mercoledì 24 giugno 2020

Quando in Garfagnana eravamo dei briganti... Alle origini del misfatto

Costa da Ponteccio, il Pelegrin del Sillico, Virgilio da Castagneto
, Filippo Pacchione, Battistino e Bernardello da Magnano, nonchè Bastiano Coiaio. Questo elenco di persone non si riferisce certo a dei pii uomini di qualche ordine francescano, tutt'altro, erano fra i più spietati briganti che la Garfagnana abbia mai conosciuto. A guardare oggi la nostra valle e a coloro che la abitano è difficile pensare che la Garfagnana sia stata secoli fa terra di briganti. La pacifica gente che ora vi dimora sono i discendenti dei sopra citati manigoldi, che niente avevano da invidiare agli attuali seguaci delle associazioni a delinquere che sono in Italia. Eppure era così, così come è vero ed è giusto dire che l'apice di questo fenomeno fu toccato ben 500 anni or sono. Semmai vi fossero ancora dubbi su quanto la Garfagnana fosse una regione ostile ed al quanto difficile da gestire, possiamo citare la testimonianza di Guido Postumo, governatore della Garfagnana nel 1512. La lettera fu inviata al cardinale Ippolito d'Este: "Quella Vostra Signoria mi mandò qua per le occurrentie de questa provincia, la quale ho gubernato cum sincera fede et non ho manchà in cosa
alcuna, in modo che, o per la fatica o per altro, mi sono infirmato di una febra continua, trista, che non me movo da lecto, che invero non sono più bono per lo paese per la infermità mia, e più presto sono per nocere per la fama ch'io sia malato; et perché etiam io vado di male in pezo, et certo in pochi dì, per li gran fastidi ch'io ho da questi homini inobedienti, e per lo mal grande io ho, gie lasserò la vita, se Vostra Signoria non mi remove da qua". Il governatore è malato e la causa della sua malattia sono "questi homini inobedienti" e se qualora non venisse rimossò da queste terre "gie lasserò la vita". Ma perchè eravamo così tremendi e terribili? Quali furono le cause che ci portarono a diventare dei briganti crudeli e spietati? Analizziamo allora dove ebbe origine il male.
Il brigantaggio garfagnino affonda le sue radici nella povertà e nella miseria più nera. All'inizio ci fu una forte complicità fra il misero e il signore locale, un'intensa connivenza che con il
Connivenze fra briganti
 e signori locali
tempo assunse una forza tale da vincere lo Stato stesso, tanto da permettere a questa gente di farsi leggi e regole per conto proprio. Uno stato debole dunque, che con gli anni capì che questa gente era meglio farsela (segretamente) amica, anzichè nemica... questo atto fu "la benedizione" del brigantaggio garfagnino che cominciò a spadroneggiare in lungo e largo. Qualcuno al tempo nella corte estense si accorse dell'errore e invece di battersi il petto  e recitare il "mea culpa" cercò di "lavarsi l'anima" come meglio poteva. Certe relazioni di funzionari, infatti tentarono di attribuire il fenomeno all'indole della popolazione, non accorgendosi poi che la politica che stavano portando avanti avrebbe ancor di più ingrossato le fila di questi biechi malviventi. D'altronde le tasse erano diventate altissime e cieche, e andavano a colpire proprio una popolazione già di per sè povera, la stessa
La reggia estense di Ferrara
amministrazione della giustizia aveva grandi lacune, si mostrava infatti forte con i deboli e debole con i forti e in più esisteva un forte pregiudizio sul garfagnino, la sua terra dallo stato stesso era considerata un territorio di serie B, abitato da semplici montanari e da ignoranti pastori, senza dire poi che la conformità della montagna era luogo ideale per imboscate e allo stesso tempo era l'ambiente perfetto per nascondersi o rifugiarsi. Insomma, nonostante qualsiasi analisi fosse stata fatta al tempo, si può dire che il gioco era fatto: da uno parte avevamo uno stato complice e dall'altra c'era un popolo scontento del proprio governo. A godere a pieno di questa situazione erano i briganti che per i popolani erano dei giustizieri e dei vendicatori di un'inetto stato, come pure dei benefattori che sapevano furbescamente ingraziarsi la gente facendo delle regalie (sopratutto cibarie)distribuendole a destra e a manca. Dall'altra parte invece quali potevano essere i vantaggi che il governo estense poteva ottenere da questi farabutti? Naturalmente l'impunità di
La fortezza delle Verrucole che
 i briganti difesero per
conto degli Estensi
questi ribaldi aveva un prezzo. Giust'appunto molti briganti nostrali furono assoldati come mercenari nell'esercito estense, più di una volta i briganti non esitarono a difendere le effigia ducali, come nel caso della guerra che consentì ai duchi estensi di riappropriarsi di Reggio Emilia, o perchè non ricordare di quando i briganti difesero la Fortezza delle Verrucole dagli attacchi delle truppe di Papa Leone X? Mettiamoci allora nei panni di quei poveri governatori della Garfagnana che erano costretti a negoziare continuamente con il duca i margini della propria autorità. Nella maggior parte dei casi il duca invitava proprio ad una certa moderazione su questi personaggi e quando il governatore calcava (giustamente) un po' la mano ci pensava proprio il duca in persona, come quella volta che nel 1523 il Moro del Sillico fu arrestato e poco dopo fatto evadere con la complicità delle guardie, ottenendo poi dal regnante di casa
Il Sillico il paese del Moro
estense, prima la grazia e poi un nuovo contratto da mercenario. Malgrado questi intrighi e raggiri è giusto delineare bene la figura del brigante. Era un criminale o un Robin Hood? Per sgombrare ogni dubbio il brigante era colui che viveva di rapine, era un bandito, un masnadiere, un soldato mercenario che imperversava nella valle, ognuno nella sua zona di appartenenza. Tutto questo lo capì perfettamente e più di qualsiasi altra persona Messer Lodovico Ariosto, governatore di Garfagnana dal 1522 al 1525.In Garfagnana però non c'era tempo per fare il poeta, il suo compito principale fu quello di estirpare il brigantaggio da queste terre e si può dire senza ombra di dubbio che cercò di fare il possibile e anche di più per assolvere al meglio il suo dovere. Con il dovuto rispetto lo potremmo paragonare ad un Giovanni Falcone "ante litteram", fu un'attento analista dei (mis)fatti garfagnini e delle dinamiche politiche e sociali che lo circondavano: "Ogni terra in se stessa alza le corna, che sono ottantre, tutte partite, da la sedizion che ci circonda" . Ottantatre comunità "in sedizion",
Ludovico Ariosto
ovvero lo scontro fra le parti, è il primo e principale problema con cui si scontrò l'Ariosto al suo arrivo in Garfagnana e in una sua lettera inviata agli anziani di Lucca il poeta aveva già ben chiaro il quadro della situazione: "Di tutte queste montagne li assassini et omini di mala conditione sono signori, e non il papa, nè i fiorentini, nè il mio Signore, nè vostra Signoria". Significativa è la lettera che scrisse poi al Duca, è il 29 novembre 1522: "... questo poveromo che è stato rubato, prima che sia venuto da me, è stato dal figliolo e dal nipote di Bastiano Coiaio (n.d.r: noto brigante) e da Ser Evangelista, a provare se per mezzo loro potesse riavere la sua roba, non avendo potuto far niente è ricorso da me". I garfagnini quindi sapevano bene e bene avevano chiaro quali erano i rapporti di forza. Rapporti che erano regolati dai leader di fazioni opposte che regnavano incontrastati per l'assenza di un'aristocrazia radicata capace di controllare il territorio. Un vuoto di potere assordante che se associato agli scarsi mezzi repressivi messi a disposizione dagli ufficiali del governo consegnò di fatto ai capi delle famiglie (di briganti) più importanti il ruolo di regolatori di conflitti e di garanti della pace. Queste famiglie costituirono con il passare degli anni una vera e propria mappa del potere, ogni famiglia era suddivisa in
Banda di briganti
bande (composte più o meno da una quindicina di elementi) e ognuna di queste bande controllava una parte di territorio, naturalmente come sempre succede anche questa volta il connubio politica-potere andò a braccetto, ogni fazione era legata ad una parte politica a cui fare riferimento. Tutto questo lo svelò (proprio come fece Falcone 500 anni dopo con le cupole mafiose) Ludovico Ariosto che delineò un rigoroso quadro delle famiglie (di briganti) presenti in Garfagnana, suddividendole proprio per fazioni politiche. Esistevano quindi due parti, una denominata "italiana", favorevole alla Chiesa e a Firenze e una cosiddetta "francese", favorevole agli Estensi, che era tradizionalmente legata alla politica francese. La parte "italiana" era guidata da Pierino Magnano, Tommaso Micotti e Bastiano Coiaio e aveva il suo braccio armato in diverse bande, fra le quali spiccava quella del Moro del Sillico e dei suoi fratelli. Altre bande armate invece erano all'interno della giurisdizione estense e sia nei territori di Firenze che in quello della Chiesa curavano gli affari delle fazioni più lontane. La parte "francese",

