mercoledì 27 marzo 2019

Dimmi come ti vesti e ti dirò chi sei...Come si vestivano i garfagnini una volta

C'erano una volta toppe e rammendi. Ora al primo segno di cedimento
In Garfagnana nel giorno di festa
(o al primo cambio di moda), il capo d'abbigliamento finisce nella spazzatura. Non è cosa da poco se si pensa che fra le industrie più inquinanti quella tessile scala posizioni fino ad arrivare al secondo posto, dietro al petrolio. Insomma l'abbigliamento ieri come oggi influenza molto il nostro modo di vivere, in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Gli studiosi del comportamento umano hanno elaborato una tesi che dice che il nostro cervello (che lo si voglia o no) impiega circa 10 secondi per valutare una persona "nuova" e giudicarla per come si presenta, per le sue espressioni e da come si veste, tutto questo senza che l'individuo che abbiamo davanti non abbia ancora aperto bocca. Un noto proverbio infatti dice che "l'abito non fa il monaco", per dire poi che non bisogna fermarsi alla sola apparenza, ma a dire il vero nei secoli passati certi abbigliamenti erano distintivi di classi sociali ben separate. Adesso il discorso è cambiato e grazie al benessere ci siamo un po' tutti omologati, ma una volta era diverso, ciascun capo d'abbigliamento aveva  un significato culturale e sociale, in esso si condensavano alcune funzioni tramandate ed evolute nel tempo. All'epoca era netta la distinzione fra il signore e il contadino, un

abito definiva chiaramente il mestiere che svolgeva e tutto era ben distinto e specificava lo status sociale e civile della persona. Questo era ben chiaro in Garfagnana, la cultura contadina, il lavoro della terra e la povertà segnava anche sotto questo punto di vista. Documentazioni sul vestiario nella Valle del Serchio ce ne sono molte già a partire dal medioevo, ma naturalmente le più comprovanti sono quelle di inizio 1900, dato che la memoria dei nostri nonni e anche la fotografia ci può aiutare molto. Tutto questo ci è stato tramandato e ci dice che le garfagnine anche se portavano abiti di foggia complicata, non avevano nessuna pretesa di eleganza, la praticità e la comodità di muoversi ed agire nei campi, quella doveva essere la miglior caratteristica. L'uomo invece di solito possedeva due abiti che venivano usati finchè non si rendevano inservibili, anzi, rattoppati in qualche maniera passavano di padre in figlio, proprio come un eredità necessaria. C'era dunque l'abito che si usava tutti i giorni e quello delle grandi occasioni, di stoffa un po' più pregiata che veniva usato per le feste o per andare alla messa. Naturalmente la povertà agli inizi del secolo scorso la faceva da padrona in Garfagnana, nonostante che il nuovo secolo avesse portato innovazioni tecnologiche e sociali, dalle nostre parti eravamo ancora indietro molti anni rispetto al Paese, quindi la famiglia
Raccolta della canapa
patriarcale del tempo doveva trovare sostentamento nella natura (non nelle nuove ed emergenti industrie)  perfino la materia utile per confezionare stoffe e vestiti. Difatti nella nostra zona crescevano rigogliosamente lino e canapa che fornivano fibre molto resistenti che le donne con pazienza e dedizione filavano nei telai, ma non solo i vegetali fornivano sostentamento per il vestirsi, anche gli animali davano il loro contributo, le pecore infatti oltre al formaggio davano lana in abbondanza. Ma scendiamo adesso un po' più nel particolare e svisceriamo quello che era l'abito femminile tipico, innanzitutto cominciamo con il dire che non esistevano i colori (sia per uomini che per donne), niente rosso, giallo, verde, ma dei semplici e austeri colori neutri: grigio, nero, bianco, per il resto la vestizione consisteva in un lungo vestito che si componeva di vari pezzi: la sottana lunga  fino alle caviglie e larga, sopra di essa di ugual misura un grembiule multiuso che serviva per non sporcare il "sottanone" e per "cogliere", per raccogliere "gli erbi boni" (n.d.r: erbe di campo), le verdure dell'orto e sopratutto le

