mercoledì 30 ottobre 2019

La paura fa novanta...Credenze e tradizioni sulla morte in Garfagnana

Mosè ci racconta che era proprio nel "diciassettesimo giorno del
secondo mese", quello in cui Noè costruì l'arca in attesa del Grande Diluvio. Tale data farebbe riferimento proprio al mese di novembre, mese in cui oggi si commemorano i defunti e fu proprio in onore di quei defunti che Dio stesso aveva annientato, con il fine di esorcizzare la paura di nuovi eventi simili. Da qui in poi, la storia, che è ovviamente sospesa fra religione e leggenda diventa un po' più chiara e ci narra che questo rito nasce dall'abate benedettino Sant'Odilone di Cluny (Francia) che nel 998 fece risuonare le campane a morto dopo le preghiere del tramonto del 1° novembre, offrendo l'ecauristica "pro requie omnium defunctorum", ovverosia "per le anime di tutti i defunti". Un centinaio di
Sant'Odilone da Cluny
monasteri dipendenti da quello di Cluny contribuirono al diffondersi di questa nuova usanza che in breve tempo fu adottata in tutta l'Europa del nord e nel 1311 divenne ufficiale per tutta la chiesa cattolica. Da quel giorno, il due novembre riempiamo i cimiteri di ogni dove, si arriva fino a quelli più sperduti dell'alta montagna garfagnina e proprio quei cimiteri che per il resto dell'anno vengono visitati da qualche vecchietta devota, quel giorno diventano luoghi di aggregazione talvolta becera e maleducata. Ma d'altronde siamo terra di tradizioni e le tradizioni vanno rispettate... Il culto dei morti d'altra parte è dentro la natura umana e i garfagnini questo culto l'avevano ben radicato dentro di sè, come tutte le culture contadine
Gallicano inizi
secolo scorso
dei tempi che furono. Purtroppo negli anni andati le cause di morte in Garfagnana erano tantissime, le condizioni di vita delle fasce più basse erano miserevoli: la fame e condizioni igieniche scarse portavano a percentuali di morte altissime, per non parlare poi della forte mortalità infantile e sopratutto femminile: il parto era una delle maggiori cause e in pratica per tutto l'ottocento la

familiarità con la morte andava a  braccetto con la vita che proseguiva, si moriva difatti più spesso nelle case che negli ospedali. Ed era per questo motivo che anche in Garfagnana si svilupparono credenze legate al triste evento. Esistevano quindi una serie rituali che si protraevano per giorni, mesi e anni a partire dall'usanza "di portare il lutto". Il lutto si distingueva in due categorie: il lutto stretto e il mezzo lutto. Tutto aveva delle regole precise e imprescindibili; il lutto stretto durava sei mesi, più altri tre di mezzo lutto in caso di perdita del coniuge, dei genitori, dei suoceri e dei figli, il periodo si riduceva "solamente" a tre mesi (di lutto stretto) per fratelli, nonni, cognati, generi e nuore. Tale uso comportava gli abiti neri per le signore, ma non solo: questi abiti dovevano essere chiusi, accollati e severi, non si
lutto stretto
potevano portare ornamenti vari e addirittura nei casi più estremi non si poteva nemmeno mostrare il volto che doveva essere coperto da una velina; gli uomini in effetti avevano meno problemi: bastava un nastro nero intorno al cappello, una fascia al braccio ed eventualmente portare una striscia nera sul bavero della giacca. Con il mezzo lutto finalmente si ricominciava a respirare dopo mesi di lacrime e solitudine, l'abbigliamento si modificava e le signore si potevano vestire con colori sobri: grigio, viola e bianco, si potevano rimettere anelli ed eventuali collane, ma sarebbe stato ancora disdicevole partecipare alla feste di paese (questo per entrambi i sessi). Sussistevano altre consuetudini che oggi ci possono sembrare curiose e strambe ma che fino all'inizio del secolo passato erano considerate una prassi, come quella che narra che per ben nove giorni nella casa dello scomparso si ricevevano visite di parenti e amici più e più volte, figuriamoci lo strazio per i "dolenti", che per lo stesso periodo non dovevano nemmeno cucinare, ma siccome dovevano pur campare ci pensavano i congiunti a portare cibi già pronti, una manifestazione d'affetto chiamata "consolazione". Quella che noi oggi considereremmo un'altra stranezza era quella 
di mettere una
Un vecchio funerale
moneta in tasca al povero defunto, infatti oltre al classico rosario o alla medaglietta di un santo usava mettere anche un soldo che sarebbe servito al morto stesso per pagare il traghetto del fiume Giordano, questo secondo tradizione cristiana, nel rituale pagano il soldo serviva a Caronte per attraversare il fiume acheronteo che divideva il mondo dei vivi da quello dei morti, ma per mollare la povera anima a Caronte o ancor più giustamente a Dio esisteva un'altra usanza tipicamente casalinga che consisteva nel lasciare per tre giorni aperte le finestre o almeno una finestra di casa, perchè si diceva che nei tre giorni successivi alla dipartita del caro estinto la sua anima sarebbe rimasta ancora in casa, in questo modo avrebbe avuto così la possibilità di uscire e di salire in cielo. Sarebbe rimasta ancora in casa, per poi farvi ritorno proprio nella ricorrenza del 2 novembre, secondo quella  tradizione che era chiamata
"Ben dì morti", si diceva che proprio
ogni ricorrenza dei defunti dal cimitero i morti tornavano nelle loro case uscendo dal cimitero in una lugubre fila, vestiti di cappa e cappuccio. Per accogliere le anime dei cari estinti nella case si accendevano i lumi e la mattina si abbandonavano di buon ora i letti per lasciare il posto alle loro anime stanche dopo il lungo viaggio dall'aldilà, proprio per questo motivo si lasciavano anche le finestre aperte per favorire le visite e si tirava la casa a lucido per fare bella figura, era abitudine lasciare delle mondine sul tavolo da cucina in modo che le buon anime si potessero anche sfamare e guai se per quei giorni si chiudevano a chiave cassapanche, armadi o cassetti, il morto in questo modo avrebbe avuto la possibilità di portare con sè qualcosa che si era dimenticato in vita. Anche i bambini venivano coinvolti a pieno titolo in questa ricorrenza e in una sorta di Halloween nostrano andavano di casa in casa a chiedere generi alimentari di ogni tipo
: arance, noci, castagne, in cambio avrebbero pregato per i morti di quella casa. Passato il 2 novembre rimanevano gli altri giorni dell'anno e in questo caso Sant'Agostino spiegava che bisognava continuare a pregare per i morti anche al di fuori dei rispettivi anniversari e così i familiari continuavano le visite al camposanto portando fiori e i cosiddetti "lumini" votivi. Quei fiori hanno una tradizione antichissima che parte da rituali funebri lontanissimi, i fiori sono connessi alla sfera del sacro in virtù del legame arcaico con gli dei, gli dei infatti si potevano placare
offrendo cibo e fiori, il significato cristiano naturalmente si discosta da credenze pagane e ci dice appunto che questo gesto ha un significato di tendere una mano a chi non c'è più: dire "ti penso", "ti voglio bene". C
osì poi come il lumino, anch'esso ha origini a dir poco remote, già gli etruschi e poi i romani accendevano candele sulle tombe e la loro luce era legata alla vittoria del bene contro il male, al trionfo
della vita sulla la morte.