era altresì guidata dai Ponticelli e dai Sandonnini. Per ben capire, entrambi le parti agivano su diversi livelli, da quello puramente criminale a quello istituzionale, dove cercavano di ricoprire il più possibile cariche pubbliche attraverso una miscela di consenso e minacce. Di fronte ad un quadro generale così disperato non rimaneva che un'unica soluzione, repressione totale e così l'Ariosto scriveva: " Metter le mani addosso a' loro padri, fratelli e parenti, e non li lasciare che non diano sicurtà che non torneranno li malfattori nel paese. A quelli che non hanno padre, saccheggiare le case, e poi arderle e spianare, tagliar le viti e gli arbori (n.d.r.: alberi)e distruggerli loro luoghi, ch'ogni modo non si potria trovar chi li comprasse. Poi saria bene battere per terra tutti li campanili, o vero aprirli, di sorte che potessino dar ricorso alli delinquenti et similiter le  rocche che vostra eccellenza non vuol far guardare". Certo, il duca nascondeva questi malfattori nelle proprie fortezze e come fare allora se oltre a questo al povero governatore venivano negati anche i soldati per attuare questo drastico piano?: "Io non cesso di pensare e di fantasticare come senza spesa del Signore Nostro io possi accrescere le mie forze, per fare che almeno questi ribaldi abbian paura di
Fanti rinascimentali
me"
. La richiesta di fanti fu esplicita, peraltro molto più utili di quei solo dodici balestrieri che erano a disposizione, questi fanti nei terreni accidentati e nelle profonde gole garfagnine infatti erano i più adatti, ma non furono inviati negli uni e ne gli altri. Per l'Ariosto questa mutilazione della sua autorità fu un problema non solo politico ma anche umano, senza l'appoggio del duca la sua figura perdeva di valore, essendo così alla mercè dei fuorilegge. Il suo morale era quindi "sotto i tacchi", tanto che arrivò ad ipotizzare di fuggire di notte per trovare rifugio a Ferrara. Non lo farà, ma in una lettera del 15 gennaio 1524 fece come il suo predecessore Guido Postumo, la richiesta fu la medesima che il suo collega aveva fatto dodici anni prima:"Se vostra eccelenzia non mi aiuta a difender l'onor de l'officio, io per me non ho la forza di farlo; che se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubidiscano, e poi vostra eccellenzia li assolva, o determina in modo che mostri di dar più
La Rocca a Castelnuovo
dove abitava l'Ariosto
lor ragione che a me, essa viene a dar aiuto a deprimere l'autorità del magistro. Io vo' gridare a farne istanzia, e pregare e suplicare vostra eccelenzia che più presto mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna"
.

