giovedì 26 dicembre 2019

Alle origini del campanilismo in Garfagnana

foto di Daniele Saisi
Scrive Goethe nel suo celebre viaggio in Italia:-Qui sono tutti in urto, l'uno contro l'altro. Animati da un singolare spirito di campanile, non possono soffrirsi a vicenda-. La questione si fa "seria" quando si trattano certi argomenti. Il campanilismo è uno di questi e noi toscani lo viviamo come il pane quotidiano e nello specifico anche la Garfagnana lo sente come una cosa viscerale. Nonostante però che la Toscana sia la patria delle cosiddette "guerre di campanile", il termine "campanilismo" deriva da un aneddoto avvenuto a centinaia di chilometri di distanza. Siamo a Palma Campania nel 1841 e finalmente per i palmesi viene il tanto sospirato giorno della separazione dal comune di San Gennaro Vesuviano, un decreto del sovrano del Regno delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone, sancisce che Palma Campania può istituire un proprio comune autonomo. Nel contempo, dall'altra parte, a San Gennaro Vesuviano viene eretto il tanto desiderato campanile,
San Gennaro Vesuviano
il campanile senza l'orologio
orgoglio di tutta la comunità, su ogni facciata viene posto l'orologio civico, tranne che su una, quella posta ad oriente, quella verso Palma Campania... Questo è quello che dice la tradizione, ma solo la definizione del vocabolario rende bene l'idea: "Attaccamento esagerato e gretto alla propria città o al proprio paese". Checché se ne dica, questo fenomeno in Italia è molto sentito e importante, simboleggia un senso di identità e di appartenenza al luogo di nascita. Un sentimento talmente forte che travalica la stessa identità nazionale. Tutto ciò non nasce a caso ma ha profonde ragioni storiche. L'Italia è una nazione molto giovane, la sua completa unificazione nazionale termina 
alla fine della I guerra mondiale nel 1918, e fino ai tempi risorgimentali siamo una moltitudine di stati separati, che spesso combattono fra di loro, ognuno con la propria lingua e le proprie tradizioni. Questa è la falsariga del perchè anche in Garfagnana il campanilismo è così sentito, non facendo riferimento solamente a quello classico fra garfagnini e barghigiani, ma ciò accade fra comune e comune, ma non solo, anche fra quei paesi che fanno parte del solito comune e che distano poche centinaia di metri uno dall'altro. D'altra parte la Garfagnana fin
Gli stati italiani
prima dell'unificazione
dal medioevo ce la possiamo immaginare come un grosso ring, dove ognuno combatte contro l'altro e dove i governanti 
della nostra valle, con furbizia, fin da quei tempi hanno fatto leva sul carattere dei garfagnini e in genere sul sentimento umano: invidia, gelosia, opportunismo, emozioni ideali per fomentare zizzania e contrasti.A quel tempo il nostro attaccamento alla terra, nel senso proprio della parola, è invece dovuto al semplice bisogno di mettere il pane sotto i denti, dal momento che per struttura morfologica la Garfagnana è difficilmente coltivabile, per questo che un solo metro di terra in meno significa meno raccolto e di conseguenza minor cibarie, quindi la filosofia del "questo è tuo" e "questo è mio", è chiara fin dai primordi, poi a soffiare sui fuochi delle discordie territoriali hanno cominciato i primi "nobiluomini" e sul motto "divide et impera" faranno le loro fortune. Gherardinghi, Rolandinghi, Suffredinghi, siamo agli inizi dell'anno mille e il territorio comincia ad essere diviso fra potenti famiglie feudali, ognuna di esse cerca di portare nella testa dei propri sudditi l'ideologia a cui la stessa potente famiglia è assoggettata: quando l'imperatore e quando il Papa. I secoli passano e la divisione è sempre più presente e più netta nelle nostre terre. La Garfagnana è divenuta terra di conquista per altre città, che sono a sua volta in lotta fra loro: Firenze, Pisa e Lucca. Nel XV 
Guerre medievali
secolo di tutta risposta i garfagnini si scocciano di questo tira e molla e mettono in ballo un'ennesima città e un nuovo signore. Così facendo nel 1429 con un atto di dedizione, si passa sotto gli Estensi di Ferrara. Al marchese d'Este Niccolò III sono assegnate le vicarie di Castelnuovo, di Camporgiano e di Gallicano, mentre al marchese Borso d'Este (nel 1451)viene affidata la giurisdizione per le cosiddette vicarie denominate "Terre Nuove". Insomma, le divisioni aumentano, addirittura sotto la medesima casa regnante! 

Perciò, capirete voi, come si faceva a non diventare campanilisti in Garfagnana, in tutto questo bailamme? Inoltre, per rendere la situazione ancor più ingarbugliata è d'uopo notare che già nel 1500 siamo il crocevia di tre stati: Lucca, Firenze e Ferrara(poi Modena). Di campanilismo ne sa già qualcosa l'Ariosto se nella IV satira così dice riferendosi alla Garfagnana:
"Ogni terra in se stessa alza le corna,
che sono ottantatre, tutte partite
da la sedizion che ci soggiorna."
Si avete capito bene, 83 comuni, divisi in quattro vicarie, e ogni
Le Satire
L.Ariosto
comune vuole dire la sua... Povero Ariosto !!! Che deve poi combattere pure l'ostilità dei garfagnini verso Firenze. Diciamoci la verità, gli Estensi ne farebbero volentieri a meno delle terre garfagnine, ma il garfagnino invece non vuole far parte di Firenze. Si vede che l'esperienza non è stata buona, quando Papa Leone X (acerrimo nemico degli Estensi) consiglia ai fiorentini di conquistare la vallata. I fiorentini accettano il consiglio e nel 1521 ne prendono possesso, ma alla morte del Papa, alla fine del solito anno, i notabili di Castelnuovo scacciano il commissario pontificio, richiedendo nuovamente la protezione di Modena. Non pensiamo che questo breve periodo di dominio gigliato non ha lasciato il segno per l'argomento che stiamo trattando, tutt'altro, da ciò nascono due fazioni con forti spinte autonomistiche, che si muovono e si regolano in direzioni opposte. I notabili garfagnini si dividono quindi in due "partiti": uno detto "all'italiana", filo ecclesiastica e "filo fiorentino" e l'altro definito "alla francese" e vicino al duca d'Este, alleato dei francesi. Barga invece accoglie a braccia aperte Firenze, anche lei tirata da una parte all'altra dai lucchesi e dai pisani, nel 1341 decide di sottomettersi a Firenze. E' la sua fortuna, i Medici hanno  grande interesse per Barga e del suo circondario, da cui traggono importanti materie prime, concedendo poi ai loro cittadini privilegi ed esenzioni fiscali che consentono lo sviluppo di fiorenti attività e commerci. Barga
Il Marzocco a Barga
simbolo fiorentino
del potere popolare
difatti rimane fiorentina fino al 1859. Questa antica ricchezza barghigiana probabilmente è la genesi del tanto "odio" garfagnino. Forse il sentimento dell'invidia, giocò molto su questo fatto, il garfagnino fu generalmente un contadino povero, questa povertà lo portò ad essere scaltro e furbo, mentre il barghigiano già all'epoca vantava un paese ricco di palazzi signorili e di uno stile di vita completamente diverso. Rimane il fatto che il culmine di questo campanilismo fra garfagnini e barghigiani è stato toccato nel lontano 1666, per la precisione sono i gallicanesi i protagonisti del fattaccio. Il fiume Serchio a quel tempo è una risorsa importantissima, sia per la pesca, sia per la creazione delle cosiddette "vasche da macero": grossi pozzi d'acqua dove viene messa a marcire la canapa, risorsa significante per l'epoca. Queste pozze sono fonte di interminabili diatribe e a complicare la situazione ci si mettono problemi di confine, dal momento che anche lo stesso fiume è diviso in tre stati (quelli sopra citati), tutti cercano di "disordinare" le acque a proprio piacimento. Per secoli è il lavoro delle Cancellerie a dirimere pacificamente le spinose questioni e nonostante la buona volontà si arriva anche al misfatto. Un "bel" giorno i gallicanesi si appostano quatti quatti dietro a dei massi e allo scorgere dei barghigiani, intenti a deviare le acque del
Vasche di macero per la canapa nei fiumi
fiume aprono il fuoco, c'è un vero e proprio scontro ad archibugiate, sedato in qualche maniera dalle forze dell'ordine.