castagne, completava il vestito un corpetto piuttosto aderente dalle grandi e larghe maniche che si restringevano al di sotto del gomito, unica vezzosità concessa (per alcune)un corto gilè. D'inverno sopra  il vestito il classico scialle, ampio, fatto in modo che coprisse la maggior parte del corpo, per molte garfagnine era usanza portare un fazzoletto di panno più o meno pesante sulla testa. Altro discorso era per le cosiddette "signore", le donne benestanti del paese. Le ricche signore indossavano vestiti che più o meno riproducevano lo stesso modello, i vestiti però erano ornati con più gusto e raffinatezza, spesso ricamati con merletti e trine, un ruolo importante lo conferivano gli accessori: i guanti di pelle finissima in inverno, mentre per l'estate erano traforati, il capo era adornato con un capello con veletta che arrivava fino al mento, non mancava la borsetta e l'ombrellino per ripararsi dal sole. In barba a tutta questa
eleganza le contadine invece spesso stavano a piedi nudi o con gli "scappini", rudimentali zoccoletti artigianali di legno, molte donne dell'epoca testimoniano che era talmente l'abitudine (nella buona stagione) di andare scalze che questi "scappini" venivano indossati solo quando andavano in paese.

L'abbigliamento maschile generalmente consisteva in una camicia
bianca di tela su cui veniva indossato un gilè senza maniche abbottonato davanti, portavano calzoni di panno grossolano di color nero larghi e lunghi, avevano giacche corte di fustagno o velluto e per copricapo il classico cappello a tesa stretta. I signorotti indossavano vestiti che si componevano di pantaloni lunghi, giacca abbottonata in alto con tre o quattro bottoni accompagnata dal gilè su cui spiccava la catena dell'orologio da taschino, sotto la giacca naturalmente era d'obbligo la camicia bianca di seta o di cotone e per coronare il tutto un bel cappello in stile homburg. 
Ma dentro questi abiti c'erano sopratutto uomini, e le loro azioni, a loro non importava apparire, non davano peso all'aspetto, quello che contava per quelle persone erano solo fatti e parole...


mercoledì 13 marzo 2019

Cucina, tradizione, storia e segreti: la "minestrella" ricetta gallicanese

Le chiamiamo con disprezzo "erbacce", ma forse tanto erbacce non
La minestrella
sono...La storia su questo parla chiaro. Figuriamoci che per millenni le erbe selvatiche sono state la risorsa alimentare primaria per le popolazioni preistoriche che sapientemente sapevano sfruttare tutte le proprietà di queste erbe. In modo scaltro l'uomo antico osservando gli animali riuscì ad individuare tutte quelle erbe che potevano essere utilizzate per la propria alimentazione, e mentre l'uomo (inteso come maschio) era dedito alla caccia, alla donna era affidata la raccolta delle erbe. Ed è così, che prima oralmente e poi per scritto abbiamo imparato a sfruttare a scopo terapeutico ed alimentare le erbe che Madre Natura ci offre. Infatti le prime testimonianze scritte dell'uso delle erbe selvatiche in cucina ce lo da nel I secolo d.C Lucio Giunio Moderato Columella (il Carlo Cracco di duemila anni fa), autore del "De re rustica", che nella sua Roma antica mescola erbe tritate di campo con formaggio cremoso, creando di fatto una sorta di frittata, non da meno è Apicio che qualche
il "De re rustica"
secolo dopo (IV secolo) raccoglie una serie di ricette sull'utilizzo delle "aròmate". Nel medioevo l'uso delle erbe si affinò e si andarono a cercare "erbe forestiere": cortecce, radici, fiori e bacche costosissime, che venivano dal lontano oriente. Alla fine del 1400 però ci fu un ritorno alle tradizioni, si iniziò un lungo percorso di riduzione dell'uso delle spezie che vennero sostituite con erbe aromatiche spontanee locali, via allora quei sapori speziati, forti, artificiosi, si riscoprirono le erbe nostrali dai sapori netti e precisi. Il Mastro cuoco Martino da Como utilizzò in molte ricette il succo di erbe, sminuzzando, pestando e passando erbe, come prezzemolo, borraggine, maggiorana e menta. Giacomo da Castelvetro nel 1614 invece offrì a tutti gli appassionati della cucina con le erbe il "Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l'erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia che si mangiano" e ricordò che "gl'italaini mangino più erbaggi e frutti che carne". Anche la Garfagnana rientrava nel novero di quest'ultima considerazione, sicuramente non per motivi di gusto o di scelta prettamente culinaria, ma per ovvia necessità... Un paese su tutti però seppe trarre maestria nell'uso delle erbe di campo, questo paese è Gallicano che con la sua "minestrella" riuscì a sfamare una comunità intera. D'altronde è proprio questo il periodo (così mi dicono le esperte massaie gallicanesi) della raccolta delle erbe per questo prelibato piatto, nato povero ma oggi fra i piatti più ricercati e apprezzati della cucina toscana. Questa è una ricetta particolare che fonde tradizione, storia e segreti;
Gallicano

