mercoledì 21 dicembre 2016

Garfagnana milionaria: quando la Dea bendata si fermò a Sassi

Giornali dell'epoca
(foto tratta da "La Pania" n 111)
Era proprio durante questo periodo di festività natalizie che le speranze di una vita fantastica, fra agi, lussi e benessere si rinvigoriva in tutti gli italiani. Era il periodo in cui tutti (o quasi) acquistavano almeno un biglietto della lotteria Italia che veniva estratto puntualmente il giorno della befana nella trasmissione di punta della R.A.I del sabato sera. Tutti lì, davanti al televisore, nella trepidante attesa che venissero estratti i nostri numeri incantati, come al solito la speranza veniva delusa ma rimaneva un briciolo di fiducia per il giorno dopo, quando sul giornale venivano pubblicati i numeri di serie vincitori dei cosiddetti "premi minori", chissà, magari la macchina nuova ci scappava e forse ci scappava pure la cucina tanto desiderata dalla moglie. Ora ci hanno tolto anche questa magia...e il nostro Paese è stato aggredito dai giochi moderni, dove tutto è all'insegna della velocità e dell'immediatezza: gratta e vinci di ogni tipo e foggia, superenalotto e scommesse sportive la fanno da padrona e hanno dato il "de profundis" a tutte quelle lotterie nazionali che cadenzavano il tempo e le speranze di esistenze migliori. Pensate che negli anni d'oro delle lotterie, la lotteria Italia arrivò a staccare nel 1988 ben 37 milioni e mezzo di biglietti, oggi grazie agli ultimi "nostalgici" fra tutte è l'unica sopravvissuta e non arriva nemmeno ad otto milioni di tagliandi venduti. Addio quindi all'estrazione legata alla Regata di Venezia, alla "nostrale" lotteria del Carnevale di Viareggio e alla storica lotteria del Gran Premio di Merano.
A proposito di Merano, la lotteria di questa ridente cittadina trentina rimarrà per sempre nella memoria di tutti i garfagnini. La Garfagnana è stata sempre terra di gente con pochi fronzoli nella testa, gente contadina che contava sulle proprie braccia e sulle proprie forze per emergere da una vita grama, ma quel giorno in quel
Il biglietto della lotteria
di Merano del settembre 1964
lontano settembre 1964 la Dea bendata si fermò a Sassi, nel comune di Molazzana.

Prima di raccontare queste incredibili vicende degne della miglior commedia all'italiana conosciamo un po' più da vicino la storia di questa lotteria, per capire di conseguenza la portata di quello che successe più di cinquant'anni fa in questo piccolo paese garfagnino che oggi non conta nemmeno duecento anime. 
La lotteria del Gran Premio ippico di Merano fu istituita in piena era fascista da un quasi capriccio del gerarca fascista Achille Starace, segretario nazionale del partito. Starace infatti vantava di essere un provetto cavallerizzo e un buon intenditore di cavalli e invidiava moltissimo il colonnello Pollio che a capo della S.I.C
Benito Mussolini e Achille Starace
(società incremento corse) organizzava a destra e a manca corse ad ostacoli. Capitò così l'occasione che la società che gestiva l'ippodromo di Maia a Merano (in provincia di Bolzano) fallisse, lasciando di fatto terra fertile all'ambizioso gerarca che convinse Mussolini a far "resuscitare" il tutto, portando motivazioni che allo stesso duce fecero gola. In questa maniera e a questo evento fu così associata una lotteria nazionale che con i proventi dei biglietti venduti si potevano accumulare denari per la realizzazione del futuristico quartiere EUR di Roma e perdipiù si poteva investire negli anni futuri anche in altri grandiosi progetti che Mussolini aveva in mente per "la città eterna". Fu così che il 30 agosto 1935 in pompa magna venne inaugurato il redivivo ippodromo alla presenza del duce in persona e al fautore di questo progetto Achille Starace (che nel frattempo era diventato presidente della S.I.C...). Il 20 ottobre del solito anno, di fronte ad un pubblico enorme convogliato a Merano con treni speciali (mentre gli altri ippodromi d'Italia quella domenica erano chiusi) si svolse il primo Gran Premio e la prima estrazione della lotteria, che prima dell'avvento della famosa
Una vecchia foto dell'ippodromo di Merano
lotteria Italia vantava la maggior dotazione: il suo primo premio nel 1935 ammontava nientepopodimeno che a un milione di lire.