Sarebbe però errato pensare che "il campanile" divideva (e divide) solamente Barga dal resto della valle, no, anche la stessa Garfagnana ha vissuto campanilismi estremi come quello del 1921 e dalle pagine de "Il Camporgiano" così si leggeva: "...gagliarda e generosa alziamo in alto, su,su, più in alto dell'altezza dei nostri monti, alziamo la nostra bandiera, la bandiera fiammeggiante dell'indipendenza civile, della libertà, del progresso, della nostra emancipazione. Noi vogliamo risvegliare tutte le nostre latenti energie e dirigerle senza distinzione di partito e di casta verso la lotta unica, per un nostro avvenire migliore, verso la lotta per tutelare gli interessi dell'Alta Garfagnana che nulla hanno in comune con quelli della Bassa". La questione tirata in ballo dal giornale ha origini anche economiche. Il giornalista vede una parte bassa della valle come più moderna e al passo con i tempi, da poco infatti ha aperto la
La S.M.I di Fornaci, foto d'epoca
S.M.I di Fornaci di Barga, molti dei nuovi operai cominciano ad abbandonare le colture per lavorare in fabbrica. La parte nord
(sempre secondo il periodico), invece ha esigenze diverse, legata com'è ancora alle attività rurali, per questo che l'Alta Garfagnana preferisce rimanere sotto la provincia di Massa, mentre la Garfagnana Bassa è per l'annessione alla provincia di Lucca.
Riassumendo il tutto possiamo dire che sono tre le cause che c'hanno portato al nostro campanilismo (talvolta) estremo. La prima ha una ragione storica: la Garfagnana nei secoli, rispetto a molte altre zone d'Italia prima dell'unificazione è una terra frazionata e divisa in maniera esasperata: vicarie, comuni, circondari, ognuno di essi in buona parte autonomo, essere poi terra di confine di tre stati, ha acuito ancor di più il termine più caro alla parola "campanilismo": divisione. Il secondo motivo lo possiamo ricercare in una spiegazione economica, volta allo sfruttamento
Castelnuovo,vecchia cartolina
della terra e delle acque, la povertà infatti aumentò il senso della proprietà: meno terra hai a disposizione per coltivare, meno si mangia. Il terzo motivo è puramente di carattere umano e accomuna tutti i campanilismi del mondo... d'altronde l'invidia è una "brutta bestia", Wilhelm Busch dice a proposito :-il guadagno altrui viene quasi sempre recepito come una perdita propria".

I tempi però non sono cambiati, sono passati secoli e secoli e nel 2020 ancora ognuno sta a ragionare per il proprio orticello, non abbiamo ancora capito che un popolo unito, una collettività unità è un ostacolo a chi vuole comandarla per i propri fini. Quello che invece può fare la differenza davvero, è imparare a connetterci fra
di noi, ciascuno individuando  e valorizzando le proprie caratteristiche. Per il resto ben venga la divisione del "campanile", quel sano campanilismo, dove ci sta pure lo sfottò e la presa in giro. Ma per favore, non cadiamo nuovamente nella trappola del vecchio motto: "divide et impera". La storia insegna.

mercoledì 18 dicembre 2019

Le leggende di Natale della Garfagnana

Non voglio essere irriverente, ne tanto blasfemo, ma l'elettrizzante
magia che coinvolge buona parte degli aspetti del Natale è legata al mito, alla tradizione e in molti, moltissimi casi alla leggenda. Già la stessa data in cui si festeggia la venuta al mondo del Salvatore, rientra proprio in quest'ottica; la Bibbia non dice nulla di specifico circa il mese o il giorno in cui nacque Gesù. Nella scelta del 25 dicembre come giorno di Natale, influi il calendario civile romano, che alla fine del III° secolo celebrava in quel giorno il solstizio invernale, il cosiddetto "sole invitto". Da quella data, le giornate si facevano più lunghe e metaforicamente parlando, in questo contesto, alla nascita del Cristo gli venne attribuito medesimo significato, il significato della Luce che nasce per sconfiggere le tenebre, un nuovo sole di giustizia e verità. 
Questo è l'esempio più alto, più significativo, ma ne possiamo
Babbo Natale e San Nicola
citare altri, meno sintomatici, ma utili per capire il concetto. E se, come nella circostanza della nascita di Gesù, il paganesimo si è fatto cristianesimo, nel caso di Babbo Natale è il fatto contrario, è il cristianesimo che si è trasformato in paganesimo. Si, perchè Babbo Natale vide origine in San Nicola, santo vissuto nel IV secolo e festeggiato il 6 dicembre. Secondo la tradizione, San Nicola regalò una dote a tre fanciulle povere, perchè potessero andare in sposa, invece di darsi alla prostituzione, in un'altra occasione salvò tre bambini. Fu così, che nel Medioevo prese usanza, nel giorno in cui si festeggia il santo di commemorare tutti questi episodi, facendo piccoli regali ai bimbi. Con il passare dei secoli, in special modo nel Nord Europa, si appropriarono di questo commemorazione, trasformando San Nicola in Samiklaus, Sinterclaus o nel nome a noi più conosciuto di Santa Claus. Di li, il passo fu breve, i festeggiamenti si spostarono alla festa più vicina e più importante: il Natale. Si potrebbe continuare ancora e osservare che anche l'albero di Natale nasce dalle credenze popolari nordiche, così come le palline con cui viene decorato videro la loro genesi nella leggenda. Insomma, tutto quello che è legato al Natale è ammantato di leggenda, favola e allegoria e a tutto questo non si poteva sottrarre la Garfagnana, una delle culle di questi tradizionali racconti e allora seguitemi faremo un viaggio in alcune delle leggende di Natale della Garfagnana.


