mercoledì 30 novembre 2016

Dalle pagine de "La Domenica del Corriere" del 1946, promozione turistica della Garfagnana

L'Italia era uscita prostrata dalla seconda guerra mondiale, gran
parte del suo patrimonio nazionale era andato distrutto e dappertutto vi erano lutti e rovine. Nonostante tutto un nuovo spirito di rinascita si faceva strada nella nazione, la volontà di essere partecipi dell'opera di ricostruzione animava tutti, ma non c'era da ricostruire solamente le case bombardate, i ponti distrutti e le sconnesse strade, c'era da ricostruire l'animo di una nazione intera. Il fascismo era finito per sempre, finalmente si poteva tornare ad esprimersi liberamente con parole, con scritti e ognuno era libero di seguire la propria vocazione politica. Per l'Italia cominciava allora una nuova epoca e bisogna tornare a dare voce a tutti e a dare spazio a tutte le idee. La Garfagnana in questo caso era stata colpita duramente, in tutti i sensi, c'era da ridare anche qui nuova linfa ad una regione già di per se povera, c'era da farla conoscere questa terra dimenticata da Dio nella speranza di portare nella valle dei visitatori (la parola turista al tempo non era ancora nel parlar comune) a fare gite nella nostra valle, perchè poi una volta giunti, questi visitatori si dovevano fermare beatamente nelle nostre botteghe a comprare i nostri prodotti e a bere nei nostri bar. Un idea rivoluzionaria questa per l'immediato dopo guerra, c'era già chi pensava a portare turismo in Garfagnana, figuriamoci che ancora oggi c'è chi fra i nostri amministratori locali nemmeno ci pensa... Ma chi aveva avuto un idea tanto arguta e lungimirante quanto sovversiva? Solo un'intelligenza sopra la media come quella di Almiro Giannotti alias il Gian Mirola poteva pensare una cosa così sbalorditiva. Il Gian Mirola per i pochi che non lo conoscono fu lo scrittore e giornalista(a mio avviso) più dotato, brillante e pronto che la Garfagnana (e non solo) abbia mai avuto.Inutile stare qui a
Il Gian Mirola
raccontare tutta la sua storia (n.d.r anche se ho in preparazione un articolo), ma brevemente basta dire che Almiro (il nome di battessimo) nacque a Eglio nel 1915, fu maestro in vari paesi della Garfagnana e sindaco di Molazzana negli anni 50, ma sopratutto era uno studioso di folclore e un fine analista di problemi locali e da conoscitore di questi fenomeni capì subito qual'era una possibile soluzione per far emergere la sua amata terra, dilaniata dalla guerra e dalla povertà: il turismo o quantomeno far conoscere a tutti che anche la Garfagnana esisteva. L'idea che ebbe fu sensazionale, scrivere un articolo con foto annesse su una delle tante riviste per cui già scriveva. Infatti il Gian Mirola firmava articoli per i maggiori giornali italiani: "Eva", "Divagando", "Famiglia Cristiana", "Scuola Moderna", ma in particolare c'era un giornale a cui puntava per pubblicare questo benedetto articolo, anzi per dire la verità non era nemmeno un giornale nel vero senso della parola, ma bensì un supplemento ad un quotidiano, questo supplemento si chiamava "La Domenica del Corriere" che veniva dato settimanalmente insieme (con l'aggiunta di poche lire) al quotidiano italiano per eccellenza, "Il Corriere della Sera". Apparire quindi su "La Domenica del Corriere" voleva dire affacciarsi nelle case di tutti gli italiani, dato che le