Francesco Saverio Sipari (politico, poeta e scrittore del XIX secolo) parlando del brigantaggio in generale ebbe a dire che tale fenomeno si sarebbe esaurito con la rottura dell'isolamento delle regioni dimenticate, che in buona parte era dovuto dall'assenza di una rete infrastrutturale adeguata, di strade, di ferrovie e sopratutto d'istruzione. Così fu per la Garfagnana, man mano che i secoli passavano la valle cominciò ad aprirsi al mondo e più si apriva e più i briganti sparivano. Così il libro vinse per sempre sullo schioppo...




Bibliografia 
  • Dalla corte alla selva e ritorno: Ariosto in Garfagnana La Garfagnana: relazioni e conflitti nei secoli con gli Stati e i territori confinanti. Atti del Convegno tenuto a Castelnuovo di Garfagnana, Rocca Ariostesca, 9 e 10 settembre 2017, a cura di G. Bertuzzi, Modena, Aedes Muratoriana, 2018

mercoledì 17 giugno 2020

Apuane "letterarie"... Viaggio fra coloro che ne decantarono le sue bellezze

Basta alzare gli occhi verso le montagne per rendersi conto di
vivere dentro una culla. Del resto questa è la Garfagnana, uno scrigno racchiuso: da una parte gli Appennini e dall'altra le Alpi Apuane, un territorio appartato e orgoglioso, quasi isolato dal resto della Toscana, abitato da gente fiera delle sue millenarie tradizioni, fiera della propria storia e fiera sopratutto dei suoi monti: le Apuane. La loro bellezza ed unicità ha ispirato leggende, storie fantastiche, scritti e meravigliosi poemi, tramandati nei secoli nelle parole di nobili poeti, scienziati o semplici narratori, più o meno noti. La loro descrizione più alta la da il poeta e scrittore Tommaso Landolfi che le ha definite "I più bei monti formati da Dio". Il sommo poeta Dante Alighieri invece le nomina facendo riferimento agli inferi e nel XXXII canto dell'inferno de "La Divina Commedia"(1321) così dice: "E sotto i piedi un
32° canto dell'inferno
lago che, per gielo, avea di vetro e non d'acqua sembiante, Che se Tambernicchi vi fosse sù caduto o Pietrapana non avria pur dall'orlo fatto cricchi"
. Qui, in questo verso si parla del Cocito, un lago ghiacciato situato sul fondo dell'inferno, luogo dove vengono puniti i traditori. Si dice che lo spessore del ghiaccio di questo lago sia talmente alto che non avrebbe fatto nemmeno una crepa se sopra vi fossero crollate la Pania (Pietrapana) e la Tambura (Tambernicchi). Anche un suo contemporaneo Giovanni Boccaccio parla della Pania in una sua opera minore: "De montibus, silvis, fontibus, stagnis seu paludis et de nominibus maris liber". Siamo nel 1360 e l'opera non ha la bellezza dei danteschi versi, poichè vi vengono citate in un repertorio ordinato alfabeticamente, nomi geografici ricorrenti in opere
Giovanni Boccaccio
latine:
"Petra Appuana mons est olim Gallorum Frimenatum ab initio Apoenini in agrum Lucensium protensus, hinc Ligustinum Tuscumque mare et veterem Lunam civitatem, indi Pistoriensium et Florentinorum campos aspiciens et procurrentia in euroaustrum Apoenini iuga, rigens fere nive perpetua, et a quo quondam Apuani nominati sunt Galli", ossia: "il monte Pietra Apuana è proteso dall’inizio dell’Appennino dei già Liguri Friniati verso la pianura lucchese e da qua verso il mare Ligure e Tirreno e la vecchia città di Luni, quindi guarda verso la piana pistoiese e quella fiorentina e si avanza verso i gioghi dell’Appennino sud-orientale, è fredda quasi per neve perpetua e dal suo nome i Galli furono chiamati Apuani". Il passare dei secoli ci porta bensì in pieno rinascimento e a lui, il Governatore della Garfagnana per
Procinto
eccellenza, l'autore del "L'Orlando Furioso", Ludovico Ariosto: "La nuda Pania tra l'Aurora e il noto, da altre parti il giogo mi circonda che fa d'un pellegrin la gloria noto", così nella IV Satira. E' il 1523 e qui la Pania è descritta come se fosse un giogo sulle spalle del poeta, costretto a vivere confinato in una regione a lui ostile. Le sue inquietudini si riflettono anche su un monte della Apuane in particolare: il Procinto, tanto da definirlo "la dimora del sospetto": "Lo scoglio, ove 'l sospetto fa soggiorno e dal mar alto da seicento braccia di rovinose balze cinto intorno e da ogni canto di cader minaccia il più stretto sentier che vada al Forno la dove il Garfagnino il ferro caccia, la via Flaminia o l'Appia nomar voglio verso quel che dal mar in cima al scoglio" . Sempre nel medesimo periodo storico Michelangelo Buonarroti sta facendo "faville". Nel 1501 ha già creato opere d'arte di sublime bellezza: La Pietà e il David. Il marmo con cui vengono fatte queste immortali sculture viene dalle Apuane (Monte Altissimo), dove lì si dannerà l'anima per circa due anni a "domesticare i monti e
La Pietà
ammaestrare gli uomini".