Arriviamo così dopo questo necessario preambolo a Sassi, dove tutto cominciò il 28 settembre 1964. Un lunedì all'apparenza come gli altri, il giorno prima c'era stata la seconda giornata di campionato di serie A, si parlava che di li a pochi giorni si sarebbe inaugurata l'autostrada del Sole ed inoltre in quella domenica appena trascorsa si era corso il Gran Premio ippico di Merano e di conseguenza si era tenuta anche l'estrazione della seconda lotteria nazionale più importante, evento questo che cambiò letteralmente i destini di questo paese. La lieta notizia arrivò con il "postale" del mattino(n.d.r: l'autobus di linea che oltre ai passeggeri portava la posta e i giornali) che recava con se i quotidiani da vendere. All'apertura del giornale gli abitanti trasecolarono, il biglietto con il primo premio era stato venduto in paese, "L'Unità" del tempo così citava:"il biglietto vincitore del primo premio del Gran Premio di Merano potrebbe appartenere ad uno dei cento abitanti dl Sassi, frazione di Nolazzana, nell'alta
L'Articolo de "L'Unità", in rosso
il pezzo in questione
Garfagnana, in tale località, infatti, è stato venduto il tagliando vincente. Non è stato ancora possibile, tuttavia, aver'una conferma: Sassi non ha telefono e non è collegata da alcuna strada carrozzabile"
. I
 150 milioni di lire di premio erano clamorosamente arrivati in questa frazione del comune di "Nolazzana" (come menzionava erroneamente "L'Unità"), in tasca a qualche fortunato locale. Tanto per rendersi conto della vincita è bene fare subito una comparazione, che secondo un programma di attualizzazione monetaria il montepremi incassato nel 1964 corrisponderebbe ad oggi a un milione e seicentomila euro, figuratevi allora lo stupore e la curiosità che si insinuò nel paese per scoprire il vincitore. In men che non si dica il bar Pucci che all'epoca faceva da posto pubblico ed era anche l'unico telefono presente in paese, fu aggredito dalle telefonate dei giornalisti di tutta Italia, la signora Giulia che gestiva il
Sassi inizio '900
(foto Banca Identità e Memoria)
bar ormai era esasperata dalle chiamate che giungevano da ogni dove e all'ennesima domanda di chi fosse il vincitore si lasciò andare nella stizzita affermazione che il fortunato era "il pievan di Gallicano", ma tale espressione era un modo di dire, che nel parlare locale alludeva ad una persona conosciuta ma senza un riferimento specifico, purtroppo la Giulia non aveva fatto conto che questa frase era prettamente garfagnina se non addirittura strettamente circoscritta al posto, cosa che naturalmente non sapevano i giornalisti giunti da tutta Italia che prendendo alla lettera queste parole andarono di corsa all'attacco del pievano di Gallicano Don Lino Togneri per intervistarlo, il parroco andò su tutte le furie oltre a non aver vinto un bel niente dovette dare giustificazione ai parrocchiani e al vescovo che chiedevano lumi, minacciò addirittura di querela la povera Giulia, ma compresa la buona fede della donna rinunciò al proposito, in tal modo il mistero continuava ancora. La questione si faceva più ingarbugliata e 
fra depistaggi e tentativi di speculazione i fatti assumevano i contorni di una spy story, ci fu chi contattò i giornalisti pronto a rivelare il nome del vincitore in cambio del pagamento di centomila lire. L'attenzione al contempo si spostò allora sull'ufficio postale e sulla persona del Pè della Posta(n.d.r:al secolo Giuseppe Pieroni titolare dell'ufficio postale all'epoca, fra l'altro amico e collega del mio babbo), posto in cui si era venduto il tagliando vincente SERIE I NUMERO 73991, abbinato al cavallo Luopinot. Sotto interrogatorio il Pè della posta rivelò di aver avuto dall'amministrazione P.T un blocchetto di soli cinque biglietti, rammentando di averli venduti all'Ugo, al
Giornali dell'epoca
(foto tratta da "La Pania" n 111)
Pierluigi e all'Ottavio(n.d.r:abitanti di Sassi), il quarto lo aveva comprato egli stesso e il quinto proprio non se lo ricordava a chi lo aveva ceduto, dato che era stato venduto mesi addietro. Intanto in paese circolava insistente una voce che voleva in Ermete Rossi il fortunello di turno. Ermete Rossi, era un ragazzotto del paese, emigrato da qualche tempo in Svizzera. I giornalisti in quell'occasione sciamarono da lui e dai suoi familiari, ormai da tutti era indicato come il vincitore della lotteria. Arrivò perfino la televisione a intervistare gli abitanti per sapere secondo loro chi fosse il misterioso sorteggiato e tutti indicavano sempre e solo l'Ermete. Le circostanze e i fatti confermarono la notizia e gli eventi dimostrarono sopratutto il buon senso del ragazzo che colpito da cotanta ricchezza non si lasciò trasportare da una pericolosa euforia che porta spesso altri vincitori nel giro di pochi anni a scialacquarsi tutto il patrimonio, anzi, non si lasciò andare a spese azzardate o a folli imprese economiche ma si affidò ai saggi consigli di Don Natale, tornando di fatto in Svizzera a lavorare con meno assili e una diversa tranquillità, naturalmente non si dimenticò della famiglia e nemmeno delle buone indicazioni ricevute da Don Natale a cui regalò per riconoscenza una fiammante FIAT 850. Nemmeno oggi Ermete ha
(foto tratta da "La Pania"n 111)
perso la buona abitudine di venire a visitare tutti gli anni i suoi cari. Per i paesani non rimase altro che quel quarto d'ora di notorietà a cui spesso si riferiva il profeta della pop art Andy Warhol, ai giornalisti della carta stampata e della televisione riferirono di non essere diventati milionari...per onestà e correttezza, rifacendosi al fatto che il Pè della Posta aveva loro offerto di acquistare i biglietti della lotteria a credito, ma siccome non era per loro buona creanza comprare a credito, lo avevano pregato di dar loro tempo per andare a prendere i soldi a casa per il sospirato tagliando, che nel frattempo era stato acquistato da Ermete. Peccato poi che l'ultimo biglietto disponibile fu comprato dallo stesso Pè della Posta, per evitare una brutta figura con l'amministrazione P.T di dover riconsegnare un blocchetto non completamente venduto, significato questo che da parte dei paesani non c'era proprio questa corsa al biglietto.

Così si concluse questa storia, in breve tempo tornò tutto alla
Sassi oggi
normalità in paese, ognuno riprese le sue abitudini e i suoi lavori, in fondo tutti felici e contenti, perchè la fortuna in qualche modo si era ricordata di questo piccolo paese ai piedi delle Apuane che in tempo di guerra era stato devastato dalle bombe,in molti videro in questi accadimenti il destino che finalmente aveva saldato i suoi debiti.




Bibliografia:

  • "Sassi milionaria" di Aldo Bertozzi da "La Pania" n°111 settembre 2016
  • Daniele Saisi blog "Attualizzatore excell, traduttore valori monetari"
  • "A Lucca i 150 milioni della lotteria" su "L'Unità"  28 settembre 1964
  • Archivio storico lotterie nazionali

mercoledì 14 dicembre 2016

L'Organizzazione TODT in Garfagnana e nella Valle del Serchio

Fritz Todt era un uomo qualunque, un signore serio, schivo, nato nel 1891 a Pforzheim, città confinante con la famosa Foresta Nera, era figlio di una Germania borghese e benestante, quella stessa Germania che poi alcuni anni dopo si butterà a capofitto in due scellerate guerre mondiali che porteranno alla fame un intero popolo. Il padre di Fritz era proprietario di alcune industrie e lui non potè far altro che intraprendere gli studi di ingegneria civile che interruppe per partecipare alla prima guerra mondiale come ufficiale nell'aeronautica militare nel fronte occidentale. Finita quella maledetta guerra finalmente riprese gli studi che concluse brillantemente laureandosi nel 1920 a Karlsruhe. Nel 1921 entrò a lavorare come ingegnere nell'impresa di costruzioni Sager & Woerner per la realizzazione di gasdotti e strade.
Una storia questa uguale ad altre mille, una storia comune, insignificante, di un uomo medio, che però indirettamente legherà il suo nome ai destini di molti garfagnini(e non solo).
Tutto cambiò a metà degli anni '30 del 1900, quando conobbe il cancelliere del Reich germanico Adolf Hitler a cui fece subito un eccellente impressione, tant'è che fu messo a capo di un ufficio tutto nuovo per l'attuazione della grande rete autostradale tedesca che grazie all'imponente mole di lavoro si riprometteva di assorbire una parte della disoccupazione germanica. Ma non solo, allo scoppio
"Un uomo qualunque":Fritz Todt con la moglie
della seconda guerra mondiale Todt divenne progressivamente responsabile dell'attuazione logistica e infrastrutturale dello sforzo bellico del Reich: la rete stradale dei territori occupati, le linee ferroviarie, i rifugi di sottomarini e inoltre si doveva occupare di erigere fortificazioni, bunker e rifugi a protezione ed in difesa dei nuovi territori occupati: la linea Sigfrido, il Vallo Atlantico e la famosa Linea Gotica, da tutto questo nacque la famigerata "Organizzazione TODT", meglio conosciuta con l'acronimo di O.T.

