà tua, per causa salutare affida a tutte le genti; ora, mi permetta la tua medicina". Ecco, nel XV secolo sarebbe bastato che qualcuno avesse udito un'evocazione del genere per finire dritti dritti sul rogo... Finire la propria esistenza nel bel mezzo delle fiamme "purificatrici" non era solo una prerogative da affliggere alle streghe, ma in tal maniera l'orrenda morte sarebbe toccata agli eretici, ai "non convertiti" (alla religione cattolica) e a coloro che di solito pronunciavano la suddetta supplica: le "herbarie". Di queste donne la Garfagnana ne ha sempre avute e sono convinto che ancora oggi ci sono, esistono e ancora esercitano. D'altronde la nostra valle è immersa nel verde, la natura la fa da padrona e a partire dagli Apuani per arrivare ai giorni nostri i malanni del corpo, della mente e del cuore si guarivano (forse...) con l'uso delle erbe nostrane e fu proprio a causa di questo sapere che queste garfagnine vissero tempi particolarmente duri, contro di loro ci fu una tremenda persecuzione che durò a lungo e che conobbe ben due significative ondate: una dal 1480 al 1520 e l'altra dal 1560 al 1650. Ma per ben capire l'immagine e la funzione di tali "donzelle" guardiamo chi erano le fantomatiche "herbarie". Queste povere donne  venivano identificate generalmente con la parola "strega". Le autorità sia civili e religiose che

dovevano giudicarle "facevano di tutta un'erba un fascio", strega era colei che faceva sortilegi in connubio con Satana e strega era anche chi attraverso l'uso delle erbe guariva, curava e alleviava il dolore a uomini ed animali, infatti il monopolio e la gestione della conoscenza delle erbe era per la stragrande maggioranza dei casi affidata al sapere delle donne. Questa simil scienza era tramandata di generazione in generazione, da madre in figlia da tempi lontanissimi e la prima regola che veniva insegnata a loro da quel remoto tempo, era quella di capire fin da subito il grande potere delle erbe e in realtà pochi lo sapevano come queste donne, che "gli erbi" avevano tre particolari peculiarità: gli erbi nutrivano, guarivano e...uccidevano e questa conoscenza spaventava moltissimo gli uomini. Con il trascorrere dei secoli queste guaritrici passarono dall'essere considerate sagge e rispettate, all'esser viste con sospetto, paura e superstizione, da "virtutes herbarum" a strega il passo sarebbe stato breve. In questo modo l'antico sapere diventò un nemico e uno strumento del diavolo. Era difatti per mano del demonio se queste guaritrici utilizzavano le loro erbe come analgesici, calmanti e medicine digestive, ed era sempre in virtù del maligno se così pure riuscivano a lenire le sofferenza degli uomini con altri preparati, e per la chiesa questo era inaccettabile, bisognava pregare  e... accettare il dolore. A contribuire alla loro fama di maliarde, ad onor del vero concorsero
anche loro stesse, solitamente queste donne erano schive, solitarie, si potevano vedere la notte nei prati a cogliere erbe e pianticelle e poi quella cantilena e quelle invocazioni incomprensibili in ogni loro intervento certamente non le aiutava a togliersi di dosso quell'aura di mistero che le ammantava. A sostenere poi la tesi di esseri malvagi collaborarono anche le livorose donne del paese, secondo loro la causa della perdita dell'innamorato era da attribuire a queste "medichesse" e alla loro "pozione amorosa". Furono queste le principali cause che portarono la loro popolarità e la loro reputazione al livello più basso mai esistito, tant'è che il loro elegante e importante nome di "herbarie" si mutò per sempre in quello perfido e maligno di "fattucchiera". L'etimologia di questa parola parla chiaro, fattucchiera da "fattura", era colei che poteva "fare" qualcosa che era in propria dote a fin di bene ma... anche a fin di male. La gente comunque sia ci si affida lo stesso, per il popolino garfagnino la medicina empirica risultava più credibile e comprensibile che della medicina ufficiale. Un' "herbaria" fra le più consultate era infatti Ida di San Pellegrino in Alpe, la più famosa "medichessa" garfagnina, nel 1587 sosteneva di essere in grado di sentire le voci delle erbe nei campi