LO ZINEBRO
In Garfagnana c'è l'usanza di fare l'albero di Natale con il
Ginepro
Ginepro, mai con l'abate, nemmeno con il pino, solamente con lo zinepro (come si dice in dialetto). E sapete il perche? Perchè quando San Giuseppe e la Madonna scapparono per andare in Egitto e il perfido Erode dava la caccia a tutti i bambini, fu proprio lo zinepro che salvò Gesù, comportandosi meglio delle altre piante. Era una notte buia e tempestosa, pioveva a più non posso, e dopo la pioggia anche la neve. Il povero San Giuseppe non sapeva come fare a riparare dal maltempo se stesso e Maria, non c'era l'ombra di una capanna, nemmanco di un metato, di fronte a se aveva solamente selve. Videro allora una ginestra e gli chiesero riparo, la ginestra stizzita le mandò via. Gambe in spalla allora, finchè non videro una bella scopa 
(n.d.r: un'erica), alta e frondosa, all'ennesima pietosa richiesta di riparo la scopa ebbe a dire:- Surtitimi di torno, io nun ne vo' sapè di voialtri. E poi se per disgrazia passa Erode e vi trova qui sotto mi brugia anco me. Surtitimi di torno v'ho ditto!- Intanto continuava a nevicare copiosamente e ai due poveri sposi non rimaneva altro che cercare un albero benevolo. La stanchezza però oramai le stava vincendo, fino a che non scorsero uno zinepro, anche a lui chiesero riparo:- Vinite, vinite pure- gli rispose e per ripararli meglio e perchè Erode non li trovasse protese i suoi aghi in avanti - Cusì se viene Erode si punge tutto-. Il malvagio tiranno passò, ma non le trovò. Il mattino dopo aveva smesso di nevicare e finalmente San Giuseppe e la Madonna ripresero la strada per l'Egitto. Da quel giorno per i garfagnini lo zinepro diventò il loro albero di Natale.


I RE MAGI SULLA PANIA
Credeteci pure, c'è una notte, fra Natale e la Befana che i Re Magi
L'impronta dei cammelli sulla Pania
passano sopra la Pania, sui loro cammelli alati. Veleggiando sui nostri monti si dirigono verso Betlemme, guidati da una stella maestra. Quello che è certo che la strada è lunga da fare, il percorso è improbo e le Apuane sono uno scoglio duro da superare. Quello è proprio il periodo del maltempo, pioggia e bufere di neve sono all'ordine del giorno e i venti che spirano dal mare creano un muro di nebbia invalicabile, infatti quando i tre Re passano proprio sulla vetta della Pania della Croce i cammelli repentinamente si abbassano dirigendosi verso il monte, prendendo da li lo slancio verso il mare. Nel punto esatto dove gli zoccoli dei quadrupedi toccano la cima, lasciano l'impronta dei loro zoccoli e nel cielo uno sfavillio di scintille, che vengono giù come luccicanti stelle cadenti.


SAN PELLEGRINO E BERTONE: IL MUGNAIO CHE NON VOLEVA FESTEGGIARE IL NATALE 
C'è una località vicino a Castiglione che è detta "Il Mulinaccio",
questo dispregiativo ha un perchè. All'epoca, in questa località sorgeva un mulino che prendeva le acque dal vicino torrente chiamato "Butrion". Il padrone era il mugnaio Bertone, uomo infido,  antipatico e pure cattivo, dal momento che ad ogni piè sospinto bestemmiava Nostro Signore. Dal cielo l'arcangelo Gabriele chiedeva vendetta, ma il Signore visto l'intercedere di San Pellegrino chiudeva sempre un occhio, chiedendo però in cambio un'opera buona del mugnaio irrispettoso. L'occasione di redenzione l'ebbe la notte di Natale. Tutti i paesani si stavano preparando per andare alla messa, le campane stavano suonando, ma Bertone non ne voleva sapere di andare a messa e per dispetto e per avidità dette il via alle rumorose macine del mulino e cominciò a lavorare. All'improvviso un sinistro rumore echeggiò da sopra il suo mulino, dalla montagna si staccò un grosso masso, che sollecitato dalle ali dell'arcangelo precipitò sulla costruzione, schiacciando Bertone. Si racconta che da quei tempi, proprio la notte di Natale chi passa da quelle parti, sente ancora strani rumori, come lo strepitio di catene e il girar di macine.

IL CEPPO DI NATALE
In Garfagnana dove il retaggio contadino è ancora sentito, le tradizioni natalizie vengono tenute vive affinchè non venga
dimenticato l'insegnamento degli avi. Questo è il caso del "ceppo di Natale", che di leggenda non ha niente, ma rientra nelle nostre care, vecchie e dimenticate tradizioni. Il ceppo, non è altro che un grosso ciocco di legno messo ad ardere nei camini alla vigilia di Natale. Il grosso pezzo di legno, alcuni mesi prima veniva già adocchiato dal contadino, una volta scelto accuratamente era messo ad asciugare, pronto per quella sera ad essere arso davanti alla famiglia riunita. La particolarità era che questo grosso ciocco (talvolta talmente grande da essere trasportato da due persone), doveva ardere fino alla sera di Santo Stefano, in alcune famiglie addirittura fino alla sera del capodanno. Per durare così a lungo venivano usati alcuni stratagemmi, come ungerlo con il grasso di maiale o coprirlo di cenere perchè la brace non lo bruciasse completamente. Di solito veniva chiamato pure il prete a benedire il ceppo, dato che il suo significato rientrava nella sfera religiosa,
dal momento che il suo calore doveva servire per accogliere e riscaldare la venuta di Gesù Bambino nella casa. Ma quest'usanza vide la sua origine in tempi lontanissimi e si rifaceva probabilmente al significato puramente pagano che si dava al solstizio d'inverno: un fuoco sacro, in collegamento diretto con il sole. Tant'è che proprio San Bernardino da Siena deplorava questa tradizione. Siamo a Firenze nel 1424 e queste furono le sue parole: "Per la natività di nostro Signore Gesù Cristo in molti luoghi si fa tanto onore al ceppo. Dalli ben bere! Dalli mangiare! El maggiore della casa il pone suso e falli dare denari e frasche. Perché è così in Natale rinnegata la fede e perché so’ convertite le feste di Dio in quelle del diavolo? Si vuole mettere el ceppo nel fuoco et che sia l’uomo della casa quello che vel mette, coloro i quali pongono il ceppo al fuoco la vigilia di Natale, conservano poi del carbone alcuni contro il
San Bernardino, il predicatore
cattivo tempo pongono fuori della propria casa l’avanzo del ceppo bruciato a Natale".
Si, perchè esiste ancora l'usanza di conservare le sue ceneri, a quanto pare hanno proprietà magiche e di buon augurio: possono essere sparse nei campi per avere un buon raccolto, favoriscono la fertilità degli animali e proteggono dai fulmini.