una ricetta riscontrabile solo a Gallicano e da nessuna altra parte. Il piatto ha una storia ultracentenaria, nata dai contadini che purtroppo non avevano grandi poderi da coltivare, per di più gli uomini partivano per andare a fare i carbonai in Corsica, sarebbero ritornati molto tempo dopo, e alle donne non rimaneva che farsi carico dell'intera famiglia, lavorare nei campi e sopratutto sfamare gli anziani e i bambini. Oltre a tutto questo ci si metteva la sfavorevole posizione geografica di Gallicano, gli altri paesi della Garfagnana potevano usufruire della vicinanza delle selve di castagno da cui trarre farina, il monte Palodina era ben lontano dal paese, allora alle donne non rimaneva altro che mettere in pratica la propria conoscenza delle erbe selvatiche, che così venivano cucinate in vari modi. Da uno di questi "modi" nacque la minestrella, una minestra fatta con un numero variabile di erbe che va da 15 a 30, i cosidetti "erbi boni"(come si dice in dialetto),
un piatto esclusivamente fatto con quello che mette a disposizione la natura, niente prodotti coltivati, ma solo l'ingegno dei vecchi contadini. La ricetta si tramanda oralmente da secoli e da generazione in generazione, in teoria poi non esiste neanche una vera e propria ricetta, in quanto gli "erbi" non erano mai gli stessi da famiglia in famiglia, ognuno aveva i propri segreti e
Un campo di "erbi boni"
ognuno usava le diverse erbe per renderla più amabile o più amara e per ogni gallicanese la sua minestrella era la più buona di tutto il paese. Proviamo comunque a dare la ricetta, tanto per render chiaro all'attento lettore di cosa si tratta. La ricetta che darò è presa dalla leggenda che narra la nascita di questo prelibato ed esclusivo piatto: "
C’era una volta, nel nostro paese piccolo di campagna, tanta miseria, perché i lavori non esistevano e chi lo voleva doveva espatriare per guadagnare qualche lira, e la maggioranza della popolazione faceva i contadini e viveva con quello che la terra gli dava. Ed allora le massaie tante volte dovevano inventare qualche cosa per variare quel misero pasto del giorno che quasi sempre era polenta con salacchini. Un giorno di primavera una massaia stanca di sentire dire "anche oggi...", pensò di inventare qualche cosa di diverso. Prese un paniere un coltellino, andò verso i prati che
contadini a tavola
incominciavano a inverdire, e china china guardava sceglieva e svelgeva delle erbette che le guardava, le odorava, e diceva “questo è un piscialletto, questo è un papavero, una lingua di vacca, ecco un cicerbita, ecco una sporta vecchia, un ingrassaporci” e via via dava a tutte queste nomi che lei coglieva e le metteva nel canestro. Quando ebbe fatto assai di questo misto d’erbe se ne tornò a casa, le mise a mollo nell’acqua per toglierle la terra, le lavò per bene e poi anche lei non convinta disse “domani si vedrà”. La mattina di buon ora mette al fuoco la pentola con i fagioli giallorini, qualche spicchio d’aglio, un po’ di salvia e lascia che tutto cuocia a fuoco lento. Quando i fagioli furono cotti li colò nel colino ed una parte li strizzò bene con le mani (il passatutto allora non esisteva) poi mise nel brodo quelli che restavano e rimise tutto sul fuoco per far bollire ancora. Poi prese un bei pezzo di lardo e fece un bello sfritto che poi mise nella pentola e quando incominciò a bollire mise anche tutta quell’erba che aveva già cotto prima, e con la mezzaluna l’aveva trinciata fina fina, e così tutto incominciò a
"gli erbi" commestibili
bollire piano piano. La massaia era un po’ pessimista pensava: “cosa verrà fuori?”. L’odor era buono, odorava ed assaggiava...un po’ di sale, un po’ di pepe. Però gli venne un dubbio: “se io ci facessi delle focaccette di farina di granturco? Così se non va mangiano quelle”. E così fece. Venne l’ora di mangiare, gli uomini vennero a casa trovarono le scodelle piene di questa cosa verde "oddio che hai fatto stamani?" chiesero, e la massaia imbarazzata, disse a voce alta: "la minestrella" e da quel giorno minestrella fu, e tutti mangiarono con appetito e curiosità questa minestrella fatta di nulla con le sue focaccette, ed ancora è rimasto il piatto tipico del mio paese, ma un piatto che tutti chiedono e vorrebbero
mangiare, piatto povero fatto di nulla che però ha il sapore della terra, della nostra terra che noi l’amiamo perché i nostri vecchi ci hanno insegnato a amarla e rispettarla".