tirature di questo supplemento toccavano cifre stratosferiche,negli anni trenta arrivò ad essere il settimanale più letto d'Italia con una tiratura di oltre seicentomila copie, mentre negli anni '40 e '50 confermando il primato di giornale più letto la tiratura toccò addirittura il milione di copie. Questo giornale colpì subito l'italiano medio e fu concepito proprio come il settimanale degli italiani, che doveva scandire come un calendario le giornate liete e le tragedie, si dava molto spazio alle foto e ai disegni, storiche furono le sue copertine disegnate prima da Achille Beltrame e poi da Walter Molino, in ogni numero il disegnatore aveva il compito di rendere vivo con la sua tavola il fatto più interessante della settimana, insomma, pubblicare qualcosa qua sopra significava farsi conoscere in tutta Italia e così fu che il Gian Mirola riuscì nel miracolo. Il suo articolo sulla Garfagnana comparve su "La Domenica del Corriere" solamente un anno e cinque mesi dopo la fine della seconda guerra mondiale, il 3 novembre 1946 riuscendo ad uscire insieme all'importante tavola di copertina che rappresentava l'altrettanto importante evento: la prima volta che le Nazioni Unite si riunivano nella nuova sede di New York, quanto sia stata voluta o fortunata questa coincidenza non si sa, il fatto portò comunque a una maggior quantità di copie vendute di questo bellissimo numero, che anch'io oggi posseggo nella mia
3 novembre 46.Il numero de
La Domenica del Corriere
dove si parla di Garfagnana
(collezione Paolo Marzi)
collezione di fascicoli de "La Domenica del Corriere". All'epoca non esisteva la televisione, naturalmente nemmeno internet e questa operazione che riuscì al Gian Mirola era perciò la maniera più diretta per far conoscere "l'illustre sconosciuta", come definisce egli stesso la Garfagnana  nell'articolo, dove racconta degli usi e dei costumi e dove descrive la gente "...buona cortese e attaccatissima agli usi degli avi..", non manca nemmeno di illustrare i famosi personaggi che l'hanno abitata, senza nemmeno dimenticare i prodotti delle nostre terre. Ma bando alla ciance, ecco per voi questo stupendo e avveniristico articolo di promozione del territorio, che fra pochi giorni fa ha compiuto 70 anni, era precisamente il 3 novembre 1946 e a
 pagina 7 campeggiava questo titolo:


"Garfagnana terra sconosciuta"


La pagina sulla Garfagnana
(collezione Paolo Marzi)
La Garfagnana non è una delle misteriose provincie dell'Asia, né uno sperduto villaggio della Patagonia. Se qualcuno, leggendo il titolo di questo articolo, lo avesse immaginato, si ricreda.
E' invece un pittoresco lembo di terra toscana, incuneato fra gli Appennini e le Apuane, dove termina il regno dell'ulivo ed incomincia quello del castagno.
Terra ricca di tradizioni folcloristiche, d'usi e costumi intatti da più secoli.
"L'ultima regione dell'Universo" la chiamano gli abitanti, alludendo argutamente alla corona dei monti orridi e belli, che la circondano.
Qui il castagno nasce e vegeta spontaneamente e nelle selve abbondano, come in un piccolo lembo di Paradiso terrestre, funghi, fragole, lamponi, mirtilli, more.

Usi e costumi
Le didascalie:Un tipo
garfagnino,con
qualche annetto ma ancora
in gamba
La gente è buona, cortese e attaccatissima agli usi e alle tradizioni degli avi. Nelle vie e nelle piazze dei paesi si canta ancora il "Maggio", che è una specie d'opera drammatica, paragonabile in certe forme più erudite, al melodramma.
Scettri di cartone, corazze di latta, elmi e spade di legno formano l'arredo scenico e il vestiario degli artisti che, accompagnati da un unico violino, cantano su un motivo semplice, poggiando sulla prima e sulla quinta sillaba di ogni verso.
Gli argomenti dei "Maggi" possono essere scelti fra i fatti più salienti della storia greca o romana, fra le vite dei Santi, degli eroi, o fra i poemi classici, come La Gerusalemme Liberatao L'Orlando furioso.
Altre forme d'arte popolare sono le "Befanate", gli "Stornelli", i "Rispetti"; ancora vive e in uso fra i contadini della regione. Abbiamo conosciuto, in Garfagnana, contadini che non sapevano fare l'o col tondo dei un bicchiere e recitavano, magari a memoria, uno o più canti della Divina Commedia, illustrandone poi, con esattezza, il significato storico e letterale.

Ospiti illustri e briganti cortesi
Le didascalie:Dove l'orrido
 è bello...e il bello orrido
Nel 1523 venne a governare la Garfagnana, per conto degli Estensi di Modena, un poeta celebre: Ludovico Ariosto.
In quel tempo gli Appennini erano covo di numerosi bande di briganti e attraversare le montagne per recarsi da Castelnuovo (sede del governatorato) a Modena (capitale estense) o viceversa non era impresa troppo facile.
Durante uno di questi viaggi l'Ariosto fu fermato e, col seguito, spogliato e derubato. Proprio come succede oggi sui valichi alpini.
I briganti stavano insaccando la refurtiva quando, ad uno del seguito, sfuggì il nome del poeta. Il capo dei banditi, premuroso, chiese subito: Dov'è messere Ludovico?
- Sono io - rispose tutto tremante il poeta.
- Non sia torto un capello al grande Ariosto - ordinò allora il campo ai compagni.
Fece restituire a tutti quanto era stato rubato e proseguì, poi, rivolto al poeta:
- Messere, anche i banditi della Garfagnana, che voi sferzate nelle vostre "satire" vi stimano e vi apprezzano - E s'inchinò in segno di rispetto.
Ordinò poi, ad una parte della banda, di scortare il poeta ed il suo seguito fino al limite della "Gran selva" affinchè non corressero il rischio di essere disturbati da altri.
Così l'autore dell'Orlando furioso giunse a Modena sano e salvo, benedicendo le muse che lo avevano protetto in una brutta avventura.