Leggende e usanze queste, che fanno parte di un bagaglio culturale antico, che si intreccia in un singolare mix di sacro e profano, ricordandoci che non è importante cosa trovi sotto l'albero di Natale, ma chi trovi intorno. Buon Natale a tutti !!!


Bibliografia:

  • "La Pania" dicembre 1990 "Il zinebro" professor Gastone Venturelli
  • "Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" Paolo Fantozzi. Edizioni le lettere
  • "Predica XXIV" San Bernardino da Siena

giovedì 12 dicembre 2019

La Garfagnana alla vigilia della I guerra mondiale: povertà, ignoranza e un...pessimo malcostume

Poco più di cent'anni per la storia dell'umanità non sono niente,
per la storia del mondo figuriamoci...un granello di sabbia. Eppure in cento anni ne accadono di cose, guardiamo gli ultimi: due guerre mondiali, tre guerre in estremo oriente (Corea, Indocina, Vietnam), e quattro conflitti arabo-israeliani. In questi cent'anni abbiamo inventato la bomba atomica, abbiamo scoperto la penicillina, nati e morti fascismo e comunismo, inventata la televisione, la radio e i computer ultramoderni. Nonostante questo piccolo lasso di tempo (storicamente parlando) ci dimentichiamo spesso di ciò che eravamo e di quello che abbiamo combinato nel bene e nel male, lo scrittore inglese Aldous Huxley disse che il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia c'insegna. Così fu per quei governanti che nel 1940 ci coinvolsero nuovamente in una guerra mondiale. Niente aveva
insegnato la precedente guerra(la I guerra mondiale), anche qui c'eravamo buttati in un conflitto che ci sarebbe costato un'enorme perdita di vite umane e perdipiù ci sarebbe costato valanghe di miliardi di lire. Nessuno si curava, se socialmente parlando, la nostra Nazione aveva le cosiddette "pezze al culo". Nel 1914, alla vigilia della grande guerra, in Italia si crepava di fame... si moriva ancora di pellagra, di tifo, febbri reumatiche, gastroenterite, malaria, meningite e denutrizione. Si moriva di tutte quelle patologie legate alla sotto-alimentazione e al sudiciume. A dispetto di questo non esitammo, in tre anni di guerra, a spendere per il famigerato sforzo bellico, 45 miliardi di lire, pari ad oggi a 150 miliardi di euro. Uno sforzo gigantesco, paragonato alle reali potenzialità economiche della nazione. Il costo ammontò ad un terzo del P.I.L dell'intero periodo '15-'18 e sebbene la guerra ci vide vincitori, il Paese si trovò nelle condizioni economiche, politiche e sociali, tipiche di una nazione sconfitta.E la Garfagnana come si presentava alla vigilia della I guerra mondiale? In che condizioni sociali era? Nel 1914 eravamo 37.855 anime, divisi in 17 comuni,
Italiani in partenza per la guerra
dediti per la maggior parte alla pastorizia e all'agricoltura. Si calcolava al tempo, dagli ultimi censimenti, che di queste trentasettimila persone circa dodicimila fossero impiegati in lavori agricoli, poco più di duemila nell'industria e nell'artigianato, altre cinquecento e più persone si dedicavano al piccolo commercio. In più a questi lavoratori esisteva un'altra categoria che vedeva, impiegati dello Stato, guardie municipali e campestri, preti, frati e maestri, nella sua totalità erano quasi seicento. In più esisteva una certa elite di cosiddetti proprietari capitalisti, i ricconi, per capirsi, questi erano 721 (per la precisione), anche se nessuno di questi era da considerarsi un milionario. Ma un quadro  tagliente, drastico e reale della situazione lo riportarono i giornali dell'epoca, disegnando una condizione drammatica, uno stato delle cose che non aveva certo bisogno di tuffarsi in un imminente conflitto, ma avrebbe avuto bisogno che una parte di
Operai e operaie della Cucirini
 di Gallicano, una delle
poche industrie presenti
quello sforzo economico intrapreso per la guerra fosse dedicato alla scuola, al lavoro e all'industria, per un'area (e per molte altre ancora), come quella garfagnina, definita al tempo "depressa". Siamo nell'ottobre 1913, Augusto Torre sul periodico "La Voce" del direttore Prezzolini così diceva in riferimento alla vita garfagnina:"La vita, in generale, è tutta dedita al lavoro; i contadini e i piccoli proprietari terrieri devono lavorare continuamente in estate e in inverno, passando da un genere di occupazione all'altro, per trarre dalle terre quello che abbisogna per l'alimento, per le vesti, per pagare gli strumenti di lavoro, per pagare le imposte ecc. e sono spinti al dissodamento dei terreni e alla cultura più intensa dei vecchi. Nè si creda che per questo sia stato possibile fare entrare in Garfagnana i metodi nuovi di coltivazione del suolo: tutt'altro! I sistemi di lavorazione agricolo sono i medesimi di 50, 100, o 200 anni fa..." ma non solo,  sempre il Torre nel suo articolo riferiva
di una situazione a dir poco paradossale e confermava il fatto che ormai il garfagnino della propria terra aveva coltivato ogni metro quadro coltivabile e che ormai con l'aumento demografico (n.d.r.: non come oggi, allora i bambini nascevano veramente!) questa terra da un punto di vista produttivo stava già dando il massimo, quindi, in un futuro prossimo non avrebbe potenzialmente avuto la possibilità di sfamare altre bocche, considerando poi il fatto che le prospettive erano fra le peggiori e così continuava l'articolo: "la Garfagnana è una regione isolata dai grandi centri, lontana dal suo centro politico: Massa, priva di strade, di industrie, di commerci". Un escamotage alla miseria era investire sui figli, ma non come intendiamo oggi... se nasceva un figlio maschio, una soluzione possibile a tutti i mali era quella di farlo diventare un prete. Qui c'entrava ben poco la vocazione, pochi pensavano di servir Dio, un prete in famiglia significava mantenere
intatta la proprietà dei terreni, pagare eventuali debiti, un prete in casa raddrizzava ogni situazione, a confermare questa tesi era l'eccedenza di preti in Toscana (anno 1911), molti sacerdoti toscani e sopratutto garfagnini venivano trasferiti nelle diocesi venete. Da giornalista è da storico analista qual'era il Torre, giustamente diceva che una soluzione a questo malessere sociale sarebbe stata quella dell'emancipazione intellettuale e culturale, ma l'ignoranza a quanto pare dalle nostre parti si tagliava ancora con il coltello. L'ignoranza e la mancanza di istruzione era uno dei tipici mali del garfagnino medio di quel tempo. Dal censimento del 1911, quattro anni prima dell'ingresso in guerra, il 30% della popolazione garfagnina era completamente analfabeta, buona parte del restante sapeva appena leggere e scrivere o mettere una firma. Di vita intellettuale poi, non se ne parlava assolutamente: "...è molto se leggono un giornale qualunque, senza capir, naturalmente, quello che leggono, se non si tratta di fatti di cronaca...". Di fronte a ciò ci metteva del suo anche il garfagnino stesso. A mettere il bastone fra le ruote ad un possibile innovamento, ci facevano incastrare delle mere ragioni campanilistiche, tant'è che venti secessionisti garfagnini spiravano nella valle. Proprio alla vigilia di una guerra mondiale, questo
Vignetta satirica sulla
neutralità italiana nel 1914
appariva una situazione illogica, da una parte il mondo si contendeva nazioni e regioni intere, mentre il garfagnino voleva dividere l'alta Garfagnana dalla Bassa Garfagnana. Giornali di tutto rispetto combattevano questa battaglia e "Il Camporgiano" intendeva propugnare gli interessi della parte più alta della valle, interessi avvertiti come non necessariamente coincidenti con quelli della parte bassa: "...gagliarda e generosa alziamo in alto, su, su più in alto dell'altezza dei nostri monti, alziamo la nostra bandiera, la bandiera fiammeggiante dell'indipendenza civile, della libertà, del progresso, della nostra emancipazione...Noi vogliamo risvegliare tutte le nostre latenti energie e dirigerle senza distinzione di partito e di casta verso la lotta unica, per un nostro avvenire migliore, verso la lotta per tutelare gli interessi dell'alta Garfagnana che nulla hanno in comune con quelli della bassa". Alla faccia della globalizzazione!!! Per farla breve e chiara, nella nostra valle, non eravamo preparati non solo ad affrontare una guerra, quello che era ancora più grave era che non eravamo consapevoli di quello che intorno ci stava accadendo; Lunardi dalle pagine de "La Garfagnana" afferma che "...la Garfagnana può
raffigurarsi, amministrativamente parlando, all'Italia medievale di un tempo. Ad ogni piè sospinto troviamo un piccolo comune, in ogni comune, amministratori che vedono l'interesse della propria terra..."
, il giornalista si riferiva anche, in maniera sibillina, ad un mal costume dell'epoca che vedeva la presenza di "governi nascosti", praticamente in ogni comune si praticava la gestione del potere politico da parte di alcune famiglie maggiorenti. Su questo fatto rincarava nuovamente la dose il Torre, stavolta neanche tanto in maniera sibillina: "...le elezioni amministrative si limitano al vicendevole alternarsi di alcuni pochi individui, che sono i benestanti, le vecchie famiglie rispettabili, quelli che dovrebbero pagare una maggiore somma di imposte che procurano di scaricare sui loro contadini e sugli avversari". Ma come si suol dire, al peggio non c'è mai fine, perchè in effetti, al garfagnino di qualsivoglia elezione non importava un bel niente, anzi, importava perchè era l'occasione per rimpinguare il portafoglio, era infatti diffusissima la vendita del voto, ad opera di agenti locali e galoppini vari. Ecco l'ennesima testimonianza del coraggioso Torre: "...la massa dei garfagnini non conosce affatto quale sia, come funzioni il governo italiano, non è scossa menomamente dai problemi, nazionali, politici e sociali, che quasi sempre ignora, non partecipa insomma alla vita pubblica in alcun modo. Accorrono solo alle elezioni, perchè ve li attirano i biglietti di banca, che pagano loro il voto, quando si tratta di elezioni politiche, i fiaschi di vino quando si tratta di quelle amministrative...".