Del resto in qualsiasi modo la pensiamo la morte fa paura, a volte è vissuta come una liberazione, al tempo stesso anche queste tradizioni erano legate dal sentimento principale della vita: l'amore, l'amore perpetuo per un distacco irreversibile dalla persona cara. Usi e costumi che non erano altro che un perpetuarsi della memoria, perchè anche chi muore se continua a vivere nella propria testa non muore mai. 

giovedì 24 ottobre 2019

"La scienza dei poveri". L'uso degli "erbi" nella medicina popolare garfagnina

"Il Signore ha creato i medicamenti dalla terra, l'uomo saggio non
li disprezza". La Bibbia parla chiaro, anche dai frutti della terra si possono trovare rimedi efficaci per la salute del nostro corpo. I vecchi garfagnini questo lo sapevano bene. La terra di Garfagnana è immersa nella natura e la natura stessa oltre agli "erbi boni" da mettere in tavola ne forniva altrettanti per la cura del corpo. Il tempo e la scienza moderna classificò queste pratiche con il nome di "medicina popolare", alcuni detrattori invece non esitarono a chiamarla "la scienza dei poveri". Ma fu proprio questa scienza povera a dare sollievo a dolori e ai malesseri fisici dei garfagnini, infatti, in tal senso la nostra terra era considerata una delle culle della medicina popolare. D'altronde esistevamo le
due caratteristiche principali per sviluppare questa attività: una moltitudine di erbe adatte e... la povertà. I medici erano una rarità e molti dei medicinali basici non erano ancora stati brevettati e quelli che esistevano costavano cari e allora la gente cercava di districarsi come meglio poteva nel complicato mondo medico, curando piccole e grandi malattie con rimedi rudimentali. I migliori "medici" erano gli anziani della casa (o del vicinato), gli eccellenti rimedi e le terapie più efficaci facevano parte del loro bagaglio culturale, erano usanze che si tramandavano da generazione in generazione e l'esperienza e l'osservazione della natura aveva fatto il resto. In effetti questi medicamenti vedono la sua origine dalla notte dei tempi. Il primo requisito che influì su queste usanze fu l'istinto dell'uomo stesso, che individuò e separò le specie delle erbe velenose da quelle mangerecce, in secondo luogo osservando gli animali riuscì a capire ancor di più quali fossero le erbe curative. Purtroppo con il passar dei secoli anche in questo campo, com'è brutta consuetudine (anche ai giorni nostri) ci si rivolse ai maghi "capaci di allontanare tutti i malanni della
terra", spesso con risultati drammatici, a riprova che pure la cosiddetta medicina popolare doveva essere praticata con sapienza. A discapito di questi maghi e fattucchiere ci pensò però Santa Romana Chiesa e se fino a quel momento (anche se con i pericoli che abbiamo letto) la medicina con gli "erbi" era prodigata e praticata, nel XVI secolo subì una brusca frenata: decotti, tisane, tinture ed unguenti vari furono messi al bando, secondo l'inquisizione certe medicine andavano a braccetto con la magia; il Concilio di Trento rubricò tutte le pratiche sanitarie e le cure popolari sotto la voce
l'inquisizione
"Superstitiones", per cui l'arte medica era vietata ai prelati, agli ebrei e alle donne, anche se a onor del vero la stessa Chiesa non disdegnava l'uso delle erbe per preparare potenti sedativi nei processi di stregoneria: la Belladonna e il Giusquiamo agivano sul sistema nervoso e costringevano le imputate a confessare ciò che si sarebbe voluto. Per grazia di Dio i tempi passarono e come sempre dopo la notte torna sempre il giorno e l'uso degli "erbi" per scopo terapeutico riprese auge, proprio grazie a quella Chiesa che prima l'aveva osteggiato. Sono i monaci che con una sorta di ufficializzazione impartirono il sapere delle erbe curative, vennero trascritti in dei Codici di rara bellezza e vennero realizzati giardini di erbe medicinali di tutto rispetto. Fu proprio in quel periodo che in Garfagnana, anche grazie alla sapienza di
questi frati si sviluppò pienamente l'uso delle erbe come rimedio per i malanni. Gli antichi rimedi della medicina popolare fatta con
le erbe e le piante erano tantissimi, alcuni efficaci, altri effettivamente inutili e alcuni se non trattati con dovizia risultavano anche dannosi alla salute, non era nemmeno casuale la raccolta di queste erbe che secondo tradizione garfagnina non potevano essere raccolte in tutti i periodi dell'anno; una buona parte di esse doveva essere selezionata nelle notti di luna piena o in ricorrenze di santi o festività religiose: ad esempio l'alloro doveva essere colto il primo venerdì di marzo, la camomilla il 17 maggio per San Pasquale, mentre una buona parte di esse doveva essere selezionata  tra il 21 e il 24 giugno, non era una scelta casuale o legata alla benevolenza dei santi, il raccolto degli erbi aveva infatti  un fondamento scientifico, dal momento che la maggior parte di queste aveva la sua massima concentrazione dei suoi principi attivi proprio in quel determinato periodo dell'anno. Le loro preparazioni erano molteplici, si passava da un semplice impacco, ai decotti, infusioni, sciroppi, tinture e oli vari. Impossibile quindi elencare la montagna di erbe mediche che abbiamo nella valle, proviamo però a fare un piccolissimo viaggio fra queste. 