Marmo, carbone e... fragole
Oggi la Garfagnana è una delle Regioni d'Italia più dimenticate.
Le didascalie: Nel regno del
castagno, quando le pecorelle
 escon dal chiuso. La Pastorella
 pudica si copre la faccia
per non farsi fotografare
La guerra vi sostò per sette mesi. Villaggi interi furono distrutti o bruciati. Uomini di tutte le razze bivaccarono nelle case abbandonate e molti, oggi, leggendo questo articolo ed osservando le fotografie riprodotte in questa pagina, sussurreranno, compiaciuti o rammaricati, la famosa frase manzoniana: "Io c'era!"
Sulle strade, solcate allora dalle pesanti ruote dei pezzi d'artiglieria, discendono oggi i più importanti prodotti della regione, diretti ai vari mercati del mondo: marmo per le Indie e per le Americhe, castagne e farina di castagno per la Francia e per la Spagna, legna e carbone per l'Italia settentrionale.
Una delle occupazioni più caratteristiche è la raccolta delle fragole, che qui nascono spontaneamente. Ceste e cestelli vengono allineati, ogni giorno, durante la raccolta, lungo i margini delle strade, in attesa delle macchine che passeranno, nelle prime ore del mattino, a caricare.
Importante è anche la raccolta dei funghi, i quali vengono inviati, nelle annate di massimo raccolto, in tutta Italia.
Funghi, fragole e castagne per la mensa; lana e canapa per i vestiti, che qui vengono filati e tessuti a mano; carbone e legna per la stufa; marmo e calce per la casa.

Tutto questo dà la Garfagnana, l'illustre sconosciuta, che un giornalista ha scoperto, in questi giorni, senza passare i confini dello Stato. Scoperta, descritta, illustrata: per voi.

Gian Mirola












mercoledì 23 novembre 2016

Morire sul lavoro. La strage di Bolognana 24 novembre 1939. Storia di dolore e di dubbi

Centrale SELT Valdarno Gallicano 1938
Morire lavorando, la cosiddetta "morte bianca"" Le chiamano "morti bianche", come avvenissero senza sangue.Le chiamano "morti bianche", perchè l'aggettivo bianco allude all'assenza di una mano direttamente responsabile dell'accaduto, invece la mano responsabile c'è sempre, più di una.
Le chiamano "morti bianche", come fossero dovute alla casualità, alla fatalità, alla sfortuna.
Le chiamano "morti bianche", ma il dolore che fa loro da contorno potrebbe reclamare ben altra sfumatura cromatica.
Le chiamano "morti bianche", tanto non meritano che due righe sui quotidiani, si e no una citazione nel telegiornale. 
 
Le chiamano "morti bianche", ma non sono incidenti, dipendono dall'avidità di chi si rifiuta di rispettare le norme sulla sicurezza sul lavoro".