 Bibliografia

  • Leggenda tratta dall'Associazione "Buffardello Team" (http://lnx.buffardello.it/index.php?option=com_frontpage&Itemid=1)



giovedì 7 marzo 2019

La storia di un re che venne a fare il frate in Garfagnana...

Sono storie queste che sembrano nascere da qualche romanzo del 1800,
Convento cappuccini Castelnuovo
sono storie che la memoria ha sepolto e che meritano di essere riportate a galla e fatte conoscere al grande pubblico e non solo ad una nicchia di storici gelosi. Le vicende che andremo a narrare hanno tutto quello che si cerca in un bel libro o in un coinvolgente film, una girandola di sentimenti e di situazioni fa da corollario a queste cronache di quasi 400 anni fa : potere, amore, pentimento, fede, guerra, omicidi, insomma un quadro globale di emozioni che coinvolge a pieno diritto anche la Garfagnana e nientepopodimeno che Alessandro Manzoni e i suoi "Promessi Sposi"

Credo con questo di aver stimolato assai la curiosità del mio lettore, dal non potermi esimere di cominciare a raccontare gli eventi mirabolanti che videro protagonista sua maestà il Duca di Modena Alfonso III d'Este.
Tutto cominciò il 22 ottobre 1591, quando in quel di Ferrara vide la luce Alfonso, era figlio di Cesare d'Este e di Virginia de' Medici.
Alfonso III D'Este
Al tempo suo padre non era ancora Duca, dato che alla guida dello stato Estense c'era il cugino Alfonso II. Questi morì senza eredi e la reggenza passò allora a Cesare. Da qui in poi cominciarono le peripezie del piccolo Alfonso, che subito fu buttato dentro a spinose questione politiche e così a soli sei anni, senza nè colpa nè peccato fu messo nel mezzo nella cosiddetta "convenzione faentina", un vecchio accordo fra lo stato della Chiesa e la famiglia d'Este che diceva appunto che in caso di mancanza di eredi diretti, Ferrara sarebbe tornata in mano al Papa. Clemente VIII fece scattare subito la clausola (pertanto la capitale del regno fu trasferita Modena), a garanzia del buon esito degli avvicendamenti il Pontefice prese in ostaggio il piccolo Alfonso, trattenuto forzatamente a Faenza nelle mani del Cardinal Aldobrandini. Questo segnò molto il carattere del futuro sovrano. Una volta tornato a Modena Alfonso era cambiato, era diventato intollerante e violento, si intrometteva sempre negli affari di governo, approfittando del carattere debole del padre. L'anno della svolta fu il 1608 quando sposò a diciassette anni Isabella di Savoia, il matrimonio nonostante fosse combinato si rivelò felice, l'infanta di Casa Savoia da fonti dell'epoca fu definita "la più pia, la più magnanima, la più religiosa principessa del secolo", insomma questa donna come vedremo segnò in tutto e per tutto il destino del futuro Duca a partire dal numero dei figli nati, stavolta senza eredi non sarebbero rimasti...infatti i pargoli furono ben 14. Nel frattempo, fra un figlio ed un altro, Alfonso conobbe per la prima volta la Garfagnana (terra sotto il dominio estense), era il 1613 e fu mandato a difenderla dai bellicosi
Isabella di Savoia