L'organizzazione TODT sarà una struttura paramilitare che all'inizio riunirà operai di più di mille imprese di costruzioni private. La quantità di manodopera impiegata fu enorme, dagli iniziali 35.000 lavoratori in poco tempo si passerà a ben 340.000. La prima grande opera di questa organizzazione fu la realizzazione di una serie di fortificazioni lungo il confine francese per oltre 500 chilometri, in soli diciassette mesi questi uomini riuscirono a costruire il Westwall (n.d.r.: il muro dell'ovest), più comunemente conosciuto ai più come linea Sigfrido. Per questa costruzione verranno impiegate più di sei milioni di tonnellate di calcestruzzo, pari a più della metà della produzione annua di cemento della Germania. I giornali
Todt con Hitler mentre gli illustra la
costruzione di un ponte
esaltarono quest'opera, la propaganda celebrò l'avvenimento come un trionfo della TODT. L'onore della O.T crebbe ancor di più quando ebbe il privilegio assoluto di edificare in Assia il celeberrimo "Nido dell'Aquila" quartier generale di Hitler. La popolarità di Fritz Todt era alle stelle. Il 17 marzo 1940 fu nominato ministro degli armamenti, ispettore generale per le strade, ispettore per le acque e l'energia elettrica e plenipotenziario dei lavori edili e per non farsi mancare niente gli fu conferito il grado di Maggiore Generale della Lufwaffe. Nel frattempo la TODT era sempre più impegnata su tutti i fronti di guerra. Arrivò così nella nostra valle nel settembre 1943 per completare gli ultimi tratti della Linea Gotica, ultimo e fondamentale avamposto difensivo che gli alleati dovevano affrontare prima di giungere nella Pianura Padana(sulla storia della Linea Gotica. In quegli anni la TODT toccò il suo apice in quanto a manovalanza, ormai erano qui impiegati oltre un milione e mezzo di lavoratori, una cifra spaventosa, però raggiunta "grazie" al lavoro coatto. Molti garfagnini furono costretti a lavorare forzatamente, rastrellati nelle case e portati a dare di picco e mazza sui nostri monti per ore e ore a scavare trincee nella roccia, tale sorte toccò anche ai prigionieri di guerra e a chi l'8 settembre aveva abbandonato l'esercito e in maniera volontaria si presentava ai lavori,
"Il nido dell'Aquila" oggi, costruito dagli
uomini della TODT
altrimenti sarebbe stato deportato nei campi di concentramento del nord Europa. Intanto nel 1942 "l'uomo qualunque" Fritz Todt morì in un misterioso incidente aereo, il comando dell'organizzazione passò sotto la guida de "l'archietetto del Reich" Albert Speer, che come il suo predecessore non si risparmiò nell'impiego di uomini e mezzi. Oltre ad un numero spropositato di operai, l'organizzazione potè contare su un parco smisurato di autocarri e macchine speciali, riversati questi anche in buona parte nella Valle del Serchio, punto nevralgico del fronte. Già nel 1938 il Genio Militare Italiano ordinò la costruzione di fortificazioni nelle coste versiliesi e nelle montagne garfagnine, i lavori non furono completati ma vennero ripresi proprio dagli ingegneri della TODT che avevano a capo l'ingegnere Hosenfled, il quale collocò le sue sedi a Borgo a Mozzano: la sede tecnica a Palazzo Giorgi e la sede amministrativa a Palazzo Santini. In soli dieci mesi si riuscì a creare tutte le difese che partivano dal Piaggione, toccavano Domazzano e 
arrivavano fino a Borgo a Mozzano, era un intersecarsi di camminamenti, muri anticarro, postazioni armate, gallerie, campi minati e chilometri e chilometri di filo spinato, ma l'errore commesso fu però clamoroso, un vero e proprio smacco morale per gli infallibili ingegneri TODT e in effetti fu così e non si considerò che costruendo posizioni difensive in quel tratto di valle si rendeva possibile un eventuale incursione americana attraverso la Val di Lima (raggiungibile da Pistoia), rischiando in questo modo di essere presi clamorosamente alle spalle (per la storia della Linea Gotica "garfagnina" leggi: http://paolomarzi.blogspot.it//conosciamo-lalinea-gotica.html). Kesserling, capo supremo delle forze tedesche in Italia ordinò di far indietreggiare il
Palazzo Giorgi a Borgo a Mozzano
sede della TODT (Foto bargarchivio)
fronte di ben 20 chilometri, attestando gli avamposti nelle zone di Molazzana, Gallicano, Ponte di Campia, in questo arretramento furono distrutti, ponti, strade e gallerie. Così anche in quella zona furono impiegati nei lavori forzati altri garfagnini, che furono questa volta facilitati nei lavori dalla morfologia delle montagne, la linea fu modellata seguendo le postazioni vantaggiose che offriva la natura. Si calcola che in tutti questi bunker e gallerie costruite nella Valle del Serchio vi abbiano lavorato al servizio della TODT più di tremila abitanti delle zone circostanti, per dodici mesi circa. Lavori forzati, duri, interminabili, senza essere minimamente pagati se non con una inqualificabile brodaglia, perdipiù tutti i lavoratori catturati durante i rastrellamenti, una volta finito il turno di lavoro venivano trattenuti nel campo di concentramento di Anchiano (n.d.r:piccola frazione di Borgo a Mozzano), ideato proprio a questo scopo. Don Alberto Santucci scrive: "Avendo fatto i tedeschi un campo di
Coprifuoco a Borgo a Mozzano,
pena la fucilazione (foto Paolo Marzi)
concentramento alla Socciglia,nei pressi di Anchiano, il Proposto si recava ogni giorno la, a visitare e a confortare i concentrati e spesso otteneva dal comandante tedesco la liberazione di alcuni di essi"
. Nella messa della domenica si riusciva pure a portare qualche indumento contro il freddo pungente e perfino qualcosa da mangiare a questa povera gente. Accadde però un episodio drammatico, l'11 agosto 1944. Otto uomini del campo di Anchiano vennero portati a lavorare a Forte dei Marmi, quando nei pressi di una località versiliese assistono alla fucilazione da parte dei tedeschi di 31 rastrellati, per eliminare testimoni scomodi vennero fucilati anche loro, si salverà solo uno. Rimarrà invece eroica l'impresa del geometra Silvano Minucci di Borgo a Mozzano, 
che si arruolò volontario nella TODT per non finire negli spietati campi di concentramento. Con la sua professione infatti aveva contatto più con le carte che con la terra e riuscì in questo modo ad intercettare e ricopiare in tre copie un accurato rilevamento topografico delle opere di difesa, delle aree minate e in pratica di tutte le postazioni tedesche. La preziosa mappa fu in seguito recapitata a Lucca al comando militare alleato della V armata con l'aiuto di Annamaria Cheli e di altre staffette che portavano nascosti dentro la canna della bicicletta i preziosi documenti. Ma
Ricostruzione della mappa di Silvano
Minucci (Archivio Isrec Lucca)
di prezioso non c'erano solamente queste mappe, altra preda ambita 
dai partigiani locali erano i magazzini TODT, difatti questi magazzini erano ricchi di ogni ben di Dio, dalle cibarie, agli attrezzi da lavoro e perfino armi e questo è quello che a proposito successe a Franco Bravi che in quel 1944 aveva appena diciassette anni e che già aveva lavorato nella TODT sia all'Isola Santa (comune di Careggine) che a Borgo a Mozzano e proprio in quei giorni era fuggito dal campo di concentramento di Anchiano per paura della deportazione in Germania, unendosi di fatto ad una piccola formazione di partigiani: 