Dopo il periodo degli artisti e dei poeti arrivò il momento di naturalisti e scienziati.
E' la fine del 1600 quando Pier Antonio Micheli (botanico italiano, la cui statua è situata fuori dagli Uffizi) arriva alle pendici della Pania e di li comincia la salita nei suoi versanti scoscesi alla ricerca dell'Elleboro, pianta considerata ottima come rimedio alla follia: "Colse adunque la congiuntura di tre giorni festivi di seguito nel mese d'agosto, e si portò velocissimamente a piedi, con solo cinque paoli in tasca, e pochi quaderni di carta sugante, fino alla più alta cima della scoscesa Pietra Pana, appena accessibile alle capre, ed ivi gli riuscì trovare in abbondanza il desiderato Elleboro". Nel 1743 è Lazzaro Spallanzani (colui a cui è stato dedicato il famoso
Pania della Croce
(foto Daniele Saisi)
ospedale di Roma, celebre per le note vicende del Coronavirus) ad arrivare sulle Apuane, lo scienziato è venuto a studiare la conformazione dei monti, per lui sembrano "delle ossa spolpate". Ma è il geografo Emanuele Repetti nel 1845 che ne da la similitudine più suggestiva definendole: "un mare in tempesta immediatamente pietrificato".

Arriva poi il XIX secolo, il secolo degli alpinisti, delle prime risalite, il secolo della nascita del C.A.I (Club Alpino Italiano). Nel 1883 il celebre alpinista scozzese Francis Fox Tuckett sale sulla Pania e al riguardo scrive un articolo: "La descrizione molto affascinante di W. D. Freshfield riguardo alle “Alpi Apuane”, e alla scalata che egli ha compiuto sulla Pania della Croce... mi ha reso impaziente di curiosare su e giù per questo amabile massiccio..". Gustavo Dalgas ricorda in questo modo una delle sue cinque salite verso il medesimo monte: "...basta pensare che questo pizzo, unico fra i suoi anche un poco più elevati confratelli, si scorge contemporaneamente da Viareggio, da Lucca, da Pisa, da Livorno, da Volterra, da Siena, da Firenze, dalla valle
Pania della Croce
(foto di Maxzina)
inferiore dell’Arno e dalle pianure di Maremma fino al monte Argentaro, per farsi idea della vastità del panorama terrestre che esso domina, mentre gli si apre dinanzi vastissima distesa di mare, in cui si scorgono disseminate le isole dell’arcipelago Toscano fino alla Corsica, e l’osservatore mira ai suoi piedi, come una mappa dispiegata, il golfo della Spezia...".

Fra corsi e ricorsi storici ritornò poi anche il tempo dei poeti...e che poeti !!!
"Occhio l'amor delle Apuane cime Natie libere: ardea nobile augello, in tra le folgori a vol tender su' nembi". Il verso è tratto dalla raccolta di poesie "Levia Gravia" (1868) di Giosuè Carducci, d'altra parte il poeta quello che vede dalla sua finestra di casa(Valdicastello) sono proprio le Apuane. Carducci dunque vi nacque all'ombra di questi monti, lo studente e poi amico Giovanni Pascoli invece vi si trasferisce (Castelvecchio), scrivendo poi una poesia dal titolo "La Pania"(1907): "Su la nebbia che fuma dal sonoro/Serchio, leva la Pania alto la fronte/nel sereno: un aguzzo
La Pania dal giardino
di casa Pascoli
blocco d’oro, 
/su cui piovano petali di rose/appassite. Io che l’amo, il vecchio monte,/gli parlo ogni alba, e molte dolci cose/gli dico:/O monte, che regni tra il fumo/del nembo, e tra il lume degli astri,/tu nutri nei poggi il profumo/di timi, di mente e mentastri...". Nel suo villeggiare per la Versilia nemmeno il Vate,Gabriele D'Annunzio è potuto sfuggire alla loro bellezza. Diverse sono le citazioni che gli ha riservato, ma fra le più belle rimane questa:"Marmorea colonna di minaccevoli punte, le grandi Alpi Apuane regnano il regno amaro, dal loro orgoglio assunte" (Meriggio 1903).
In conclusione bisogna dire che furono in molti fra i personaggi illustri a scrivere di Alpi Apuane, impossibile citarli tutti, ma le ultime righe di questo articolo sono per Fosco Maraini, scrittore insigne, viaggiatore e profondo conoscitore delle culture di tutto il mondo. Era nato a Firenze, ma le sue estati le passava a Pasquigliora, quattro case nel comune di Molazzana. Li, nonostante che i suoi occhi avessero visto tutto il mondo, tornava sempre a
contemplare quei magnifici monti e ricordava sempre la prima volta che li conobbe, ed al suo accompagnatore così domandò: "Che sono quei monti?" chiesi molto incuriosito, quasi impaurito. "Sono le Alpi Apuane", mi fu spiegato. Ammirai a lungo lo spettacolo inconsueto che mi faceva pensare, non so perché, alla creazione del mondo, terre ancora da plasmare che emergevano da un vuoto sconfinato, color dell'incendio".