Abbiamo parlato qualche riga sopra dell'alloro, ecco l'alloro è un
alloro
vero toccasana, le sue foglie sono ricche di principi attivi dalle proprietà antisettiche, antiossidanti e digestive, ma guardiamo nello specifico e vediamo che una volta le sue foglie venivano essiccate e sminuzzate e se si avevano disturbi digestivi importanti che creavano anche forti mal di testa, bastava versare un cucchiaino di queste foglie d'alloro in una tazza d'acqua, lasciarle riposare qualche minuto, filtrare il tutto e bere, il suo potere anti fermentativo avrebbe liberato sicuramente lo stomaco. La borraggine era invece l'aspirina del tempo che fu, infatti era ed è una pianticella che contiene una buona quantità di vitamina, in particolare vitamina C e sali minerali (sopratutto potassio), buon rimedio quindi per la tosse, inoltre ha proprietà antipiretiche e
la borraggine
sudorifiche, l'antica ricetta diceva che si doveva preparare un vino depurativo, mettendo in infusione le sue cime fiorite in mezzo litro di vino, si filtrava e se ne bevevano tre-quattro bicchierini al giorno, addolciti con un po' di zucchero (se c'era). Una pianta adatta un po' a tutti i mali era il ginepro, questo infatti è un arbusto dalle incredibili virtù. La corteccia di questa pianta veniva bruciata e con la sua cenere mescolata all'acqua si otteneva una sostanza che dava beneficio alla lebbra e alla rogna. In Garfagnana venne usato particolarmente nel XVII
il ginepro
secolo, quando la peste fece una vera e propria ecatombe. Finite queste pestilenze il suo uso fu per malattie ben più leggere e le sue bacche davano sollievo alle bronchite, la loro azione dilata i bronchi favorendo di fatto la respirazione; il loro uso era  poi particolarmente caro alle donne, si dice che regolarizzasse il ciclo mestruale e ne attenuava i fastidi, l'infuso di ginepro era ideale anche per le artriti e i dolori muscolari. Che dire poi dell'Erba di San Giovanni? Tradizionalmente quest'"erbo" veniva utilizzato in olio per trattare ferite e
l'erba di San Giovanni
ustioni, grazie al suo potere antinfiammatorio, cicatrizzante e rigenerativo della pelle, ma non solo, veniva utilizzato anche come disinfettante, a quanto pare aveva anche un'azione antidepressiva. Invece il nome di questa pianticella è tutto un programma; lo conosciamo tutti come "Piscialetto", in realtà si chiama Tarassaco, questa pianta stimola la diuresi e svolge un'ottima azione drenante, utile per le lievi infezioni delle vie urinarie. Ebbene si, non è scherzo ma il
il piscialetto
pungitopo può curare anche l'emorroidi, non certo con le bacche, ne tantomeno con le sue foglie appuntite, ma bensì con il rizoma (n.d.r: modificazione del fusto della pianta): si dice che alleviasse il prurito. Come se non bastasse il pungitopo (oltre che usarlo come ornamento natalizio), la medicina popolare garfagnina lo consigliava anche sotto forma di decotto (amarissimo a quanto si dice) come
il pungitopo
antiinfiammatorio o come rimedio per le gambe gonfie. Chiudiamo con il cosiddetto "cavolo di San Viano" (cavolo montano), erba tipica della zona di Vagli, il suo nome lo prende proprio da questo santo eremita, che abitava nelle aspre montagne sopra il paese, questa pianticella gli fu mandata in dono dal Signore per sfamarlo; il
il cavolo di San Viano
vegetale però non dava sollievo solo alla fame ma aveva un'altra curiosa particolarità, nei tempi lontani le sue foglie erano considerate come un vero e proprio cerotto naturale, infatti se leggermente pestate erano un ottimo cicatrizzante per le piccole ferite, era un toccasana anche per le punture d'insetti.


Insomma, potrei riempire pagine e pagine sui benefici degli erbi garfagnini, d'altra parte la saggezza dei nostri vecchi era infinita come questo sapere antico che si può riassumere tutto in un semplice detto: "l'acqua di monte e l'erbe di campo da tutti i mali ci danno scampo"... 