Un panorama desolante, a cui nessuno importava. Le cose poi peggiorarono ancora, per quella guerra. La I guerra mondiale portò lontano da casa giovani uomini che potevano essere la speranza di un
risorgimento della valle, rimasero solo donne, vecchi e bambini e quelli che tornarono, molti di loro tornarono con mostruose menomazioni e non più abili al lavoro... e non contenti e non appagati di quello che era successo i nostri governanti ventidue anni dopo si avvieranno in un'altra nuova ed ennesima guerra...


Bibliografia

  • Articolo di Augusto Torre pubblicato su "La Voce" ottobre 1914
  • "Corriere dell'Alta Garfagnana" articolo di Leandro Ulderico Telloli 1910
  • "Centenario prima guerra mondiale- Presidenza del Consiglio dei Ministri- Struttura di Missione per gli anniversari di interesse nazionale" 29 aprile 2014
  • Censimento 10 giugno 1911- Direzione Generale della Statistica

mercoledì 4 dicembre 2019

Quando il meteo era una cosa seria in Garfagnana... parole, detti e come si prevedeva il tempo senza avere la T.V

Questa pioggia ha veramente scocciato, non se ne può più... Bisogna
Isola Santa
anche dire la verità, non siamo mai contenti: quando troppo caldo, quando troppo freddo, quando troppa pioggia, quando poca neve...ma insomma su! Al giorno d'oggi il tempo brutto o il tempo bello influiscono sulla nostra vita in maniera importante ma allo stesso tempo marginale, ci possono mandare a gambe all'aria una gita con amici, non ci possono permettere di fare alcuni lavori domestici. Ma una volta non era così...una stagione più o meno bella metteva a repentaglio il sostentamento della famiglia. In società contadine come quella garfagnina, dal meteo dipendevano le colture, i raccolti e una stagione inclemente poteva compromettere veramente il benessere familiare, per di più, per evitare rovine e danni alle coltivazioni c'era una saggia cura del territorio, ci si preoccupava di ripulire il sottobosco, di sistemare i sentieri, di incanalare le acque piovane, di
Pratomaleta
ripristinare i muretti a secco caduti, insomma proprio il contrario di quello che succede oggi... Figurarsi che oggi sarebbe tutto più facile per quei contadini garfagnini del tempo che fu, con le previsioni meteo a lunga scadenza ci sarebbe modo di organizzarsi e di gestire meglio tutta la situazione... ma allora come facevano i nostri avi a prevedere il tempo? Ci si affidava a tecniche puramente empiriche, cioè fondate su esperienza diretta e pratica. Una tecnica fra le più comuni era affidarsi alle Calende, questa pratica variava da regione in regione. La Toscana contava le Calende in questo modo: i primi dodici giorni del mese di gennaio si dovevano appuntare su un foglio le condizioni atmosferiche, ogni giorno dei dodici rappresentava il mese dell'anno (il primo giorno gennaio, il secondo febbraio e così via)a secondo del tempo che aveva fatto nel