mercoledì 10 giugno 2020

Quando in Garfagnana la bandiera non era quella italiana... Ecco allora quali erano le tre bandiere...

Certo si fa presto a dire bandiera, ma quel pezzo di stoffa sventolante ha significati ben profondi è la più alta espressione dell'identità di una nazione, anche se ad onor del vero nacque in ambito militare per distinguere le proprie truppe da quelle nemiche, comunque sia anche li assumeva il solito significato: uniti, insieme nel medesimo scopo. D'altronde una bandiera che simboleggi una nazione, una città o una squadra di calcio, questo semplice drappo colorato scatena sempre delle forti emozioni e un grande senso di appartenenza e pensare che la prima canzone dedicata al nostro amato tricolore ha ben 161 anni e pressapoco diceva così: "La bandiera dei tre colori è sempre stata la più bella, noi vogliamo sempre quella, noi vogliam la libertà". Era il lontano 1859, quando sul suolo patrio riecheggiavano le note di questa risorgimentale canzone. Due anni dopo quel componimento, circa 22 milioni di anime per la prima volta si ritrovarono uniti sotto quell'unica bandiera. Ma prima d'allora l'italiano a quale bandiera doveva dare onore? Sicuramente a quella del proprio stato d'appartenenza e nell'anno che fu composto questo canto ce n'erano ben sette che non si chiamavano
Il primo tricolore del 1797
Italia... A quel tempo poi, in Garfagnana se ci affacciavamo dalle finestre di casa di quei sette vessilli
 ne potevamo vedere ben tre, ognuno di essi rappresentava uno stato diverso. Quanto poi i nostri avi sentissero il senso d'appartenenza (credo poco...) a queste bandiere non lo saprei dire, ma quello che è indubbio è che la nostra valle era il crocevia di tre stati preunitari e proprio a Gallicano c'era la confluenza di questi tre: la Repubblica Lucca, il Ducato di Modena e il Granducato di Toscana. 
Gallicano (con vicende alterne), Castiglione Garfagnana (con una piccolissima parentesi fiorentina) e Minucciano facevano parte della Repubblica di Lucca, Barga già dal 1331 era sotto la potente
La mappa degli Stati Estensi 1850
famiglia Medici e il resto della Garfagnana era assoggettata dagli Este di Modena e ognuno di questi paesi e di queste terre era sotto la bandiera di questi stati. D'altra parte per capire bene quanto i suddetti Stati fossero lontani dagli ideali e dai pensieri della gente garfagnina di quel tempo (e non solo da quella garfagnina) basta analizzare il significato delle loro bandiere e sopratutto la loro evoluzione, questo fa capire la voglia e la bramosia di riconoscersi unicamente sotto un'unica insegna.

Le bandiere non rimangono sempre le solite e cambiano secondo gli eventi storici che si susseguono negli anni. Il più chiaro esempio l'abbiamo con il nostro tricolore, fino al 1946 al centro della nostra bandiera campeggiava lo stemma di Casa Savoia, con il
L'evoluzione della bandiera italiana
referendum del 2 giugno e la caduta della monarchia decade la casata e con essa anche lo stemma sulla bandiera. Quindi anche le bandiere subiscono dei mutamenti, così come fu per il vessillo del Ducato di Modena e Reggio e se tutto fosse rimasto immutato in buona parte della Garfagnana al posto del bianco, rosso e verde avremmo inizialmente avuto un'aquila (d'argento) estense in campo azzurro, questa era risalente al