giovedì 17 ottobre 2019

Il cammino della storia: sentieri di guerra garfagnini, oggi sentieri di pace

La seconda guerra mondiale le oltraggiò, le sfregiò e ne deturpò la
Panchina Monte Rovaio
(Daniele Saisi Foto)
sua candida bellezza. Le Alpi Apuane fino a quel momento erano un oasi di pura natura incontaminata, una concordia di elementi: i suoi boschi, le sue aguzze vette e la sua umile gente, quei contadini e quei pastori garfagnini che su queste montagne trovavano il sostentamento per vivere. Da molti era definito l'Eden in terra. Di queste montagne se ne accorse la poesia per bocca di poeti come D'Annunzio: "...ecco s'indora d'una soavità che il cor dilania. Mai fosti bella ahime, come in quest'ora ultima, o Pania" e prima ancora Ludovico Ariosto che affermava: " La nuda Pania tra l'Aurora e il Noto, da l'altre parti il giogo mi circonda che fa d'un pellegrin la gloria noto" . Ma finì anche il tempo della poesia, del bello, del buono, ma finì sopratutto il tempo della pace. Le acque dei torrenti apuani si cominciarono a tingere di rosso sangue in quel fine estate 1944, il rumore pacifico delle foglie scricchiolanti sotto i piedi fu sostituito dal crepitio dei mitra MP 40 tedeschi, il soave vento fu rimpiazzato dai roboanti Thunderbolt americani, vere e proprie fortezze volanti. Il fronte si attestò proprio li, sulle Alpi Apuane per ben nove mesi, in quel tratto di terra che diventerà conosciuta a tutti come Linea Gotica (per saperne di più leggi: http://paolomarzi.blogspot.com/conosciamo-lalinea-gotica.html). Un fronte di guerra che toccava la sponda di due mari, il Mar Tirreno e il Mar Adriatico. Teatro di guerra, di battaglie
foto Associazione Culturale
 Italia Storica
cruente e di morte, questo era diventata la nostra terra.

Ma nonostante tutto, qualcuno in quei terribili mesi seppe guardare oltre; era l'inverno del 1945 e un corrispondente di guerra americano scrisse così: - Sono nel posto più bello del mondo-; i suoi connazionali avevano fallito da poco un incursione per sfondare la linea, eppure malgrado il tentativo fallito, la sconfitta, la sofferenza per le vite perdute, la penna sensibile di quel giornalista trovò una consolazione che solo la bellezza di un paesaggio come le Alpi Apuane poteva restituire davanti a -quell'arco di stupende montagne-. Fu per questo tragico evento che per la prima volta in assoluto le Panie si mostrarono al mondo intero. Fu un crogiuolo di persone di ogni razza e nazione a presentarsi di fronte all'imponenza delle nostre montagne: i brasiliani della F.E.B, gli afro-americani della 92a Divisione Buffalo, i Gurka nepalesi dell'8a divisione britannica e alle truppe di montagna tedesche della 148a. Questo primo incontro fu l'occasione per questi soldati di
92a Divisione Buffalo
svelare questi monti alla conoscenza dell'intero pianeta e sebbene la morte, il dolore e la sofferenza regnasse, rese comunque consapevoli tutti del valore estetico delle Alpi Apuane, non importava da che parte si fosse, non importava essere nazisti o americani, la bellezza in questo caso rimaneva un valore universale.

Ed era proprio su questi fitti sentieri di queste montagne, nati per collegare i paesi, i casolari e di li ancora ad altri tratturi, ad altre mulattiere che portavano nei boschi e nei luoghi di pascolo, che questi percorsi divennero improvvisamente la via privilegiata per attacchi, ripiegamenti, divennero luoghi di difesa in un connubio di morte e di vita. Oggi questi sentieri esistono ancora e fanno parte della nostra memoria storica: viottoli, stradine, trincee e bunker sono ancora visibili sulle cime delle Apuane che si aprono a panorami mozzafiato, ma non occorre nemmeno arrampicarsi tanto per sublimarsi davanti a tanta bellezza. Ecco allora che questo articolo vuol far conoscere questi sentieri che sono tornati ad essere percorsi di pace, vuole portare il lettore a fare una passeggiata nella memoria. 
Oggi questi percorsi sono chiamati "Sentieri di Pace", una bella pubblicazione del Parco regionale delle Apuane ne identifica ben sette in tutto il comprensorio apuano, io mi occuperò in questo articolo di farvene conoscere due, e cioè di quelli che ho conoscenza personale e quelli che sono legati maggiormente al territorio della Valle del Serchio.
Qui siamo sui passi del Gruppo Valanga, la famosa formazione
Sentiero della Libertà
partigiana garfagnina, e già il nome di questo percorso ad anello ci spiega di cosa stiamo parlando:"il sentiero della libertà". Questi luoghi furono testimoni dello scontro impari fra partigiani e truppe da montagna tedesche, superiori in numero ed armi. Il punto di partenza di questa passeggiata è il Piglionico(raggiungibile da Molazzana), appena si arriva, a ricordare gli eventi c'è una cappellina dedicata al comandante del Valanga Leandro Puccetti, caduto insieme ad altri partigiani nella famosa battaglia del Monte Rovaio: era il 29 agosto 1944 la formazione partigiana difendeva e presidiava la zona delle Panie, strategicamente importante per i lanci di armi e viveri da parte degli alleati. Per percorrere i sentieri e visitare i luoghi della battaglia bisogna imboccare il sentiero C.A.I n 138 e di li salire fino Colle Panestra (qui siamo 998 metri S.L.M), lo storico villaggio al tempo rappresentava l'insediamento più popolato intorno al Monte Rovaio, le case che ci sono ancora oggi sono tipiche degli
Colle Panestra
(Daniele Saisi Foto)
alpeggi e usate saltuariamente dai proprietari, lo spigolo roccioso dov'è situata la località è chiamato Colle del Gesù. Di qui il percorso esce dalla sentieristica del C.A.I, bisogna quindi proseguire verso sinistra e fiancheggiare la sponda occidentale del monte. Il percorso è agevole fino ad arrivare a Trescola, luogo dove abitava "Mamma Viola", la donna accolse e accudì i ragazzi del Gruppo Valanga mettendo a disposizione casa, stalla e i viveri, consapevole del pericolo che stava passando nel caso in cui fosse stata scoperta dalle forze germaniche. Oggi una lapide sulla parete della casa ricorda le
Lapide sulla casa di Mamma Viola
(foto Quelli che...la montagna)
vicende drammatiche di quel tempo. Da qui il percorso si fa un po' più arduo e in alcuni tratti franoso, occhi aperti quindi. Riprendiamo dunque il cammino seguendo la propria destra cominciando così a risalire il  monte Rovaio, intraprendiamo l'ultimo tratto che terminerà poi sulla panoramica cima del monte (1060 m), qui si apre un panorama strabiliante sul gruppo delle Panie e sul profilo dell'Omo Morto. La bellezza del posto,facendo un po' di attenzione, ci riporta alla cruda realtà della guerra che fu: le postazioni delle mitragliatrici ne sono testimonianza tangibile, ecco allora che sulla cresta sommitale c'è una delle quattro postazioni di difesa dei partigiani, una al centro e le restanti agli estremi nord-ovest e sud -est, un altro avamposto di
Sommità del Rovaio
Daniele Saisi Foto
mitragliatrice si trova anche poco sotto la prima, sul fianco della montagna. Di qui si torna indietro per un breve tratto per il sentiero già percorso,  si devia poi verso sinistra in direzione Casa Bovaio, arrivati qui sembra di fare un salto indietro nel tempo, una capanna con il tetto di paglia è silenziosa testimone del tempo che passa. Siamo adesso nel versante orientale del monte, dove i partigiani tentarono la ritirata verso l'Alpe di Sant'Antonio con gravi perdite, di qui si prosegue verso Pasquigliora, di li non resta che risalire fino a Colle Panestra prendendo il sentiero C.A.I 133 e completare così l'anello. Ritornando poi in auto a Molazzana consiglio di fermarsi in paese, visitate "Il museo della II guerra mondiale".