lucchesi che se ne volevano impadronire, tornò ben presto a Modena colto da violente febbri. Nonostante il forte ascendente di Isabella sul marito, la principessa non potè però impedire che "la sua anima non fosse travolta da una disastrosa crisi spirituale, trascinato verso una vera e propria decadenza morale", così scriveva un suo biografo e continuava: "era entrato in dimestichezza con certi tipi spregiudicati il cui modo di pensare e di credere era assai più vicino a quello del Machiavelli che al Vangelo di Cristo", tutto questo lo portò ad avere molti nemici, accecato sempre di più dalla bramosia di potere, tanto da soprannominare il papà "Padre Eterno", alludendo al fatto che non ne voleva sapere di morire, ma non solo, anche l'onore degli Este andava secondo lui difeso contro chiunque si permettesse di disonorarlo; di questo ne pagò le conseguenze la famiglia Pepoli che rivendicava alcune terre nel ferrarese che il Duca non gli riconosceva, fu una lotta dura, carte bollate, giudici e azioni legali, ma l'Alfonso di quei tempi non portava pazienza e tanto meno era disposto a fare concessioni, ed ecco allora che "l'eclissi morale" tocco il suo apice. Una sera di dicembre del 1617 il futuro sovrano dette ordine ai suoi sgherri di assassinare il Pepoli. L'omicidio scatenò una serie di vendette, Alfonso scampò miracolosamente a diversi attentati, a pacificare tutto ci pensò il tribunale di Modena che sentenziò diverse pene capitali a dei poveri innocenti che dovevano fare da capo espiatorio: "la sanguinaria giustizia non potè aver tra le mani che quattro disgraziati su cui scaricarsi", in pratica
Modena al tempo degli estensi
l'omicidio del Pepoli e gli attentati contro Alfonso rimasero impuniti con buona pace di tutti. Arrivò così il fatidico 1628, l'anno in cui tutto cambiò, l'amata Isabella morì dando alle luce il quattordicesimo figlio, una bella bambina di nome Anna Beatrice, ma "l'annus horribils" continuò, anche il Duce Cesare dopo trent'anni di regno trovò la morte, tutto questo destò grande impressione in Alfonso che si ritirò in meditazione. Nel frattempo come tanto sperava e bramava era diventato il nuovo signore e duca di Modena, ma qualcosa non era più come prima, le ultime parole di Isabella (di riportare la pace nel Ducato) lo avevano colpito profondamente, c'era poco da fare doveva cambiare vita e comprese allora che solo abbracciando una rigorosa vita religiosa avrebbe placato i suoi tormenti...decise che prima o poi si sarebbe fatto frate cappuccino. Solo sette mesi durò il suo regno, dopodichè il 24 luglio 1629 abdicò a favore del figlio Francesco, abbandonando per sempre la lussuosa vita di corte. Prima di lasciare il regno dette l'ultimo ordine: lasciar decadere tutte le taglie sugli acerrimi nemici della famiglia Pepoli. In poco tempo Papa Urbano VIII accelerò i tempi del suo noviziato, Alfonso lasciò il Ducato e si diresse in Tirolo in un convento di cappuccini prendendo il nome di frate Giambattista da Modena. Cominciò così un
Frà Gianbattista da Modena
ossia
Alfonso III