primissimo stemma della dinastia (ai tempi del marchese Rinaldo (1168) e la bandiera in questione fu adottata nel 1598 con la costituzione del regno e perdurò fino al 1796, quando poi Napoleone entrò di prepotenza sia sul palcoscenico della storia che in Italia, dove abolì (anche) questa  bandiera. Questo fino al 1814, quando terminate le scorribande napoleoniche tale bandiera tornò a sventolare per una quindici d'anni. Nel 1830 ecco il cambiamento, la bandiera di stato prenderà le sembianze di quella austriaca, il rosso e il bianco saranno i colori principali. D'altronde c'era poco da fare, dopo la restaurazione la lunga mano dell'Austria si allungherà sulla Penisola italica. Difatti nel 1803 con la morte di Ercole III(ultimo duca di Modena e Reggio) e il
susseguente matrimonio di sua figlia Maria Beatrice Ricciarda d'Este con Francesco d'Austria ebbe inizio il nobile ramo degli Asburgo d'Este. Nella nuova bandiera si fonderanno (come detto) i colori austriaci con quelli estensi bianco e azzurro, al centro avremmo lo stemma ducale con le armi d'Asburgo d'Austria, di Lorena e d'Este. Arrivò però anche il fatidico 1859, il duca austriaco fu deposto, la bandiera sparì e nel 1860 il ducato fu annesso al Regno di Sardegna.
L'enclave fiorentino di Barga in fatto di bandiere (di stato) ebbe storia più difficile, sotto il proprio naso ne vide passare quattro. Chissà che confusione per i poveri barghigiani. D'altra parte la cittadina era fiorentina dal 1331 e in mezzo secolo di "fiorentinità" molte cose cambiano, figuriamoci le bandiere. La prima risalente al Granducato di Toscana è del 1562 e durerà per 175 anni. Il vessillo se si vuole è abbastanza semplice: lo scudo mediceo(con tutti i suoi significati) spicca su un fondo bianco. Nel 1737 fu sostituita da una bandiera di "transizione" detta appunto "di Toscana",
probabilmente ciò avvenne tra l'avvento dei Lorena e l'introduzione delle bandiere imperiali da parte di Francesco II, questa se si vuole somiglia alle attuali bandiere dei paesi del nord Europa,la sua croce ha forse origine da quella dell'ordine di Santo Stefano, per allungamento delle braccia fino al drappo. Quel 1737 fu per Firenze l'anno della già suddetta "lunga mano austriaca". La morte  di Giangastone dei Medici (che morì senza lasciare eredi), fece cessare per sempre il potere della dinastia dei Medici in Toscana e nonostante le opposizioni in vita di Gian Gastone a cedere il Granducato ad una potenza straniera, il matrimonio tra Maria Teresa d'Asburgo e Francesco di Lorena, vanificò per sempre il suo desiderio, cosicchè le truppe austriache entrarono in Toscana giurando fedeltà al nuovo granduca. Iniziò così la dinastia dei Lorena, diventava quindi necessario cambiare anche la bandiera, che naturalmente prese
in effige le insegne imperiali, solamente per pochi anni però, fino al 1765, quando la bandiera cessò di vivere insieme al suo mentore. L'arrivo sul trono di Leopoldo I (figlio di Francesco) portò con sè il nuovo vessillo del Granducato che oggi è a noi più noto. Anche questo come quello di Modena prenderà su di sè i colori austriaci. Fatto al quanto singolare è che il bianco e rosso austriaco (i colori dell'arciducato) furono adottati dal Granducato ben vent'anni prima che le utilizzasse la stessa Austria nella sua bandiera nazionale (1786). Ad ogni modo, sopra questi colori, (leggermente spostato verso sinistra) spiccava cotanto scudo coronato, inquartato con le
armi d'Ungheria, di Boemia, di Borgogna antica e di Bar, sul tutto uno scudetto con le armi di Lorena d'Austria e dei Medici. Arrivò dappoi il solito Napoleone, cancellerà pure questa ennesima bandiera, che rivedrà vita in seguito (dal 1814 al 1859).
Come si può notare tutte queste bandiere sono accomunate dal medesimo destino in due date precise e fondamentali: il 1800 (circa)con le Campagne d'Italia di memoria napoleonica e il 1859, anno in cui queste potenze straniere piegarono la testa davanti alla forte spinta dell'unità nazionale.
La prima bandiera della
Repubblica di Lucca
Leggermente diversa (in questo caso)era la situazione per la Repubblica di Lucca: Gallicano, Castiglione e Minucciano ebbero governi più stabili e quindi bandiere più durature. Il più antico drappo lucchese portava la scritta "Libertas", in quella parola c'era l'orgoglio della piena indipendenza che durerà dal 1369 al 1799, tale scritta era in oro su fondo azzurro. Spesso questa bandiera si poteva unire con quella comunale bianca e rossa (che stavolta niente aveva a che fare con l'Austria), la bandiera scomparirà poi con la solita
La bandiera durante
l'occupazione francese
occupazione francese che scelse come vessillo di stato  quello comunale bianco e rosso, tralasciando di fatto quella azzurra. Fino al 1805 però, anno in cui la Repubblica diventò un Principato: il Principato di Lucca e Piombino, retto nientepopodimeno che da Elisa Bonaparte, sorella di Napoleone. La bandiera allora prese i colori della Francia, le bande anzichè verticali erano collocate orizzontalmente e il blu non era proprio un blu, ma quasi un celeste. Caduto in disgrazia Napoleone e tutto il "parentame", il
Bandiera del Principato
Congresso di Vienna con la celeberrima restaurazione decise che dopo Repubblica e Principato, Lucca sarebbe diventata un ducato e nel 1815 subentrò come reggente Maria Luisa di Borbone- Spagna, quindi dopo i francesi, ecco gli spagnoli e così anche la bandiera prese il giallo e il rosso della "madre patria", al centro di essa lo stemma della sovrana faceva da padrone. Con la morte dell'augusta duchessa nel 1824 gli succedette Carlo Lodovico, il quale per l'ennesima volta cambiò nuovamente la bandiera di stato, sostituendo lo stemma della madre
Bandiera del Ducato
con il proprio. Nel 1847 tutto cambiò, i destini della città delle mura divennero comuni con quelli del Granducato a cui fu annessa in quell'anno.