Arriviamo poi a Borgo a Mozzano, qui a differenza del "Sentiero
Bunker Borgo a Mozzano
Paolo Marzi foto
della libertà" la natura lascia spazio all'ingegneria e all'immane lavoro degli operai della TODT. Ci troviamo davanti a delle vere e proprie opere fortificate conservate perfettamente: bunker, piazzole, camminamenti, sono ancora attestazione concreta della guerra. L'itinerario consigliabile consente prima la visita al museo della memoria e di conseguenza alle fortificazioni di Borgo a Mozzano e Anchiano. Infatti dopo aver visitato il museo, 
discendendo la strada Lodovica in direzione Lucca , si possono osservare alcuni siti del fondovalle. Lato strada sono visibili muri anticarro alti due metri e mezzo e a chiudere la valle c'erano e ci sono ancora due casematte sulla sponda destra e 
Postazioni mitragliatrice
Marzi Paolo foto
sinistra del Serchio. Con un accompagnatore del museo si possono visitare i bunker proprio della località Madonna di Mao e Pozzori. Di li in auto, ci si può dirigere verso Anchiano, dall'altra parte del fiume per percorrere le altre postazioni.

Ancora oggi forse non ci rendiamo conto di quello che successe nella nostra valle; la frenesia dei tempi moderni spesso ci offusca la mente su quello che è il nostro passato, ma basta fare una passeggiata attraverso verso questi percorsi per pensare che se oggi siamo quello che siamo lo dobbiamo in buona parte agli eventi che accaddero proprio su questi cammini.



Bibliografia:

  • "Linea gotica e sentieri di Pace nelle Api Apuane" brochure Parco delle Apuane, Apuan Alps Global Geopark e UNESCO. DICEMBRE 2018

mercoledì 9 ottobre 2019

Il delitto Pascoli: intrighi, poesia e il "nido" di Castelvecchio

Da uno schizzo di Giovanni Pascoli
"La cavalla storna"
"...Tu non sai, poverina; altri non osa. 
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise:
esso t'è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t'insegni, come...
...Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome...Sonò alto un nitrito"
Questi sono gli ultimi versi di una delle poesie più belle e famose della storia della letteratura italiana, questi sono i versi de "La cavalla storna". Giovanni Pascoli scrisse questa lirica nel 1903 in riferimento all'assassinio del padre Ruggero avvenuto il 10 agosto 1867, fu ucciso sul suo carro, sulla strada di ritorno verso casa, quando Giovanni aveva appena dodici anni. Le parole di questo componimento sono piene di angoscia e di strazio. La madre del poeta si rivolge alla cavallina che trainava il calesse quasi fosse un essere umano, cercando di scoprire nei suoi occhi chi avesse ucciso il marito, lo spaventato animale infatti è l'unico testimone dell'assassinio di Ruggero e le parole della madre alla cavalla vengono fuori in un crescendo di tensione emotiva. La rivelazione
"Mia madre alzò nel silenzio un
dito/disse un nome,
sonò alto un nitrito"
finale è scioccante, l'animale al nome presunto dell'assassino pronunciato dalla donna emette un nitrito agghiacciante...

I fatti si svolsero lontani dalla Valle del Serchio, eravamo in terra di Romagna e più precisamente sulla via Emilia, nel tragitto che va da Cesena a San Mauro. Eppure questo tragico evento con ogni probabilità fu quello che spinse il poeta nella nostra valle, alla ricerca di un nuovo e ritrovato nido familiare, che lo porterà proprio a Castelvecchio, tra i nostri monti, lontano da amari ricordi e dai probabili sicari del papà e dove potè mimetizzarsi con la sua amata natura in un luogo tranquillo dove ricostruire con la sorella Mariù e il fido cane Gulì un mondo sgretolato dal traumatico assassinio del padre. 
Lasciare per sempre la propria casa e la propria terra per chiunque sarebbe difficile e fu così sicuramente anche per il Pascoli. La motivazione come avete letto fu forte e sofferta, per quello che il tempo considerò uno dei misteri d'Italia, dal momento che il movente e le responsabilità dell' omicidio ancora oggi non sono del tutto chiari.
Per comprendere meglio l'arcano guardiamo prima chi era Ruggero
Ruggero Pascoli
Pascoli, quello che a oggi è considerato il padre più famoso della letteratura italiana. Ruggero nacque nel 1815 e nel 1855 divenne amministratore del latifondo dei Torlonia, l'uomo era impegnato politicamente, negli anni giovanili la passione politica lo portò a far parte della Repubblica Romana, tanto da diventare Capitano della Guardia Civica nel comune di San Mauro, il fallimento di questa esperienza fece calare su di se alcuni anni di oblio, per poi farlo ricomparire sempre nell'amministrazione comunale di San Mauro, prima come sindaco, poi assessore e poi come consigliere, tutto questo dal 1859 al 1867, anno della sua morte. Nella veste di amministratore delle proprietà dei Principi Torlonia, lo zelo, lo scrupolo e l'onesta contraddistinguevano il suo lavoro. 