lungo peregrinare: Trieste, Gorizia, Innsbruck, Vienna, a Modena fece ritorno nel 1632 facendo si che il figlio venisse in soccorso dei più bisognosi, la predica nel duomo di Modena raccontano le cronache dell'epoca fu memorabile, l'ex duca raccomandava l'elemosina "che libera da ogni peccato e dalla morte e non permette che l'anima, che spezza le catene dei peccati, dirada le tenebre, estingue il fuoco". Ad onor del vero sarebbe ingiusto far passare la figura di Alfonso come un mite predicatore, a quanto pare il suo "caratterino" tornava fuori quando c'era da convertire gli ebrei: "il suo zelo talora ad alcuni parve anche troppo impetuoso". Insomma Alfonso a Modena era diventato per tutti un personaggio scomodo, vuoi perchè anche lo stesso Duca sentiva la presenza del padre come un qualcosa di ingombrante, vuoi perchè anche la stessa gente non vedeva di buon occhio che un ex duca (seppur frate) fosse sempre in giro per la città. In soccorso a tutti allora venne la Garfagnana, capiamoci meglio, lo stesso ex Duca manifestò più volte il desiderio di abbandonare la città, voleva un convento tutto per se in un luogo lontano da tutti e tutto dove poter meditare e pregare, i possedimenti della Garfagnana facevano proprio a suo caso... A Castelnuovo infatti c'era una collinetta che sembrava fatta apposta per edificare un luogo sacro, era il 1632 e in soli quattro anni a spese del figlio Francesco I fu edificato il convento di San Giuseppe, meglio conosciuto come il convento dei Cappuccini. A sottolineare la bellezza del posto scelto ci pensò quattrocento anni dopo il poeta dialettale Pietro Bonini:
Convento dei Cappuccini Castelnuovo
"Che siano furbi i frati e molto intelligenti  lo dimostra il fatto che i loro conventi se l'enno costruiti sempre a metà collina duve non manca sole, duve c'è l'aria fina". Ad accorgersi della vita di padre Giambattista alias Alfonso III fu un altro scrittore e poeta di fama ben superiore del seppur valido Bonini, a quanto pare Alessandro Manzoni nei suoi "Promessi sposi" per il personaggio di Frà Cristoforo prese ispirazione dall'ex duca. Il Manzoni infatti era un assiduo lettore di Ludovico Muratori (storico vissuto nel 1700) che nel suo libro "Antichità estensi" parla proprio della figura di frà Giambattista da Modena, e infatti a onor del vero quello che il Manzoni racconta del personaggio del romanzo ricalcherebbe molto similmente la vera vita del monarca. Nel libro si racconta che Cristoforo era figlio di ricchi, che poteva permettersi gli agi e i lussi che voleva, inoltre si dice anche qui di un omicidio commesso su un signorotto locale e la successiva conversione alla vita monastica, insomma sono tante le coincidenze che fanno credere a più ricercatori che il personaggio manzoniano non si altro che Alfonso III. In ogni modo la vita di Giambattista da Modena nel capoluogo garfagnino scorreva tranquilla, qui diceva di voler ricercare quella pace che gli avrebbe consentito di prepararsi al grande passo della morte. E infatti non si
il quadro di Nicolò Azzi
ingannava...a soli 52 anni colpito da forti febbri, il 24 maggio 1644 morì nel convento da lui voluto. Nicolò Azzi, pittore garfagnino, lo ritrasse sul tavolo mortuario. 

Finì così la vita di un personaggio dalle mille sfaccettature che della sua vita volle fare un romanzo.





Bibliografia:

  • "Alfonso III, l'estense che volle rinunciare al ducato per vestire il saio" di Luigi Malavasi in "La fine di un mondo che fu"
  • "Antichità estensi" di Ludovico Antonio Muratori