Insomma era una bella confusione...Francia, Austria, Spagna, come poteva un garfagnino sentire sue quelle bandiere, tutto riportava a quelle lontane terre straniere... Non a caso fu in Garfagnana e per la precisione a Pieve Fosciana che nel 1831 degli impavidi rivoluzionari "nostrani" sventolarono per la prima volta in Toscana il futuro
Il tricolore di Pieve Fosciana
tricolore nazionale... Ma quella è un'altra storia...

(per saperne di più clicca sul link:  http://paolomarzi.blogspot.com/2015/10/pieve-fosciana-la-rivolta-del.html)


Sitografia:


mercoledì 3 giugno 2020

Non solo il Buffardello... Ecco gli altri folletti garfagnini che leggenda narra

Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus Von Hohenheim... Sembrerà
strano, ma dietro a questa sequela di nomi stravaganti non c'è una pianta rara e nemmeno qualche specie insolita di animale straordinario. Nonostante la bizzarria di questi appellativi, che sembrano usciti da qualche studio scientifico, dietro di essi esiste una persona riconoscibile con un unica parola: Paracelso. Paracelso fu una delle figure più rappresentative del Rinascimento: medico, alchimista e astrologo di fama conclamata e allora mi direte voi cosa c'entra cotanto studioso con il mondo immaginario dei folletti??? Beh, per lui non era poi così tanto immaginario... Fu il primo che ne certificò la loro esistenza. "Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de caeteris spiritibus", questo suo trattato (edito postumo nel 1566) è la Bibbia di coloro che credono che ninfe, gnomi e altri esseri
sovrannaturali non siano solo frutto di tradizioni e leggende, d'altronde l'incipit del libro non lascia scampo ad altre interpretazioni: "Mi propongo d'intrattenervi sulle quattro specie di esseri di natura spirituale, cioè ninfe, i pigmei, i silfi e le salamandre, a queste quattro specie, per la verità bisognerebbe aggiungere i giganti e parecchie altre. Questi esseri benchè abbiano apparenza umana, non discendono affatto da Adamo, hanno origine del tutto differente da quella degli uomini e degli animali". Tali esseri, fra i quali i folletti, sempre secondo Paracelso, sarebbero legati ai quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco e occuperebbero una dimensione invisibile, spirituale, difficilmente penetrabile dall'uomo, si precisa poi che queste creature pur essendo molto simili all'essere umano per caratteristiche fisiche ed intelligenza, sarebbero prive dell'anima: "Per essere uomini non manca loro che l'anima. E poichè gli manca l'anima, non pensano nè a servire Dio, nè a seguire i suoi comandamenti. Dunque non possono essere definiti nè buoni, nè cattivi, perchè non avrebbero coscienza del bene o del male. Tuttavia alcuni di loro sortirebbero effetti positivi sull'uomo, altri negativi, ma sembrerebbe praticamente impossibile evitare il contatto con queste entità". Tutti questi esseri, secondo le credenze celtiche (arrivate poi anche in Garfagnana da tempo immemore), farebbero parte del "piccolo popolo", composto da
folletti, fate, elfi, gnomi, tutti protagonisti delle meravigliose leggende garfagnine. Fra tutte queste creature, il personaggio principale delle narrazioni popolari della valle è il Buffardello, il folletto garfagnino per eccellenza, di cui tanto abbiamo sentito parlare e raccontare. Un'entità dispettosa e scherzosa al limite del maligno che riversa le sue malefatte verso uomini e animali (per saperne di più clicca il link: http://paolomarzi.blogspot.com/2014/05/il-buffardello-folletto.html). La sua fama però ha oscurato tutta una serie di altri folletti della tradizione garfagnina e apuana. Si, perchè non è il solo gnometto sdegnoso presente nelle nostre terre, altri ancora, sconosciuti o dimenticati, appartengono proprio a quel "piccolo popolo".Era infatti nei pressi di Casa Tontorone che il "Settescintille" dava il meglio di sè, proprio sul fare del giorno, o meglio, quando era ancora buio e i pastori si apprestavano a portare i greggi al pascolo, appariva allora quel folletto sotto forma di stella luminosa a sette punte, pronto a spaventare il pastore e le povere pecore. Volteggiava, girava su se stesso per tutto il sentiero che portava al pascolo e poi
improvvisamente s'inoltrava nei boschi creando ombre spaventose ed inquietanti, facendo assumere agli alberi forme spaventose. Alla fine dello "spettacolo" con tre balzi  scompariva dentro una buca del Monte Tambura. Non disdegnava nemmeno entrare dentro le stalle per mettere paura alle mucche: entrava e scompariva con un gran botto.
La caratteristica che rimane analoga in quasi tutti questi folletti garfagnini è l'arte di far dispetto e il "Pilloro" in questo era uno dei maggiori artefici. Lui abitava, o meglio si mostrava nei villaggi che erano situati nei pressi delle Panie. Questo folletto aveva la capacità di sollevare potenti raffiche di vento, tanto