”Il mattino dopo decisi di partire: Presi quattro o cinque fette di polenta di neccio e seguii la strada che mi aveva indicato (un conoscente di nome Amedeo Dini), e cioè: la Formica, via Nova, la Gatta. Quando arrivai era quasi mezzogiorno e fino ad allora non avevo visto nessuno. Mi sedetti sopra un sasso per riposarmi, perché ero assai stanco e mi misi a mangiare la polenta. Dopo pochi minuti sentii dei passi, mi girai e vidi un uomo con un fucile in mano che mi disse: -Cosa ci fai da queste parti?-. Allora io risposi: -Mi
Tunnel nella montagna,
linea gotica Borgo a Mozzano
(foto Paolo Marzi)
manda il Volpe- e allora lui mi domandò come mai il Volpe mi mandasse da loro. Gli raccontai la storia e mi disse di andare con lui. Dopo circa cento o duecento metri c’era una capanna coperta a piastre e una coperta a paglia, e dentro c’erano una decina di uomini. Mi presentò a uno che disse di essere il capo. Mi chiese il nome e quanti anni avevo. Gli dissi che mi chiamavo Bravi Franco e avevo diciassette anni e mezzo. Volle sapere dove avevo lavorato con i tedeschi e gli raccontai che prima lavoravo a Isola Santa, poi mi trasferirono a Borgo a Mozzano da dove ero scappato. Mi disse che per il momento non aveva armi da darmi, ma che nel giro di qualche giorno sperava di poterle avere, infatti dopo due giorni mi chiamò e mi consegnò un moschetto che disse di aver avuto dai carabinieri di Vagli. Mi insegnò come si caricava e mi disse di conservare bene le cartucce perché erano preziose perché poche.
 Verso sera mi chiamò di nuovo e mi domandò, sapendo che avevo lavorato a Isola Santa, se sapevo di preciso dove era il magazzino viveri della TODT e se era in un posto dove fosse facile attaccarlo per procurarsi dei viveri e se mi sentivo il coraggio di farlo. Gli dissi di sì e così il giorno dopo, verso le tre, si partì in sette compreso il capo che disse di chiamarsi “Lupo” (naturalmente come nome di battaglia). Gli altri rimasero lì a fare la guardia. Si arrivò sopra Isola Santa passando dal passo di Scala
Tunnel nella montagna,
linea gotica Borgo a Mozzano
(foto Paolo Marzi)
e da lì con il binocolo si osservavano gli operai che finivano il turno di lavoro. Appena venne buio si scese in paese, ma ci fermammo dietro un muro, perché si sentivano dei passi. Si vide un uomo che io riconobbi subito: era uno che lavorava con me prima che andassi a lavorare a Borgo a Mozzano. Lo chiamai per nome, si chiamava Bertoni, si fermò ed ebbe un po’ di paura vedendoci tutti armati. Gli dissi le nostre intenzioni e se sapeva quanti tedeschi c’erano. Mi rispose che erano solo due, i soliti che passavano tutti i giorni a controllare gli operai sul lavoro.

-Allora sono anziani- gli dissi -e uno parla abbastanza bene l’italiano-.
-Si, è proprio lui- mi rispose -ho saputo che è austriaco, non sparate perché ce ne sono altri alle baracche del cantiere. Speriamo che non se la prendano con noi paesani-
Ci si avvicinò al magazzino e si rimase alcuni minuti ad osservare cosa facevano. Finalmente uno venne fuori e accese una sigaretta. Allora il capo ed altri due partigiani, che erano i più vicini, gli intimarono di alzare le mani, lui le alzò subito e l’altro, nel sentire le voci, venne sulla porta e nel vedere tutti gli uomini armati, le alzò subito anche lui.
Bracciale per lavoratore TODT
(Foto Paolo Marzi)
Si entrò dentro, ma di viveri c’era poca roba. Si presero subito i fucili e una decina di pani e un centinaio di scatolette di carne. Quello che parlava italiano si raccomandò di non prendere le armi, altrimenti li avrebbero fucilati. Però noi per essere più sicuri, si presero i fucili e uno di loro, quello che parlava italiano, lo portammo fin sopra il paese. Gli rendemmo i fucili dopo aver tolto le cartucce e gli si disse di aspettare una mezz'oretta prima di tornare al magazzino.
Si seppe poi che il giorno dopo i tedeschi presero in ostaggio alcuni uomini del paese, ma visto che erano tutti uomini che lavoravano con loro e che non c’era stata violenza da parte dei partigiani, furono rilasciati lo stesso giorno “.

Negli ultimi anni di guerra quando la sorte della Germania nazista
Tessera per lavoratore
TODT
era ormai segnata, molti gruppi della TODT furono richiamati a rafforzare le divisioni decimate da anni di combattimento. Ma il loro intervento, mentre tutto il mondo nazista stava crollando non servì in alcun modo a ritardare la fine del Terzo Reich.





Bibliografia:


  • "L'organizzazione TODT e le sue attività in Italia durante la seconda guerra mondiale" di Carlo Alfredo Clerici  "Uniformi e Armi"1995
  • "Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo guerra e resistenza" di Feliciano Bechelli, Pezzini Editore 2016
  • "Racconti di guerra vissuta" di Tommaso Teora, Banca dell'identità e della memoria 2014

mercoledì 7 dicembre 2016

La macchina da scrivere, un'invenzione a due mani fra un garfagnino e un lunigianese