e di coglierne i messaggi più reconditi e gli insegnamenti più segreti e nonostante che le gran signore di Modena avessero alla loro corte esimi medici e profumieri, era da lei che venivano, lassù, sul monte, per cercare la sua pozione fatta con la Belladonna.Quest'erba diluita con l'acqua (e utilizzata come collirio)provocava la dilatazione delle pupille, tanto da rendere lo sguardo di queste madonne languido, profondo e affascinante(da ciò probabilmente è derivato il nome della pianta). La Garfagnana ne aveva (e ne ha) in sovrabbondanza di queste erbe e di questo le fattucchiere ne erano ben consapevoli, difatti ne esistevamo di ogni sorta, dalle più innocue alle più letali, magari in alcune poteva ingannare il loro bell'aspetto o il loro splendido fiore, ma per alcune di esse, i loro semini se ingeriti o lavorati potevano essere letali alla salute umana. La cicuta ad esempio era una di queste. Resa famosa per aver causato la morte di Socrate, infatti si ritiene che la dose mortale per un'essere umano sia di qualche grammo di frutti verdi. La sua ingestione provoca anche
Cicuta Maggiore
problemi digestivi, cefalee e diminuzione della forza muscolare. L'altra erba "cattiva" è il Giusquiamo, erba utilizzata dalla maga Circe per trasformare in porci i compagni di Ulisse, infatti la sua caratteristica principale è quella di alterare la mente, grazie a sostanze in essa contenute come la scopolamina e la iosciamina. L'erba del diavolo per eccellenza però è lo Stramonio, pianta altamente velenosa. A Lucca nell'ormai lontano 1992 alcuni ragazzi per bravata ne provarono gli effetti, si salvarono per miracolo. La pianta infatti è allucinogena, altamente sedativa e narcotica e i suoi effetti portavano le persone (se indotte) a suicidarsi o a commettere omicidi. La Mandragola invece appartiene al regno delle piante "buone" e il suo luogo ideale è sulla cima del Monte Procinto,
Stramonio comune

sulle Apuane, lì esisteva la migliore per fare pozioni e medicinali. La pianticella veniva usata come erba afrodisiaca e utilizzata anche per curare la sterilità, era una pianta talmente magica da non essere considerata nemmeno un'erba, si riteneva infatti che fosse una via di mezzo fra una specie animale ed un vegetale, la forma antropomorfa della sua radice ne era la conferma. Fra le altre, l'erba gatta veniva usata per fare filtri d'amore, mentre la menta era perfetta per guarire dal mal di stomaco e veniva data anche alle donne in stato interessante che soffrivano di nausea, inoltre se messa sotto il cuscino, durante il sonno aveva il potere di far compiere sogni premonitori. L'ortica invece, per le fattucchiera era la pianta adatta per eliminare una maledizione e rispedirla al mittente. In compenso il biancospino aveva il potere di calmare le persone e tranquillizzarle. Insomma un mondo difficile, particolare e vastissimo, che comportava una conoscenza immensa del 
Mandragola
mondo naturale e di fatto queste fattucchiere niente lasciavano al caso. La raccolta degli "erbi" doveva avvenire sempre di notte, ma non per qualche misterioso motivo, ma perchè le piante dovevano essere raccolte in una certa fase lunare per mantenere il più possibile tutti i loro  principi attivi e perdipiù se si raccoglievano lontano dall'abitato meglio era, poichè si affermava che se cresciute nel loro ambiente naturale in equilibrio con gli altri vegetali il loro effetto sarebbe stato ben più potente, ma non solo, queste donne rammentavano che esisteva "un tempo balsamico" di raccolta che corrispondeva a quel periodo dell'anno nel quale questi "erbi" sono più ricchi di sostanza utili e in realtà non fu per caso se Paracelso (uno dei padri della chimica farmaceutica)un giorno ebbe a dire: "Ho imparato più da queste donne che dai libri di Galeno ed Ippocrate" e se lo diceva lui...