Quel fatidico 10 agosto 1867 Ruggero si recò sul suo calesse alla

stazione di Cesena, da Roma sarebbe dovuto arrivare l'ingegner Petri, uomo dei Torlonia che avrebbe dovuto rendere ufficiale la sua nomina di amministratore. Il Petri non arrivò mai... tornando a casa senza l'uomo, sul tragitto di ritorno fu ucciso da una sola schioppettata sparata da dietro una siepe, lungo la via Emilia a circa due chilometri da casa. Alcuni abitanti del paese intercettarono la corsa della cavalla storna ormai senza guida con sopra il corpo senza vita di Ruggero. Probabilmente il suo corpo era ancora caldo quando a San Mauro cominciarono a girare le prime voci sul movente e i colpevoli dell'omicidio, anche gli stessi familiari si erano fatti un'idea: "il perchè del delitto stava nella bramosia di succedergli e di diventar ricco, dove a Ruggero Pascoli bastava restar galantuomo", queste sono le parole del Pascoli in una lettera del 1912. La morte del capofamiglia portò con sè la rovina economica di
Ruggero e tre figli.
Giacomo,Luigi
e Giovanni
tutto il nucleo familiare, la mamma Caterina e i suoi figli furono cacciati senza una lira dalle proprietà Torlonia. Da quel momento fu un susseguirsi di disgrazie e morti, negli anni immediatamente successivi si spensero, prima la sorella Margherita, la madre e altri due fratelli, Luigi e Giacomo. Nella testa di Giovanni la morte del padre fu la causa della morte degli altri fratelli: -tutta la famiglia fu spezzata, mia madre morì un anno e poco più dopo, tre fratelli più grandi di me morirono a non molta distanza-.

Nonostante le mille traversie affrontate l'obiettivo era dunque fare chiarezza su quello che secondo Giovanni avrebbe principiato tutte queste infelicità. Stando alla vox populi il mandante dell'assassinio era Pietro Cacciaguerra, un ricco possidente di un paese vicino: Savignano. La sua mira era quella di succedere nella gestione del latifondo Torlonia, posto che poteva garantirgli lauti guadagni se non fosse stato svolto in maniera limpida. I poliziotti fecero indagini superficiali e perdipiù fatte male, quasi non si volesse far luce sull'assassinio,
San Mauro Pascoli
per le autorità il delitto era ascrivibile a uno dei tanti fatti di sangue che travagliavano la Romagna post-unitaria, legato alle speculazioni del grano da parte dei proprietari terrieri. Fra le altre ipotesi fu fatta anche quella collegata al contrabbando di sale, forse era stato ucciso da qualche contrabbandiere, perchè impediva a loro di attraversare la tenuta. La più interessante fra tutte queste ipotesi rimane il movente politico (che la famiglia sempre scartò)che voleva punire un uomo che nel passato era un fervente e acceso repubblicano, ma che non esitò a passare nelle fila del neonato governo monarchico. Un traditore insomma...e in Romagna non c'era accusa più infamante che essere un traditore. A quanto pare questa accusa si lega a filo doppio con il Cacciaguerra, che usò come pretesto per alimentare una campagna diffamatoria, basando l'omicidio su moventi ideali e politici. Spieghiamoci meglio; il presunto mandante era pure lui un convinto repubblicano e come lui
La tenuta Torlonia
da questo partito venivano i due (presunti) killer: Luigi Paglierano (colui che sparò)e Michele della Rocca. Non fu quindi difficile aizzare gli animi dei compaesani contro colui (Ruggero) che in qualità di amministratore di un grande latifondo svolgeva incarichi a dir poco impopolari: l'escomio (n.d.r.: disdetta di affitto notificata ad un colono o a un mezzadro) o denunciare giovani alle autorità in età di leva, per questo motivo questa specie di "affamatore" doveva essere punito. Quello che non sfuggì a nessuno è che poco tempo dopo il crimine il Cacciaguerra prese posto come nuovo amministratore dei Torlonia, la cosa lasciò sbigottiti un po' tutti...ma in fondo questa sbigottimento era solo di facciata... Lo stesso Pascoli alcuni anni dopo in una pesantissima lettera ad un amico fece un quadro completo di quello che era il clima di quegli anni in Romagna: "La polizia seppe, probabilmente, tutto; ma non
Oggi nel Luogo esatto
dell'assassinio di Ruggero Pascoli
volle approfondire. In Romagna c'era allora uno spirito di setta, dall'apparenza politica e dalla sostanza delinquente, volgare, che era tal quale è la mafia, se non peggio. La polizia volle che l'orribile delitto rimanesse impunito. E così è rimasto. Quando giunto a una certa età, volli scoprire qualche cosa io, trovai tutte le tracce disperse, tutte le voci confuse; trovai, è spaventoso dirlo, la polizia nemica, complice postuma. E rischiai la prigione io"
.

Come detto le indagini furono condotte male e quel poco fatto si andò ad infrangere con la bocca chiusa dei sanmauresi. Nel corso
La bozza originale
de "La cavalla storna"
 a Castelvecchio
degli anni furono fatti tre processi farsa che naturalmente portarono al proscioglimento degli imputati. Il presunto mandante in questi tre processi non fu mai chiamato alla sbarra, nemmeno come testimone. Nel 1916 per decreto luogotenianzale gli incartamenti dei processi e delle indagini furono mandati al macero...