rispettivo giorno, avrebbe corrisposto al tempo che avrebbe fatto in quel mese (ad esempio:se nel terzo giorno di gennaio aveva piovuto, anche marzo sarebbe stato piovoso). Naturalmente questo metodo non ha nessuna base scientifica, eppure ancora oggi è usato da chi tramanda questo folclore, sostenendo poi che nella maggior parte dei casi si ha un riscontro positivo con la realtà. Non ci si affidava però solo alle Calende, ma ad altri metodi per così dire naturali, quello della lettura dei semi di cachi era uno dei più originali e adesso completamente in disuso. Questo sistema consentiva però di conoscere il meteo per una sola stagione:l'inverno, era infatti la stagione più pericolosa per gli equilibri della natura e un inverno più o meno mite avrebbe fatto da viatico per raccolti più o meno buoni. Fattostà che questa operazione con i semi di cachi era molto semplice, bisognava prendere un seme e dividerlo in due orizzontalmente e osservare la forma del suo virgulto, se era a cucchiaio sarebbe caduta molta neve mista a pioggia, a forma di forchetta la neve sarebbe stata poca e l'inverno mite, se a forma di coltello, l'inverno sarebbe stato pungente, con venti forti e
semi di cachi
gelidi. Esisteva un altro arcaico metodo che consisteva nel tagliare una cipolla in 12 spicchi, ogni spicchio andava salato e poi (nella notte fra il 24 e il 25 gennaio) andavano posti su un davanzale ad asciugare. Se il sale si fosse sciolto parzialmente il tempo sarebbe stato variabile, se completamente significava pioggia o neve e se il sale fosse rimasto intatto sarebbe stato bel tempo. L'operazione andava ripetuta tre volte.

Come abbiamo visto le condizioni meteo hanno influito molto e in tutti i sensi nella vita dei garfagnini, da sempre popolo dedito alle coltivazioni e all'allevamento, legato quindi a filo doppio con gli elementi della natura. Infatti il suo peso è stato talmente rilevante che molte parole del dialetto garfagnino sono legate proprio alle condizioni del tempo. Parole talvolta dall'etimologia
inspiegabile e misteriosa e per questo ancora più proprie e legate al territorio. Giornate come questa che vedo fuori dalla finestra sono giornate "torbate", e da stamani non fa altro che "sbruscinà"(per i non garfagnini la frase significa che: la giornata è nuvolosa e da stamani non fa altro che piovigginare). Ma quante volte dai nostri nonni abbiamo sentito la parola "balfoia": quando la neve è trasportata dal vento, o sennò quando il vento fa i mulinelli ed è un continuo turbinio di foglie secche, ebbene, in questo caso è il "baffardel", ancora a proposito di vento il "sinibbio" o il "sinibro" è quel vento pungente che entra nelle ossa, tipico dei mesi di gennaio e di febbraio. Tipica dei medesimi mesi è la brina, in garfagnino è detta "la pruina". Esiste poi tutta una serie di parole legate alla neve: come abbiamo già letto "balfoia" è una di quelle, la stessa neve in dialetto è detta "la gneva" e quando questa neve diventa poltiglia
si dice che è "paltroffia". La "cecajola" invece è il vento che porterà la neve, prima di trasformarsi in una vera e propria "buriana": una tempesta di neve. La maggior parte di questi termini legati al tempo è "spostata" sulla stagione invernale e in effetti parole legate alla bella stagione ce n'è poche: il vocabolo "asciuttore", indica proprio la siccità delle campagne e la "fagonza" è il caldo opprimente che toglie il respiro.

Non solo semplici parole garfagnine sono legate al meteo, ma anche dei veri e propri detti, figli di una saggezza popolare propriamente tipica della nostra valle, per ogni mese esisteva più di un proverbio. A Gennaio era tipico quello che diceva "Se Gennaio mette l'erba,te,villan, il fien asserba": se questo mese sarà clemente per il contadino sarebbe bene falciare subito l'erba e conservarla per i mesi successivi. "La pioggia di febbraio fa empì il granaio", "Luna Marzolina fa vinì l'insalatina". "Chi ha un ciocchetto nel fienile lo asserbi per marzo e aprile": Marzo ed Aprile in Garfagnana da un
Ponte di Campia con neve
punto di vista meteoroligico possono riservare ancora delle sorprese e se è avanzato qualche ciocco di legna sicuramente tornerà utile per quel periodo."Fra maggio e giugno nasce un fungio". "Quando piove al solleon, la castagna edè un guscion": quando piove troppo nell'estate, probabilmente la castagna che maturerà ad ottobre sarà povera di polpa. "La pioggia di settembre pogo acquista e nulla rende":la pioggia in questo mese niente da alle coltivazioni,anzi, rischia di danneggiare la maturazione dell'uva. 

Potrei continuare ancora per molto, con parole e proverbi garfagnini a conferma del ragguardevole significato che avevano le condizioni meteo su una cultura contadina come la nostra. La solita cultura contadina che sul tempo ci ha insegnato la regola principale: è la natura che comanda, che dispone e impone quello che vuole, noi siamo qua sotto e bene o male, niente ci possiamo fare...



Bibliografia:

  • "Dizionario garfagnino...l'ho sintuto dì" di Aldo Bertozzi edizioni L.I.R
  • "Essenze di saggezza popolare" di Aldo Berttozzi. Banca dell'identità e della memoria

giovedì 21 novembre 2019

Il dramma della steppa. Alpini garfagnini in Russia 1942-43.