Possiamo dirlo senza ombra di dubbio che in fondo il p.c da cui
Una lettera di Carolina battuta
con la macchina da
scrivere di Fantoni Turri
scriviamo non è che l'evoluzione naturale della macchina da scrivere e quindi l'antenata dei moderni computer. Perchè questo pensiero? Proprio nei giorni passati un amico conoscendo la mia passione per la storia mi domandò se sapevo niente a proposito dell'invenzione della macchina da scrivere, poichè aveva un confuso e lontano ricordo che tale invenzione fosse opera di un garfagnino. Ad onor del vero presi le sue parole con un po' di sufficienza e scetticismo, dicendogli che niente conoscevo al riguardo ma che comunque mi sarei documentato. Giorni dopo mi ritornarono alla mente le sue parole e per pura curiosità cominciai a ricercare qualcosa sull'argomento e in effetti come si suol dire mi "si aprì un mondo" ed ebbi clamorosamente in parte conferma delle sue parole. Tale storia ha scombinato quello che davo per certo, cioè che la macchina da scrivere in Italia fu brevettata da Giuseppe Ravizza nel 1855, questo apparecchio era denominato "cembalo scrivano", così chiamato perchè dotato di tastiera simile a quella di un clavicembalo. L'avvocato Ravizza nel corso degli anni creò ben 17 modelli, purtroppo però non riuscì mai a trovare uno sponsor che ne sostenesse una produzione industriale, ciò non accadde all'americano
La macchina da scrivere di Ravizza 
Cristopher Latham Shoeles che presentò la sua trovata nientedimeno che alla fabbrica d'armi Remington. I fratelli Remington non erano convinti dell'invenzione ma stipularono comunque un contratto con Sholes, che per dodicimila dollari cedette tutti i suoi diritti. La macchina da scrivere nel 1876 cominciò così la sua produzione industriale e la sua diffusione in scala mondiale. Questo era tutto quello che sapevo su questa scoperta, e non immaginavo certo che la Garfagnana entrasse a buon titolo in questa invenzione. Ma bando ai preamboli andiamo subito al nocciolo della questione e raccontiamo questa storia che si sviluppa e trova nuove documentazioni nel corso degli anni. La vicenda nasce dai più nobili sentimenti, quali l'amore e la pietà umana. Siamo agli inizi del 1800 e il protagonista di questi fatti è anche Pellegrino Turri da Castelnuovo Garfagnana. Il Turri nacque nel capoluogo garfagnino da una famiglia nobile nel 1765, da giovanotto si trasferì a Reggio Emilia dove faceva parte delle Guardie Nobili del Duca di Modena con il grado di brigadiere, lì conobbe il conte Agostino Fantoni di Fivizzano, diventarono grandi amici, tanto che Pellegrino diventò uno di casa. In questa casa di Reggio Emilia Pellegrino Turri fece conoscenza anche con la sorella del conte, la contessina Carolina, tra i due nacque dapprima un'affettuosa amicizia che a quanto pare si trasformò ben presto in amore. Questa relazione non partì sotto una buona stella, le cose non cominciarono bene dal punto di vista
Pellegrino Turri
della salute, tant'è che la vista della contessina andava via via sempre peggiorando a causa di una brutta malattia che la portò in giovane età alla completa cecità. L'innamorato si impietosì di fronte all'infermità e nel 1802 decise di mettere in pratica
 la sua eccentricità, il suo ingegno e sopratutto i suoi studi meccanici per rendere più facile e autonoma la vita alla contessa cieca, creando un macchinario che permettesse alla ragazza di scrivere senza ricorrere all'aiuto di intermediari e che sopratutto in quel modo potesse proseguire la corrispondenza privata con l'amato garfagnino, facendo si, che la relazione potesse continuare. Questa per anni è stata la versione e la convinzione originaria, cioè che la paternità della macchina da scrivere fosse da attribuire al Turri, e in parte è vero ed è confermato, ma studi recentissimi (2010) ridisegnano nuovamente questa storia. Il ricercatore fivizzanese Rino Barbieri spulciando l'Archivio Fantoni conservato a sua volta nell'Archivio di Stato di Massa ha trovato documenti inconfutabili che assegnano l'invenzione primaria non a Pellegrino Turri, ma all'amico Conte Agostino Fantoni, fratello della contessina cieca. A testimonianza di quanto detto ci sono anche alcune lettere battute con la macchina da scrivere in questione che dissipano ogni dubbio e che sono consultabili presso l' Archivio Storico di Reggio Emilia. Questi a seguire sono poi gli stralci di lettere datate 1802 (quindi prima di Ravizza e di Sholes) che non lasciano alcun se o alcun ma in sospeso sulla questione della paternità dell'invenzione. La lettera è inviata dallo stesso Agostino Fantoni allo zio Giovanni. "Ti do avviso che ho inventato uno strumento onde l'Anna (n.d.r: nome completo della contessina Anna Carolina Fantoni)possa scrivere liberamente, se in questa settimana verrà il legnaiolo per la posta ventura ti scriverà di proprio pugno, mi struggo di vedere come riuscirà in pratica la mia idea, ma mi lusingo da alcuni tentativi fatti che riuscirà perfettamente" e in un'altra successiva lettera sempre scritta allo zio si dice ancora: "l'istrumento per scrivere a occhi chiusi non lo potuto far ancora eseguire da un maestro che
lettera battuta da Carolina con la
 macchina Fantoni Turri
finora ho atteso invano e questo non è lavoro da effettuarsi senza l'assistenza di chi lo ha ideato, un informe abbozzo da me fatto ti produsse quelle due righe dell'Anna...in questi ultimi giorni ho trovato il modo per fare il gambo alle lettere T.D.B.Q che finora non avevo potuto trovare".
Questa invece è una lettera che scrive la contessina per interposta persona allo zio ed a un certo punto dice:"...spero di scrivervi due versi con il metodo di Agostino..." e ancora una testimonianza scritta da Glauco Masi editore di Livorno dove si sottolinea che il conte Agostino è molto preso nelle sue cose in quei giorni tanto che:"Agostino è un gran pezzo che non mi scrive ne so il perchè, ho piacere che abbia trovato la maniera per far scrivere l'Annina, così potesse trovar quelle di guarirla dai suoi incomodi, povera ragazza!" ed infine una nuova missiva di un amico di Agostino, tale Baldassar Vetri (ingegnere e matematico in quel di Pisa) che scrive sempre allo zio Giovanni: "...l'ingegnosissima invenzione del tanto caro al mio cuore Agostino..." e ancora:"...egli si è reso caro e memorabile all'umanità...".

Il marchingegno fu poi messo in pratica e non immaginiamoci certo una moderna macchina da scrivere ma piuttosto pensiamo ad un qualcosa di primitivo e al tempo stesso efficiente con un telaio certamente in legno (o forse in metallo), rimane il fatto che la contessina Carolina definì questa strana macchina "la tavoletta" o con il più ricercato appellativo di "la preziosa stamperia". Probabilmente dentro questa piccola struttura in legno si potevano far scorrere dei quadratini anch'essi di legno che portavano in incisione traforata le diverse lettere dell'alfabeto riconoscibili al tatto. La scrittura avveniva mediante un'asticella che seguiva la fessura delle lettere allineate nel binario a formare le parole, inoltre si può notare nelle missive rimaste ai posteri che i caratteri sono privi di apostrofi e punteggiatura varia e le lettere impresse sono tutte maiuscole.
Ma dopo tutto questo vi domanderete voi, Pellegrino Turri da Castelnuovo Garfagnana, allora che cosa c'entra? Eccome se c'entra! Come abbiamo letto non fu l'originario inventore di tale prodigio ma perfezionò l'invenzione dell'amico in maniera molto significativa e profonda, inventando di fatto quella che diventò negli anni a venire la celeberrima carta carbone. Di questa invenzione il Turri ne può assumere pienamente la paternità. Già nel 1802 la "carta nera" così come era chiamata, fornì efficacemente alla "preziosa stamperia"
Il brevetto della carta carbone
di Wedgwood,
invenzione "rubata" a turri
l'inchiostro,in modo che si potessero leggere nitidamente tutte le lettere che in origine erano semplicemente traforate. La funzione della "carta nera" era praticamente quella che tutti oggi ancora conosciamo e consisteva in una carta rivestita da uno strato di inchiostro asciutto, di solito unito a della cera. Anche qui però qualcuno fu più furbo e lesto del nostro concittadino e come si sa sono i brevetti che danno la primogenitura a un idea e così l'inglese Ralph Wedgwood il 7 ottobre 1807 depositò l'esclusiva della cosiddetta carta copiativa.

E per gli amanti del pettegolezzo come prosegui la storia fra Pellegrino e la contessina? A quanto se ne sa nel 1808 la contessa madre Maddalena Fantoni scrive al benemerito garfagnino facendogli capire che sua figlia avrebbe avuto bisogno di un marito...la macchina da scrivere per quanto utile e dilettevole non le bastava più: "Le basterebbe un uomo- scriveva la contessa- passati i quarant'anni (n.d.r: Turri al tempo ne aveva 43...), ben mantenuto, che non le faccia mancare da mangiare, nè da vestire, senza sforzi e che fosse di bona morale; non occorre poi tanta nobiltà, non importerebbe neppure in Reggio, ma anche in quei paesi circonvicini. Lei desidererebbe questo marito: io desidero che riesca a trovarglielo...". L'ingegnoso Pellegrino Turri dopo il velato (ma neanche troppo...) invito, con dispiacere non se la sentì di portare avanti la relazione, la differenza di età era troppa, fu così che ognuno prese strade diverse. La contessina trovò comunque l'agognato marito nella persona del trentenne Domenico Ravani Pollai, le nozze ebbero luogo il 23 ottobre 1809. Pellegrino Turri morì diciannove anni dopo quel matrimonio, era il 1828, mentre Carolina spirò nel 1841 a Reggio Emilia, lasciando alcuni figli i quali due giorni dopo la morte della madre donarono a Giuseppe Turri, figlio di Pellegrino la famosa macchina da scrivere in segno di profonda riconoscenza per quanto aveva fatto il padre. Di quella "preziosa stamperia" non rimase niente e niente è arrivato ad oggi. Il figlio di Pellegrino Turri verosimilmente la smarrì e forse la gettò ritenendola cosa inutile, di quel congegno di legno e ferro non è rimasto nemmeno un disegno. 
il libro
Tuttavia ci vollero più di venti anni prima che fosse apportata qualche modifica alla "macchina", ci volle più di mezzo secolo prima che in Italia se ne costruissero più modelli e ci vollero più di settanta anni prima che prendesse il via una produzione industriale in America. Nella nostra Garfagnana e nella vicina Lunigiana eravamo arrivati prima di tutti e fu un'altra occasione persa per far primeggiare su tutti il nostro genio italico.
Per chiudere in modo completo quest'articolo segnalo che su questa vicenda addirittura è stato scritto anche un apprezzato romanzo che si intitola "Le parole perdute"(titolo originale "The blind contessa's new machine" ovvero "La nuova macchina della contessa cieca") scritto da Carey Wallace (scrittrice americana) edito da Frassinelli, la storia ricalca verosimilmente il caso, con i nomi originali,i fatti di Pellegrino e Carolina e la miracolosa macchina da scrivere. 