Oramai la famiglia Pascoli era isolata da tutto il resto della comunità, il silenzio omertoso dei sanmauresi dell'epoca era doloroso e frustrante. Per quello che rimaneva della vasta famiglia di Giovanni la paura la faceva da padrona, il timore di ritorsioni era tangibile, per il Pascoli fu chiaro che era arrivato il momento di cambiar aria. Il caso fece il resto. Giovanni era alla ricerca di una casa, un buen ritiro lontano da tristi ricordi e il caso di cui sopra detto ci mise lo zampino. Tutto nacque nel periodo in cui il poeta era insegnante a Livorno, due amici,  Giulio Giuliani di Filecchio (insegnante ad un liceo di Pisa) e Carlo Conti (amministratore di un collegio di Livorno) gli consigliarono di dare un'occhiata ad una casa che era proprio dalle loro parti e che forse avrebbe fatto il suo caso. Si recò così per la prima volta a Castelvecchio nel mese di
Castelvecchio. Casa Pascoli
settembre del 1895 a visitare una villa settecentesca di proprietà della famiglia Cardosi-Carrara. Al tempo non era facile raggiungere la nostra valle, la ferrovia si fermava a Lucca e il Pascoli si fece ben cinque ore di carrozza, ma ciò non importava, anzi era proprio quello che cercava. Ad ottobre del medesimo anno Giovanni con la sorella Mariù si trasferì a Castelvecchio, non scelse un giorno a caso, scelse il 15 di ottobre, il giorno della nascita di Virgilio, suo modello di poeta. Pascoli scelse quel giorno come sua seconda nascita, un nuovo inizio.


Bibliografia

  • "La cavalla storna" Giovanni Pascoli (Canti di Castelvecchio) Zanichelli 1907
  • "Il delitto Pascoli, fra storia e poesia" di Alice Cencetti . Aprile 1912

mercoledì 2 ottobre 2019

Quale fu la sorte dei Liguri Apuani dopo la deportazione nel Sannio? Una fine che nessuno avrebbe mai immaginato...

Sinceramente non ne capisco molto...anzi nulla..: genetica, D.N.A,
Guerriero di Casaselvatica
 (Berceto,Parma)
cromosomi e "diavolerie" varie... ma facendo due "calcoli" per approssimazione(molta), e conoscendo un po' di storia posso affermare che nelle nostre vene del tanto sbandierato sangue apuano ce n'è ben poco. Ci sentiamo orgogliosi discendenti del fiero popolo dei liguri apuani, 
i primi veri abitanti della Garfagnana che qui si insediarono già dall'età del ferro e che più volte respinsero gli attacchi della potente Roma, ed è giusto così per l'amor di Dio, ma io credo, a mio modesto avviso, che nelle maggior parte di noi, nelle nostre vene scorra anche e sopratutto il sangue di quei coloni romani che presero possesso di queste terre dopo la deportazione degli Apuani stessi. Perchè se dovessimo cercare il D.N.A di un apuano, forse non lo troveremo solo in Garfagnana e in Lunigiana, ma sicuramente nella provincia di Benevento e Avellino precisamente seguendo il Regio Tratturo Pescaseroli-Candela che attraversa i territori di Morcone del Sannio, Circello e Reino. Non è una favola, ma una cruda realtà intrisa di sangue... e in effetti qualcuno poi quel sangue l'ha cercato veramente... È di questi ultimi anni la pubblicazione di uno studio genetico su alcune popolazioni italiane: "Linguistic, geographic and genetic isolation: a collaborative study of italian populations"  che afferma che sono state fatte analisi genetiche che paragonano la popolazione attuale di Vagli (zona di stanziamenti apuani)agli abitanti di Circello nel beneventano,
La campagna di Circello
 (Benevento)
(luogo di arrivo dopo la deportazione). Ebbene si, analizzando il DNA Y e mitocondriale delle linee maschili e femminili si è visto che i risultati sono in accordo con una storia genetica delle due comunità , secondo il modello LLM (Ligures Legacy Model). La conclusione dello studio è che non si può affatto escludere che gli abitanti di Circello siano in effetti (almeno in parte) discendenti degli apuani. 