"I russi erano dalla parte della ragione, e combattevano convinti di
difendere la loro terra, la loro casa, le loro famiglie. I tedeschi d'altra parte erano convinti di combattere per il grande Reich. Noi non si combatteva nè per Mussolini, nè per il Re, si cercava di salvare la nostra vita". Mario Rigoni Stern con questa frase inquadrò perfettamente lo spirito dei soldati italiani, quando in quel lontano 1942 furono inviati sul fronte russo in sostegno alle forze germaniche per l'occupazione dell'Unione Sovietica, in quella che l'alto comando del Reich definì con il nome di: "Operazione Barbarossa", d'altronde chi mal comincia... La logistica funzionò malissimo: indumenti inadatti, mezzi ed armi inefficienti fecero capire subito a Mario Rigoni Stern e ai soldati italiani (e anche a quelli garfagnini) che l'obiettivo principale sarebbe stato quello di ritornare a casa sani e salvi. Un numero mostruoso di esseri
umani non riuscirono però nell'intento, nella sua totalità si parla di un numero imprecisato di morti fra militari e civili nell'ordine di alcuni milioni. L'Italia ebbe un bilancio spaventoso e pagò un prezzo altissimo con la sua scellerata decisione di immischiarsi in quello che ancora oggi rimane il più grande scontro militare della storia. Trentamila soldati rimasero feriti, ottantamila furono uccisi, rimasero dispersi o furono presi prigionieri. Con il tempo l'Unione Sovietica restituì diecimila prigionieri italiani e di altri settantacinquemila non si seppe più niente. Fra tutti questi grandi numeri rimane però da analizzarne uno, il più piccolo, quasi insignificante di fronte a queste grosse ed incredibili cifre, ci furono quattrocento-cinquecento giovani che non fecero più ritorno a casa, erano gli alpini garfagnini. Può sembrare un inezia, ma questa perdita per una valle di trentamila persone fu una delle più grosse tragedie della sua storia.
Tutto cominciò quel maledetto 22 giugno 1941, quando i tedeschi, un po' a sorpresa oltrepassarono il confine russo. Con l'impiego delle grandi unità corazzate e dei micidiali Stukas travolsero tutto e tutti in modo da non dar respiro ai soldati russi. In poche
settimane i nazisti annientarono intere armate, avanzando per centinaia e centinaia di chilometri, la loro marcia era inesorabile e il successo sembrava sicuro. Di fronte a tutto questo Benito Mussolini non voleva rimanerne fuori e il 26 giugno arrivò la prima richiesta del duce a Hitler per intervenire al fianco dell'alleato germanico: "Sono pronto a contribuire con forze terrestri ed aeree e voi sapete quanto lo desideri. Vi prego di darmi una risposta in modo che mi sia possibile passare all'attività operativa", il Fuhrer era titubante: "Se tale è la vostra decisione, Duce, che io accolgo naturalmente con il cuore colmo di gratitudine, vi sarà abbastanza tempo per poterla realizzare, l'aiuto decisivo lo potrete dare col rafforzare le vostre forze nell'Africa settentrionale", ma Mussolini era più che mai deciso: "In una guerra che assume questo carattere, l'Italia non può rimanere assente". E così il 10 luglio 1941 partirono i primi soldati per la lontana Russia, si chiameranno C.S.R.I (corpo di spedizione italiano in Russia). La speranza era quella di un'operazione facile e rapida, nessuno badò all'inadeguatezza con cui furono mandati allo sbaraglio i nostri soldati; alcuni reparti
22 giugno 41 i tedeschi
 passano il confine russo
percorsero a piedi 1300 chilometri prima di raggiungere il fronte, non c'erano nè armi, nè mezzi, nè indumenti all'altezza dell evento. Il primo successo italiano si ebbe comunque nella battaglia di Kiev, sulla scia degli alleati tedeschi, ma con il tempo le difficoltà cominciarono a farsi avanti e peggiorarono con l'arrivo del più grande e temuto generale... "il generale inverno". I tedeschi cominciarono a rendersi conto di aver sottovalutato la potenza russa e il termometro sceso a -40 gradi fece il resto: dei sessantamila uomini del CSRI, quattromila rimasero congelati. A questo punto il comando tedesco che dapprima aveva guardato con sufficienza l'aiuto italiano, adesso chiedeva al duce l'invio di ulteriori uomini, il fronte da difendere era diventato estremamente vasto, urgevano rinforzi. Mussolini era comunque raggiante e ancora pieno di fiducia:"Al tavolo della pace peseranno più i duecentomila dell'A.R.M.I.R che i sessantamila del CSIR" . L'8 agosto 1942 Hitler scrive nuovamente al duce per avere le divisione alpine, partirono così le tre divisioni: Julia, Tridentina e Cuneense. Inizia così l'epopea in Russia degli alpini garfagnini.