Ringrazio per l'ispirazione a questo articolo l'amico Alessandro Veneziano



Bibliografia

  • Documentazione Rino Barbieri
  • Typewriter-macchine da scrivere
  • Archivio di Stato Reggio Emilia
  • La prima macchina da scrivere fu costruita in Garfagnana. Almiro Giannotti "La Garfagnana" n°6/1979

mercoledì 30 novembre 2016

Dalle pagine de "La Domenica del Corriere" del 1946, promozione turistica della Garfagnana

L'Italia era uscita prostrata dalla seconda guerra mondiale, gran
parte del suo patrimonio nazionale era andato distrutto e dappertutto vi erano lutti e rovine. Nonostante tutto un nuovo spirito di rinascita si faceva strada nella nazione, la volontà di essere partecipi dell'opera di ricostruzione animava tutti, ma non c'era da ricostruire solamente le case bombardate, i ponti distrutti e le sconnesse strade, c'era da ricostruire l'animo di una nazione intera. Il fascismo era finito per sempre, finalmente si poteva tornare ad esprimersi liberamente con parole, con scritti e ognuno era libero di seguire la propria vocazione politica. Per l'Italia cominciava allora una nuova epoca e bisogna tornare a dare voce a tutti e a dare spazio a tutte le idee. La Garfagnana in questo caso era stata colpita duramente, in tutti i sensi, c'era da ridare anche qui nuova linfa ad una regione già di per se povera, c'era da farla conoscere questa terra dimenticata da Dio nella speranza di portare nella valle dei visitatori (la parola turista al tempo non era ancora nel parlar comune) a fare gite nella nostra valle, perchè poi una volta giunti, questi visitatori si dovevano fermare beatamente nelle nostre botteghe a comprare i nostri prodotti e a bere nei nostri bar. Un idea rivoluzionaria questa per l'immediato dopo guerra, c'era già chi pensava a portare turismo in Garfagnana, figuriamoci che ancora oggi c'è chi fra i nostri amministratori locali nemmeno ci pensa... Ma chi aveva avuto un idea tanto arguta e lungimirante quanto sovversiva? Solo un'intelligenza sopra la media come quella di Almiro Giannotti alias il Gian Mirola poteva pensare una cosa così sbalorditiva. Il Gian Mirola per i pochi che non lo conoscono fu lo scrittore e giornalista(a mio avviso) più dotato, brillante e pronto che la Garfagnana (e non solo) abbia mai avuto.Inutile stare qui a
Il Gian Mirola
raccontare tutta la sua storia (n.d.r anche se ho in preparazione un articolo), ma brevemente basta dire che Almiro (il nome di battessimo) nacque a Eglio nel 1915, fu maestro in vari paesi della Garfagnana e sindaco di Molazzana negli anni 50, ma sopratutto era uno studioso di folclore e un fine analista di problemi locali e da conoscitore di questi fenomeni capì subito qual'era una possibile soluzione per far emergere la sua amata terra, dilaniata dalla guerra e dalla povertà: il turismo o quantomeno far conoscere a tutti che anche la Garfagnana esisteva. L'idea che ebbe fu sensazionale, scrivere un articolo con foto annesse su una delle tante riviste per cui già scriveva. Infatti il Gian Mirola firmava articoli per i maggiori giornali italiani: "Eva", "Divagando", "Famiglia Cristiana", "Scuola Moderna", ma in particolare c'era un giornale a cui puntava per pubblicare questo benedetto articolo, anzi per dire la verità non era nemmeno un giornale nel vero senso della parola, ma bensì un supplemento ad un quotidiano, questo supplemento si chiamava "La Domenica del Corriere" che veniva dato settimanalmente insieme (con l'aggiunta di poche lire) al quotidiano italiano per eccellenza, "Il Corriere della Sera". Apparire quindi su "La Domenica del Corriere" voleva dire affacciarsi nelle case di tutti gli italiani, dato che le

tirature di questo supplemento toccavano cifre stratosferiche,negli anni trenta arrivò ad essere il settimanale più letto d'Italia con una tiratura di oltre seicentomila copie, mentre negli anni '40 e '50 confermando il primato di giornale più letto la tiratura toccò addirittura il milione di copie. Questo giornale colpì subito l'italiano medio e fu concepito proprio come il settimanale degli italiani, che doveva scandire come un calendario le giornate liete e le tragedie, si dava molto spazio alle foto e ai disegni, storiche furono le sue copertine disegnate prima da Achille Beltrame e poi da Walter Molino, in ogni numero il disegnatore aveva il compito di rendere vivo con la sua tavola il fatto più interessante della settimana, insomma, pubblicare qualcosa qua sopra significava farsi conoscere in tutta Italia e così fu che il Gian Mirola riuscì nel miracolo. Il suo articolo sulla Garfagnana comparve su "La Domenica del Corriere" solamente un anno e cinque mesi dopo la fine della seconda guerra mondiale, il 3 novembre 1946 riuscendo ad uscire insieme all'importante tavola di copertina che rappresentava l'altrettanto importante evento: la prima volta che le Nazioni Unite si riunivano nella nuova sede di New York, quanto sia stata voluta o fortunata questa coincidenza non si sa, il fatto portò comunque a una maggior quantità di copie vendute di questo bellissimo numero, che anch'io oggi posseggo nella mia
3 novembre 46.Il numero de
La Domenica del Corriere
dove si parla di Garfagnana
(collezione Paolo Marzi)
collezione di fascicoli de "La Domenica del Corriere". All'epoca non esisteva la televisione, naturalmente nemmeno internet e questa operazione che riuscì al Gian Mirola era perciò la maniera più diretta per far conoscere "l'illustre sconosciuta", come definisce egli stesso la Garfagnana  nell'articolo, dove racconta degli usi e dei costumi e dove descrive la gente "...buona cortese e attaccatissima agli usi degli avi..", non manca nemmeno di illustrare i famosi personaggi che l'hanno abitata, senza nemmeno dimenticare i prodotti delle nostre terre. Ma bando alla ciance, ecco per voi questo stupendo e avveniristico articolo di promozione del territorio, che fra pochi giorni fa ha compiuto 70 anni, era precisamente il 3 novembre 1946 e a
 pagina 7 campeggiava questo titolo:


"Garfagnana terra sconosciuta"


La pagina sulla Garfagnana
(collezione Paolo Marzi)
La Garfagnana non è una delle misteriose provincie dell'Asia, né uno sperduto villaggio della Patagonia. Se qualcuno, leggendo il titolo di questo articolo, lo avesse immaginato, si ricreda.
E' invece un pittoresco lembo di terra toscana, incuneato fra gli Appennini e le Apuane, dove termina il regno dell'ulivo ed incomincia quello del castagno.
Terra ricca di tradizioni folcloristiche, d'usi e costumi intatti da più secoli.
"L'ultima regione dell'Universo" la chiamano gli abitanti, alludendo argutamente alla corona dei monti orridi e belli, che la circondano.
Qui il castagno nasce e vegeta spontaneamente e nelle selve abbondano, come in un piccolo lembo di Paradiso terrestre, funghi, fragole, lamponi, mirtilli, more.