Insomma, tutta questa intrigante teoria per continuare a raccontare quello che capitò agli antichi garfagnini dopo la deportazione nel Sannio. Già scrissi tempo fa un interessante articolo sui tristi fatti che portarono all'esilio di questo indomito popolo (per chi lo volesse leggere clicchi qui: http://paolomarzi.blogspot.com/la-tragica-deportazione-di-un-popolo.html)... ma dopo che successe? Come se la passarono questi guerrieri? Cosa capitò a questa gente? Fecero la pietosa fine degli Indiani d'America? O la sorte fu più benevola nella lontana Campania? Analizziamo quello che fu secondo alcuni esimi studiosi.
"I Liguri prima che i consoli arrivassero non si aspettavano affatto
di dover riaprire le ostilità e, colti di sorpresa, si arresero in circa dodicimila. Cornelio e Bebio, dopo aver sentito l’orientamento del senato tramite lettere, decisero di farli scendere dalle montagne nella pianura, molto lontani dalle loro sedi, per intercludere loro qualsiasi prospettiva di ritorno...I romani possedevano una porzione di agro pubblico in territorio sannita, che era appartenuto ai Taurasini. Era lì che volevano trasferire i Liguri Apuani e a questo scopo bandirono un editto che li obbligava a scendere dai monti con le mogli e i figli portando con sé ogni loro bene. I Liguri più e più volte scongiurarono Bebio e Cornelio per mezzo di loro legati di non essere costretti a lasciare i loro penati, la patria in cui erano nati, i sepolcri degli antenati e si impegnavano a consegnare armi e ostaggi. Non ottennero nulla e, d’altra parte, non avevano le risorse per riaprire il conflitto e così finirono per obbedire all’editto". Così lo storico romano Tito Livio racconta il momento della resa totale dei Liguri Apuani. Era l'inizio della primavera del 180 a.C, l'inizio della fine dei Liguri Apuani. La deportazione assunse dimensioni bibliche e quello che infatti salta subito
all'occhio sono i numeri. Per alcuni storici prudenti la cifra di quarantamila deportati riportata da Tito Livio sarebbe comprensiva di donne e bambini che a quanto pare corrisponderebbe alla cifra di dodicimila guerrieri arresisi. Altri però parlano di numeri ben più impressionanti come lo storico Jhon Briscoe che nel passo in cui Tito Livio scrive "...cum feminis puerisque..." dice che non si può intendere con donne e bambini, ma bensì "insieme alle loro donne e bambini", ecco che allora i numeri si moltiplicherebbero raggiungendo la spaventosa cifra di centoventimila unità. 
Ma non finì qui, l'ultima stoccata ad ogni resistenza apuana fu data poi nello stesso anno da il console romano Fulvio Flacco, da Pisa marciò con due legioni dai Liguri Apuani che abitavano nella zona del fiume Magra, dove costrinse alle resa altri settemila uomini. 
L'impresa più grande dei proconsoli romani Cornelio e Bebio però doveva ancora cominciare, c'era da trasferire questa moltitudine di persone attraverso buona parte d'Italia, un' impresa epica a cui era impossibile sottrarsi, era evidente che senza sorveglianza militare la mesta colonna degli Apuani si sarebbe assottigliata, per non dire proprio dissolta, senza considerare poi il fatto della possibilità di mettere in pericolo i territori attraversati. Per gli Apuani catturati presso il fiume Magra la loro sorte fu diversa, la loro deportazione fu effettuata via mare, furono fatti salire su navi
romane e sbarcati a Napoli. A dare la misura dell'impressionante sforzo logistico di tale esodo basta fare un raffronto con quello che fu poi la colonizzazione romana nelle terre di Garfagnana, Lunigiana e dintorni, a spostarsi infatti furono (secondo lo studioso Cornell) 71.300 maschi adulti nell'arco di settant'anni (fondatori di diciannove colonie), al massimo in una volta sola si trasferirono seimila famiglie...
Intanto nel lontano Sannio si stava preparando tutto per accogliere i nuovi abitanti, il senato inviò in quei luoghi una delegazione che presiedesse alle assegnazioni delle terre, in più fu stanziata una somma pari centocinquantamila denari perchè nelle nuove sedi gli Apuani potessero procurarsi tutto il necessario per vivere. Su questa presunta benevolenza romana si sono sviluppate interessanti tesi che clamorosamente dicono che non fu deportazione, ma bensì un semplice trasferimento frutto di una trattativa diplomatica fra romani e Apuani. La teoria è avanzata dal professor Alberto Barzanò, ricercatore di storia romana nonchè docente dell'Università cattolica del Sacro Cuore, che asserisce che le parole di Tito Livio (quelle qui sopra riportate) non sono altro che da considerarsi una manipolazione letteraria del tempo, per meglio capirsi tutto fu scritto per rendere esclusivamente gloria ai due proconsoli Bebio e Cornelio, poichè ci sono alcuni fatti che non
Mappa stanziamento
 apuano nel Sannio
coincidono con quello che era la realtà romana del tempo, infatti la distribuzione delle terre agli Apuani fu gestita nello stesso modo che era riservato ai cittadini di Roma, ma non solo, la ragguardevole cifra di denari stanziata dal Senato per avviarsi a una nuova vita 
-sarebbero concessioni strabilianti- così afferma l'illustre professore, che continua dicendo che- è probabile che i trasferiti (n.d.r: non i deportati)non fossero poi così scontenti della loro sorte- ed effettivamente due erano le ragioni che allettavano particolarmente gli antichi "garfagnini" e cioè la possibilità di arruolarsi nelle file dell'esercito romano, d'altronde loro erano guerrieri abituati a vivere combattendo, per di più la paga sarebbe stata anche superiore a quello di un soldato romano, a sostegno di questa teoria il IV libro di Polibio (storico greco)dice che -mentre agli alleati la razione di grano era concessa, gratuitamente, ai romani il questore ne scalava il prezzo dalla paga- questa distinzione esisteva perchè la scelta di fare parte dell'esercito di Roma (per quelli che non erano cittadini dell'Urbe) era una scelta volontaria e quindi considerata come professione, pertanto retribuita maggiormente. L'altro motivo consolatorio di questa
deportazione-trasferimento fu la concessione di terre migliori, adatte a raccolti agricoli di tutto rispetto.
In conclusione quella che per i nostri Liguri Apuani sembrò una mezza vittoria o per meglio dire un appagamento, la storia con i secoli dirà che fu un ennesimo trionfo romano, diplomatico, strategico e sopratutto finanziario. Non so quindi dirvi se fu realmente trasferimento o deportazione (com'è dibattuto fra storici di tutto rispetto), quello che posso analizzare sono i fatti. I romani nel 180 a.C fecero arrendere gli Apuani con "nullo bello gesto", ovverosia senza aver condotto nessuna battaglia, inoltre gli illusi Apuani finirono nel tempo per diventare veri e propri cittadini dell'impero, per sempre cessò la loro vita di guerrieri liberi dal momento che erano entrati a far parte di uno Stato vero e proprio con obblighi militari e sopratutto obblighi fiscali (le tasse romane erano salatissime!). La vittoria romana fu di conseguenza doppia, essi non si comportarono come gli sciocchi americani che rilegarono gli indiani nelle riserve
lasciandoli a sopravvivere o a vivere di stenti, tutt'altro, da una parte le terre liberate dal nemico (Garfagnana e Lunigiana) furono occupate da nuovi coloni pronti di conseguenza a pagare nuove tasse, dall'altra il nemico fu trasformato in "amico" rendendolo cittadino a tutti gli effetti e se da una parte aveva dei sacrosanti diritti, dall'altra come gli altri cittadini sarebbe stato pronto anch'esso a combattere per la gloria di Roma, ma sopratutto pronto a pagare ennesimi e salati tributi...



Bibliografia:

  • "Ab urbe condita" Tito livio
  • Marginalità ed integrazione dei liguri apuani: una deportazione umanitaria?" Jhon Thornton 1992
  • "Linguistic, geographic and genetic isolation: a collaborative study of italian populations"