Tutti questi reparti faranno parte dell' A.R.M.I.R (armata italiana in Russia) con il CSRI raggiungeranno l'impressionante numero di
L'ARMIR in marcia
duecentoventimila uomini. Con l'aumento della richiesta di alpini, il reclutamento di forze fu esteso non solo agli abitanti di coloro che vivevano a ridosso delle Alpi ma anche a coloro che vivevano nelle zone più idonee dell'Appennino, così i montanari abruzzesi del Gran Sasso e quelli delle Alpi Apuane furono immediatamente richiamati. La maggior parte dei garfagnini fu in gran parte arruolata nella divisione Cuneense e in particolare nel battaglione Dronero, per molti di loro era la prima volta che uscivano dalla cerchia delle loro montagne, al massimo potevano essere andati alla fiera di Santa Croce a Lucca; per molti di loro 
la chiamata alle armi sarebbe stata la prima esperienza di vita, si sentivano orgogliosi e fieri di questa nuova avventura. Remo De Lucia di Sillicagnana cambiò presto idea quando arrivò a Dronero con un metro di neve, era partito da casa con i vestiti peggiori e con un paio di scarpacce, tanto l'avrebbe rivestito l'esercito, la divisa gli fu però data dopo otto giorni, racconta poi che già in quella caserma c'erano un migliaio d'alpini male alloggiati, con servizi igenici insufficienti e quello che era peggio l'atmosfera era già cupa, niente a che vedere con l'entusiasmo di qualche mese prima. Naturalmente non sarebbe andato tutto liscio nemmeno nel trasferimento dall'Italia in Russia, Luigi Grilli di Pieve Fosciana
narra che il suo treno si ruppe, altri commilitoni proseguirono a piedi mentre lui ed altri alpini rimasero sul vagone che una volta riparato fu trascinato da treno in treno fino al quartier generale italiano, una volta giunti lì, la vista di un cimitero fece tornare in mente ai soldati e al Grilli le vecchie abitudini di casa, era il 31 ottobre, il giorno dopo in Garfagnana era tradizione andare al cimitero a pregare per i propri morti, qualcuno volle dire un rosario, qualcun'altro ancora esclamò :- Allora anche in Russia si muore!-. Si, purtroppo si moriva e la battaglia di Stalingrado sarebbe stata il trionfo della morte, oltre un milione di vittime e i tedeschi vollero le nostre truppe proprio li. I nazisti concentrarono su Staligrado le forze più potenti, lasciando la riva destra del Don sorvegliata da caposaldi distanziati fra di loro da larghi vuoti, nei quali si potevano infiltrare i Russi, c'era quindi l'urgenza di costituire un fronte
continuo ed era qui che fu impiegata l'ARMIR. Ma quegli uomini che non uccise l'Armata Rossa, le uccise l'inverno. Nei ricordi degli alpini garfagnini rimase indimenticabile quella stagione e se per molti l'inferno è paragonato al fuoco, alle fiamme e al caldo, per quelle persone aveva un colore solo: bianco. Il termometro precipitava a -30 come se niente fosse, nella notte era poi anche peggio quando si alzava il vento della steppa, il conducente di un mulo vide le sue dita congelate nonostante avesse i guanti di pelliccia, poichè reggeva la catena metallica dell'animale. Le parti del corpo umano che erano a  maggior rischio di congelamento erano la punta del naso e delle orecchie e l'estremità delle dita, l'alpino Bastiano Filippi di Pieve Fosciana uscì per fare pipì, ebbe la sventurata sorte di toccare con la pelle nuda della coscia una parete di metallo, vi rimase clamorosamente attaccato e fu liberato a stento dai compagni, riportò una bruttissima ferita. Ma la tragedia si completò con i
viveri, il cibo diventava un blocco di ghiaccio: patate, formaggio erano duri come pietre, il vino ghiacciava, bisognava spaccarlo con l'accetta. Arrivò poi quel 16 dicembre 1942; un po' tutti ormai sapevano che i russi si stavano riorganizzando ma mai nessuno avrebbe immaginato il livello di potenza numerica e qualitativa che avrebbero raggiunto, tutto era quindi pronto per una controffensiva senza precedenti, così i sovietici dettero avvio sul Don all'operazione denominata "Piccolo Saturno". I russi sfondarono sul fronte della Cosseria e della Ravenna, travolgendo poi le divisioni Pasubio, della Torino, della Sforzesca, della Celere. Sul Don resistette ancora, perchè non attaccato direttamente il corpo d'armata alpino, che ricevette poi l'ordine di ripiegare a inizio '43. Quel 16 dicembre '42, portò allo
smembramento totale dell'intero ARMIR che si dissolse in una tragica ritirata. A questo punto lo scopo per gli alpini garfagnini e per tutto il resto degli italiani era uno solo: tornare a casa vivi. L'esperienza di Bastiano Filippi è emblematica; si radunarono sedici o diciassette garfagnini, tutti ragazzi poco più che ventenni, si organizzarono e decisero che l'Italia era a ovest e di li cominciarono una lunga marcia, camminavano con i piedi fasciati per evitare il congelamento, oramai erano senza armi , e niente dovevano temere gli italiani dalla popolazione locale. In un isba (tipica costruzione di legno russa), racconta Remo, che furono accolti da due donne che gli offrirono due tazze di latte ed un intero pane nero, però furono folgorati da un pensiero che la propaganda fascista aveva inculcato ai soldati... e se i cibi fossero stati
avvelenati? Le due donne capirono e prima le assaggiarono loro, gli chiesero poi se parlavamo la loro lingua, volevano parlare di Verdi, di Michelangelo, dell'Italia...il soldato si mise a piangere. La grande ospitalità della popolazione russa salvò molte vite, testimonianze "garfagnine" raccontano ancora che una vecchia non avendo altro dette loro un cetriolo e dei semi di girasole, un'altra pregava la Madonna perchè potessero tornare a casa dai loro cari. Nelle retrovie intanto partivano treni per il centro Europa, alcuni garfagnini fecero in tempo a salirvi fu un lungo tragitto fino a Vienna. Luigi Grilli racconta ancora la sua disperata ritirata, l'esercito ormai era in rotta e lui non sapeva più quale direzione prendere, non rimaneva altro che seguire la fiumana di gente. I suoi ricordi vengono fuori a sprazzi, i giorni e le notti di lunghe marce nella steppa sono rifiutati dalla sua memoria. La sciarpa che gli aveva inviato la mamma era ormai un blocco di ghiaccio , attorno a lui si muoveva tutto, la fame e la stanchezza diventarono sempre più pesanti, ormai sfinito stava per sedersi sul ciglio della strada,
inerme senza forze, lo salvò un tenente che lo sgridò, lo maltrattò e infine gli regalò una scatoletta di carne e letteralmente lo spinse avanti, il male ai piedi era insopportabile e l'errore più grosso fu quello di togliersi gli scarponi, non si li rimise più. La fame intanto non passava  e quello che sognava era una bella tazza di latte caldo delle sue vacche  garfagnine, ma la salvezza ormai era vicina, arrivò un treno, quel treno portava a Varsavia. Ma c'era anche chi tornò a guerra finita, fu il caso (fra i tantissimi)di Giovanni Bertolini, aveva ventitre anni, mancò da casa per tre lunghi anni. Per tornare alla sua terra partì dalla Russia con il treno insieme ad altri reduci, il 2 novembre 1945 raggiunse la Polonia, ad attenderli c'era l'ambasciatore italiano, consigliò a loro di fermarsi qualche giorno per rifocillarsi e riposare, ma la voglia di tornare a casa era tanta,
 ripartirono così senza accettare l'invito. Altra sosta fu in Germania, qui vennero accolti dagli americani e da una delegazione italiana, finalmente ricominciarono anche a mangiare, la sosta durò quindici giorni. Arrivati poi al Brennero si cambiarono d'abiti, di li ci sarebbe stato un autocarro che li avrebbe portati fino a
I percorsi della ritirata
Bologna. A Bologna infine un' ennesimo treno passeggeri li avrebbe attesi, il treno però era stracolmo, la guerra era finita tutti volevano raggiungere qualcuno, addirittura c'era chi non voleva far salire questi garfagnini, ma quando ai passeggeri fu detto che erano reduci dalla Russia molti si alzarono in piedi facendo posto agli ex soldati. Finalmente si arrivò a Lucca, da li con mezzi di fortuna il nostro Giovanni s'inoltrò per la Garfagnana dilaniata e sventrata dalla guerra appena conclusa, poi l'ultimo tratto di strada a piedi, la mulattiera che porta a Livignano (Piazza al Serchio); improvvisamente cominciarono a suonare le campane a festa, chissà perchè suonavano, a Natale mancavano ancora cinque giorni. Qualcuno dalle case del paese l'aveva visto, le campane suonavano per lui. Era il 20 dicembre 1945.
 

Non ci fu comune della Garfagnana risparmiato da questa voluta tragedia. Gallicano come numero di deceduti fu la comunità che più di tutti fu colpita dal lutto di questa scellerata campagna, ma quello che conta non sono i più e i meno, quello che conta sono quei 437 uomini che non fecero mai più ritorno.



Bibliografia:
"Alpini di Garfagnana strage in Russia 1942-43" di Lorenzo Angelini. Banca dell'identità e della memoria. Unione dei Comuni della Garfagnana anno 2014