Usi e costumi
Le didascalie:Un tipo
garfagnino,con
qualche annetto ma ancora
in gamba
La gente è buona, cortese e attaccatissima agli usi e alle tradizioni degli avi. Nelle vie e nelle piazze dei paesi si canta ancora il "Maggio", che è una specie d'opera drammatica, paragonabile in certe forme più erudite, al melodramma.
Scettri di cartone, corazze di latta, elmi e spade di legno formano l'arredo scenico e il vestiario degli artisti che, accompagnati da un unico violino, cantano su un motivo semplice, poggiando sulla prima e sulla quinta sillaba di ogni verso.
Gli argomenti dei "Maggi" possono essere scelti fra i fatti più salienti della storia greca o romana, fra le vite dei Santi, degli eroi, o fra i poemi classici, come La Gerusalemme Liberatao L'Orlando furioso.
Altre forme d'arte popolare sono le "Befanate", gli "Stornelli", i "Rispetti"; ancora vive e in uso fra i contadini della regione. Abbiamo conosciuto, in Garfagnana, contadini che non sapevano fare l'o col tondo dei un bicchiere e recitavano, magari a memoria, uno o più canti della Divina Commedia, illustrandone poi, con esattezza, il significato storico e letterale.

Ospiti illustri e briganti cortesi
Le didascalie:Dove l'orrido
 è bello...e il bello orrido
Nel 1523 venne a governare la Garfagnana, per conto degli Estensi di Modena, un poeta celebre: Ludovico Ariosto.
In quel tempo gli Appennini erano covo di numerosi bande di briganti e attraversare le montagne per recarsi da Castelnuovo (sede del governatorato) a Modena (capitale estense) o viceversa non era impresa troppo facile.
Durante uno di questi viaggi l'Ariosto fu fermato e, col seguito, spogliato e derubato. Proprio come succede oggi sui valichi alpini.
I briganti stavano insaccando la refurtiva quando, ad uno del seguito, sfuggì il nome del poeta. Il capo dei banditi, premuroso, chiese subito: Dov'è messere Ludovico?
- Sono io - rispose tutto tremante il poeta.
- Non sia torto un capello al grande Ariosto - ordinò allora il campo ai compagni.
Fece restituire a tutti quanto era stato rubato e proseguì, poi, rivolto al poeta:
- Messere, anche i banditi della Garfagnana, che voi sferzate nelle vostre "satire" vi stimano e vi apprezzano - E s'inchinò in segno di rispetto.
Ordinò poi, ad una parte della banda, di scortare il poeta ed il suo seguito fino al limite della "Gran selva" affinchè non corressero il rischio di essere disturbati da altri.
Così l'autore dell'Orlando furioso giunse a Modena sano e salvo, benedicendo le muse che lo avevano protetto in una brutta avventura.

Marmo, carbone e... fragole
Oggi la Garfagnana è una delle Regioni d'Italia più dimenticate.
Le didascalie: Nel regno del
castagno, quando le pecorelle
 escon dal chiuso. La Pastorella
 pudica si copre la faccia
per non farsi fotografare
La guerra vi sostò per sette mesi. Villaggi interi furono distrutti o bruciati. Uomini di tutte le razze bivaccarono nelle case abbandonate e molti, oggi, leggendo questo articolo ed osservando le fotografie riprodotte in questa pagina, sussurreranno, compiaciuti o rammaricati, la famosa frase manzoniana: "Io c'era!"
Sulle strade, solcate allora dalle pesanti ruote dei pezzi d'artiglieria, discendono oggi i più importanti prodotti della regione, diretti ai vari mercati del mondo: marmo per le Indie e per le Americhe, castagne e farina di castagno per la Francia e per la Spagna, legna e carbone per l'Italia settentrionale.
Una delle occupazioni più caratteristiche è la raccolta delle fragole, che qui nascono spontaneamente. Ceste e cestelli vengono allineati, ogni giorno, durante la raccolta, lungo i margini delle strade, in attesa delle macchine che passeranno, nelle prime ore del mattino, a caricare.
Importante è anche la raccolta dei funghi, i quali vengono inviati, nelle annate di massimo raccolto, in tutta Italia.
Funghi, fragole e castagne per la mensa; lana e canapa per i vestiti, che qui vengono filati e tessuti a mano; carbone e legna per la stufa; marmo e calce per la casa.

Tutto questo dà la Garfagnana, l'illustre sconosciuta, che un giornalista ha scoperto, in questi giorni, senza passare i confini dello Stato. Scoperta, descritta, illustrata: per voi.

Gian Mirola












mercoledì 23 novembre 2016

Morire sul lavoro. La strage di Bolognana 24 novembre 1939. Storia di dolore e di dubbi

Centrale SELT Valdarno Gallicano 1938
Morire lavorando, la cosiddetta "morte bianca"" Le chiamano "morti bianche", come avvenissero senza sangue.Le chiamano "morti bianche", perchè l'aggettivo bianco allude all'assenza di una mano direttamente responsabile dell'accaduto, invece la mano responsabile c'è sempre, più di una.
Le chiamano "morti bianche", come fossero dovute alla casualità, alla fatalità, alla sfortuna.
Le chiamano "morti bianche", ma il dolore che fa loro da contorno potrebbe reclamare ben altra sfumatura cromatica.
Le chiamano "morti bianche", tanto non meritano che due righe sui quotidiani, si e no una citazione nel telegiornale. 
 
Le chiamano "morti bianche", ma non sono incidenti, dipendono dall'avidità di chi si rifiuta di rispettare le norme sulla sicurezza sul lavoro".