forti da scompigliare tutto il fieno dei contadini, così come foglie, legna secca e perfino la cenere del camino. Ma le sue molestie non finivano li, quando non voleva far riposare il povero agricoltore dalle fatiche giornaliere, allora cominciava a far sbattere le persiane della camera da letto. Ma non agiva solamente nei pressi della case, difatti quando lo sventurato viandante passava per i boschi era  abitudine del Pilloro di tirargli ghiande, frasche e pigne. Chi l'ha visto può raccontare che il folletto porta un berretto appuntito, ornato da foglie e pigne secche. Esisterebbe anche un rimedio per allontanarlo, basterebbe un po' di cenere del camino, conservata la notte di Natale e spargerla intorno casa... Non solo folletti dispettosi e molesti, ci sono anche quelli amorevoli e premurosi verso il prossimo è il caso dello "Zoccolletto", un'essere ibrido metà gnomo
e  metà satiro. I cavatori delle Apuane dicevano che era impossibile da avvicinare, con le sue zampe muscolose di capra saltava da una roccia all'altra con una velocità impressionante e quando stava per approssimarsi un grosso temporale avvertiva i cavatori emettendo un'assordante fischio, cominciando poi anche a muovere pietre. Insomma, come avrete ormai capito di folletti garfagnini ne esistono di ogni specie, ognuno con il suo particolare carattere. Ci sono anche coloro che Dante avrebbe messo nel girone degli ignavi: pigri, indolenti e con poca voglia di fare. Ebbene si, stiamo parlando del "Parpaglione". Il massimo della fatica che si concedeva era far ruzzolare qualche pietra contro l'ignaro passante. Sennò, abitualmente si sdraiava sulle pietre e sui massi a riposare, mimetizzandosi alla
perfezione. Ecco spiegato perchè tanto volte quelle rocce o quelle pietre che vediamo hanno sembianze umane è il piccolo Parpaglione che se ne sta li fermo, va a sapere da quanto tempo.Ci sono altrettanti folletti però che lavorano di gran lena, altro che sfaccendati come il Parpaglione... I "Martelletti" si danno un gran da fare e il loro nome è già tutto un programma. Loro lavoravano nella miniera di ferro abbandonata sulla Via Vandelli, poco prima del passo della Tambura. Se si origliava all'ingresso della miniera si udiva il battere dei martelli, erano questi folletti che non cercavano di certo il ferro, ma l'argento da sottrarre agli esseri umani. C'erano però altri folletti che abitavano le miniere di ferro e questi erano i "Gobbetti" , vivevano sul versante apuano di Fornovolasco e voglia di lavorare a differenza dei loro colleghi della Tambura non ne avevano, il loro unico
intento era fare danni e anche grossi. Se capitava qualche frana o se crollava qualche parete dentro alle miniera sicuramente la colpa era la loro, si sentivano infatti sghignazzare dal fondo della grotta. L'unica soluzione per farli desistere era mettere un crocefisso all'interno della miniera stessa. Queste grotte però, non erano solo e ad esclusivo uso di questi due tipologie di folletto. Abitante di questi anfratti era pure il "Pellistrello", folletto talmente brutto che metteva paura anche agli altri esseri del "piccolo popolo". Chi lo vide raccontò che egli era tutto nero con dei grossi baffi che spuntavano dalle narici, sempre avvolto in un mantello che nella notte gli permetteva di volare da una cima all'altra della montagna, la sua risata risuonava tenebrosa in tutta la valle. 
D'altra parte, girando tutta la Garfagnana, se ci fermiamo nei paesi possiamo ancora sentire narrare di folletti di ogni specie e se per caso se in uno di questi giri per i borghi e montagne della valle capitassero delle improvvise nebbie o foschie, l'opera sicuramente è dello "Sputafumo". L'essere, da qualche pertugio delle rocce sputava dalla sua bocca della nebbia, talmente fitta da far smarrire la strada al passante. Era un folletto inospitale, non gradiva gente dalle sue parti...
Infine, l'ultimo, il folletto più inquietante, per il suo aspetto e per le sue azioni... Il "Bobolo"... una sorta di sibilla, di
veggente, nonchè di giustiziere divino, dall'aspetto raccapricciante: un po' uomo e un po' bestia, con sei bocche ed un occhio solo. Viveva in una caverna sulle Apuane e chi per caso capitava davanti al suo anfratto la sua domanda era sempre la solita: "Sei colpevole o innocente?" Prima di ogni risposta il Bobolo capiva e scatenava nebbia fittissima e vento altrettanto forte che faceva sbattere in ogni dove e precipitare il povero passante in un burrone, trasformandolo poi in una pietra. Il terribile folletto a quanto pare, continuerà ad abitare in quella caverna, fino a che di li, non passerà una persona che non abbia mai commesso nessun peccato...
Non ci deve fare meraviglia che tutti questi esseri vivono proprio in Garfagnana. Nel corso dei secoli sono  numerosi i popoli che hanno stabilito qui i propri domini: gli Apuani, passando per i Romani, fino ad arrivare ai Franchi. Tutte queste comunità hanno contribuito ad alimentare le numerose leggende che sono arrivate poi ai nostri nonni. Proprio per questo la Garfagnana secondo il mito è una terra magica. Leggende e racconti
sono parte integrante della valle e ancora oggi i suoi abitanti raccontano tutte le straordinarie vicende che coinvolgono "il piccolo popolo" e a noi non rimane altro che stare lì, buoni, in silenzio, ad ascoltare e tramandare... 


Bibliografia:

  • "Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris" Paracelso 1566 (edizione tradotta)
  • "Racconti e tradizioni popolari della Alpi Apuane" di Paolo Fantozzi, edizioni Le Lettere, anno 2013