Questo è un brano di uno scritto di Mauro Bazzoni, operaio metalmeccanico di Firenze, da sempre in prima linea per la sicurezza sul lavoro. Leggevo questa bella lettera proprio in questi giorni e fra le tante frasi  mi è rimasta nella memoria la parte in cui dice: "Le chiamano "morti bianche", tanto non meritano che due righe sui quotidiani, si e no una citazione nel telegiornale". Niente di più vero, di solito queste notizie passano in secondo piano e ben presto ci si dimentica di coloro che la mattina sono usciti da casa, hanno salutato moglie e figli recandosi al lavoro e di li non hanno fatto più ritorno e i numeri di quelli che non hanno fatto più ritorno a casa nei primi sette mesi del 2016 sono agghiaccianti. Secondo
Statistiche morti sul lavoro
 regione per regione anno 2015
l'osservatorio di sicurezza sul lavoro Vega Engineering di Mestre sulla base degli elementi forniti dall'I.N.A.I.L
 i morti sono 562, una media di 80 morti al mese, 20 a settimana...una mostruosità!Non dimentichiamoci allora dei morti sul lavoro che anche la Garfagnana ha avuto e purtroppo ha ancora, le disgrazie che in questo ambito questo lembo di Toscana ha avuto sono molteplici: dai morti di inizio '900 per la realizzazione della ferrovia Lucca- Aulla, alle disgrazie avvenute nei decenni alla S.M.I (società metallurgica italiana) di Fornaci di Barga, alle tremende morti nelle cave di marmo garfagnine, fino ad arrivare alle due più gravi e pesanti (in quanto a perdita di vite umane) che sono accadute entrambe nel territorio comunale di Gallicano. Impossibile quindi dimenticarsi dello scoppio della polveriera S.I.P.E NOBEL, era il febbraio 1953 e nell'esplosione dello stabilimento gallicanese di polvere pirica trovarono la morte dieci persone(per questa storia clicca qui:http://paolomarzi.blogspot.it/esta-del-lavorola-tragedia-che.html). Ma c'è ancora un'altra strage di lavoratori, ormai quasi dimenticata e tornata agli onori della cronaca nel 2002, quando qualcuno nel piccolo paese di Bolognana si ricordò che sulla vecchia
Bolognana (foto Giro-Vagando)
strada che conduceva a Lucca, dietro ad una folta vegetazione c'era ancora un piccolo monumento neoclassico che ricordava l'estremo sacrificio di alcuni uomini, oramai la boscaglia l'aveva nascosto alla vista dei passanti e per di più anche la sua stabilità era quasi compromessa. Ma finalmente dopo 63 anni E.N.E.L (colei che al tempo commissionò l'opera), con la piena collaborazione e disponibilità sia della provincia che del comune decisero di restaurare il monumento e riportare alla memoria collettiva la storia di questi valorosi uomini. Sono passati oggi settantasette anni da quella disgrazia, era il 1939, era il periodo delle grandi opere fasciste e in un articolo sul "Popolo d'Italia" il primo luglio 1926 Mussolini scriveva: "Ho ancora una battaglia da vincere: è la battaglia per la restaurazione economica dell' Italia. Nelle altre battaglie che il regime fascista ha dovuto combattere, la vittoria è già stata conseguita...". La cosiddetta restaurazione economica passò attraverso opere di grande utilità, in tutta Italia presero il via progetti imponenti: costruzione di scuole, di edifici pubblici, di dighe e bonifiche di aree urbane altrimenti inutilizzabili. Parte di queste opere furono intraprese anche in Garfagnana e una di queste era proprio la costruzione di una galleria che era destinata a portare l'acqua dalla centrale di Gallicano all'impianto idroelettrico di Turritecava. Il cantiere dei lavori era appena fuori il paese di Bolognana, 
precisamente sulla
Centrale di Turritecava, cerchiato in rosso
l'uscita della galleria di Bolognana
vecchia strada provinciale Lodovica all'altezza di Rio Forcone, torrente che sfocia nel Serchio. La società elettrica ligure toscana al tempo meglio conosciuta come S.E.L.T Valdarno (n.d.r: la futura E.N.E.L) aveva commissionato i lavori a lotti per tre ditte, la D'Amioli, la Pighini e la Scardovi, era questa un'impresa a più mani dato che il lavoro da fare era piuttosto arduo, c'era d'aprire una galleria attraverso la montagna per quasi dieci chilometri. I lavori procedevano a rilento, a causa proprio delle difficoltà incontrate nel penetrare il monte, la data ultima di consegna dei lavori si stava infatti avvicinando inesorabilmente, la precisione e la disciplina fascista dell'epoca non ammetteva ritardi, perciò bisognava andare svelti e per questo furono organizzati tre turni lavorativi giornalieri. Testimonianze raccolte da Adolfo Moni (n.d.r: docente gallicanese dell'università della terza età)da un vecchio abitante di Bolognana raccontano che già poco prima della tragedia ci si era resi conto della pericolosità dei lavori e già nell'estate di quel maledetto 1939 ci furono due incidenti, uno causato da uno scoppio di glicerina utilizzata per fare le mine che determinò la morte di due persone,l'altro ci fu un po' più a sud verso Turritecava. Ma quello che successe la sera di
Sul luogo della tragedia il
restaurato monumento neoclassico del 1942
quel 24 novembre fu veramente spaventoso. Il terreno già di per se poco stabile in condizioni di tempo buono, subì un vero e proprio peggioramento con l'arrivo della stagione delle piogge, tutta quest'acqua formò nella terra una specie di "sacca" che causò lo smottamento nella galleria, un'operaio garfagnino rimase fin da subito sotto il fango, mentre altri sette rimasero imprigionati all'interno della galleria, era una squadra dell'impresa di costruzioni Scardovi di Bologna che era sotto la direzione di Alfredo Lepri di San Benedetto Val di Sambro (cittadina dell'Appennino bolognese)anche lui rimasto bloccato all'interno del

traforo. Furono sei lunghi giorni di agonia nei vani tentativi di liberare le persone dalla morsa del buio, del fango e dei sassi. Ogni secondo, ogni minuto e ogni ora erano preziosi per salvarli da una delle peggiori morti: l'asfissia. In quei giorni alcuni lamentarono che non fu fatto abbastanza per salvare i malcapitati e in molti si domandarono del perchè non furono usate quelle piccole gallerie "di servizio" che erano più a sud del paese utilizzate 
Particolare del monumento
per movimentare uomini e materiale e ancora, perchè non fu accettato l'appoggio della vicina metallurgica? La S.M.I si rese disponibile ad aiutare con dei tubi, che avrebbero portato aria all'interno della galleria ma in questo caso il testimone di Adolfo Moni chiude di netto la vicenda con lapidarie parole:- non vollero...non vollero far nulla!-. Le casse da morto arrivarono quando all'interno quei disgraziati erano ancora agonizzanti e dopo sei lunghi interminabili giorni finalmente i corpi furono estratti dal maledetto tunnel, tutti morti e a quanto pare alcuni non avevano ancora il rigor mortis...Finì così per sempre la vita terrena di quelli che oramai erano considerati dagli abitanti del posto dei paesani "aggiunti", infatti alcuni di questi avevano stretto amicizia con i lavoratori che per tutta la settimana mangiavano e dormivano in paese e nelle vicinanze. Fu per il piccolo borgo garfagnino e per la valle un vero e proprio dramma.

Nel 1942, a tre anni di distanza dai fatti e nei pressi del luogo della sciagura fu eretto dalla società elettrica un tempietto neoclassico in ricordo di quei morti. Si pensò come era usanza al tempo di scrivere su marmo una pomposa e retorica dedica funeraria:
-NELL'ARDUA OPERA DI ASSERVIRE IL FLUSSO DELLE ACQUE ALLA MAGGIORE POTENZA D'ITALIA, PER ATROCE INSIDIA DELLA NATURA, SACRIFICAVANO LA VIGOROSA GIOVINEZZA.

In memoria di:
  • Bertei Desiderio di Piazza al Serchio
  • Bertozzi Guglielmo di Sassi
  • Giuliani Amelio di Camporgiano
  • Cassettari Giovanni di Piazza al Serchio
  • Grassi Giovanni di San Romano Garfagnana
  • Lepri Alfredo di San Benedetto Val di Sambro (Bologna)
  • Mucci Renato di Bologna
  • Muccini Guerrino da Camporgiano
  • Rocchiccioli Amerigo di Castelnuovo Garfagnana 
  • Borgia Antonio di Minucciano
Questa è la fine di questa storia, ma a questa storia nel tempo ce ne sono state purtroppo aggiunte altre, fatte di altrettanti racconti, altrettanti nomi e altrettante facce...


Bibliografia:


  • "Morti Bianche" di Mauro Bazzoni
  • "INCIDENTE DRAMMATICO SUL LAVORO IN GALLERIA DEL 24 NOVEMBRE 1939 a sera" di Adolfo Moni da "L'Aringo-il giornale di Gallicano" n°5 marzo 2016