Questo è un brano di uno scritto di Mauro Bazzoni, operaio metalmeccanico di Firenze, da sempre in prima linea per la sicurezza sul lavoro. Leggevo questa bella lettera proprio in questi giorni e fra le tante frasi  mi è rimasta nella memoria la parte in cui dice: "Le chiamano "morti bianche", tanto non meritano che due righe sui quotidiani, si e no una citazione nel telegiornale". Niente di più vero, di solito queste notizie passano in secondo piano e ben presto ci si dimentica di coloro che la mattina sono usciti da casa, hanno salutato moglie e figli recandosi al lavoro e di li non hanno fatto più ritorno e i numeri di quelli che non hanno fatto più ritorno a casa nei primi sette mesi del 2016 sono agghiaccianti. Secondo
Statistiche morti sul lavoro
 regione per regione anno 2015
l'osservatorio di sicurezza sul lavoro Vega Engineering di Mestre sulla base degli elementi forniti dall'I.N.A.I.L
 i morti sono 562, una media di 80 morti al mese, 20 a settimana...una mostruosità!Non dimentichiamoci allora dei morti sul lavoro che anche la Garfagnana ha avuto e purtroppo ha ancora, le disgrazie che in questo ambito questo lembo di Toscana ha avuto sono molteplici: dai morti di inizio '900 per la realizzazione della ferrovia Lucca- Aulla, alle disgrazie avvenute nei decenni alla S.M.I (società metallurgica italiana) di Fornaci di Barga, alle tremende morti nelle cave di marmo garfagnine, fino ad arrivare alle due più gravi e pesanti (in quanto a perdita di vite umane) che sono accadute entrambe nel territorio comunale di Gallicano. Impossibile quindi dimenticarsi dello scoppio della polveriera S.I.P.E NOBEL, era il febbraio 1953 e nell'esplosione dello stabilimento gallicanese di polvere pirica trovarono la morte dieci persone(per questa storia clicca qui:http://paolomarzi.blogspot.it/esta-del-lavorola-tragedia-che.html). Ma c'è ancora un'altra strage di lavoratori, ormai quasi dimenticata e tornata agli onori della cronaca nel 2002, quando qualcuno nel piccolo paese di Bolognana si ricordò che sulla vecchia
Bolognana (foto Giro-Vagando)
strada che conduceva a Lucca, dietro ad una folta vegetazione c'era ancora un piccolo monumento neoclassico che ricordava l'estremo sacrificio di alcuni uomini, oramai la boscaglia l'aveva nascosto alla vista dei passanti e per di più anche la sua stabilità era quasi compromessa. Ma finalmente dopo 63 anni E.N.E.L (colei che al tempo commissionò l'opera), con la piena collaborazione e disponibilità sia della provincia che del comune decisero di restaurare il monumento e riportare alla memoria collettiva la storia di questi valorosi uomini. Sono passati oggi settantasette anni da quella disgrazia, era il 1939, era il periodo delle grandi opere fasciste e in un articolo sul "Popolo d'Italia" il primo luglio 1926 Mussolini scriveva: "Ho ancora una battaglia da vincere: è la battaglia per la restaurazione economica dell' Italia. Nelle altre battaglie che il regime fascista ha dovuto combattere, la vittoria è già stata conseguita...". La cosiddetta restaurazione economica passò attraverso opere di grande utilità, in tutta Italia presero il via progetti imponenti: costruzione di scuole, di edifici pubblici, di dighe e bonifiche di aree urbane altrimenti inutilizzabili. Parte di queste opere furono intraprese anche in Garfagnana e una di queste era proprio la costruzione di una galleria che era destinata a portare l'acqua dalla centrale di Gallicano all'impianto idroelettrico di Turritecava. Il cantiere dei lavori era appena fuori il paese di Bolognana, 
precisamente sulla
Centrale di Turritecava, cerchiato in rosso
l'uscita della galleria di Bolognana
vecchia strada provinciale Lodovica all'altezza di Rio Forcone, torrente che sfocia nel Serchio. La società elettrica ligure toscana al tempo meglio conosciuta come S.E.L.T Valdarno (n.d.r: la futura E.N.E.L) aveva commissionato i lavori a lotti per tre ditte, la D'Amioli, la Pighini e la Scardovi, era questa un'impresa a più mani dato che il lavoro da fare era piuttosto arduo, c'era d'aprire una galleria attraverso la montagna per quasi dieci chilometri. I lavori procedevano a rilento, a causa proprio delle difficoltà incontrate nel penetrare il monte, la data ultima di consegna dei lavori si stava infatti avvicinando inesorabilmente, la precisione e la disciplina fascista dell'epoca non ammetteva ritardi, perciò bisognava andare svelti e per questo furono organizzati tre turni lavorativi giornalieri. Testimonianze raccolte da Adolfo Moni (n.d.r: docente gallicanese dell'università della terza età)da un vecchio abitante di Bolognana raccontano che già poco prima della tragedia ci si era resi conto della pericolosità dei lavori e già nell'estate di quel maledetto 1939 ci furono due incidenti, uno causato da uno scoppio di glicerina utilizzata per fare le mine che determinò la morte di due persone,l'altro ci fu un po' più a sud verso Turritecava. Ma quello che successe la sera di
Sul luogo della tragedia il
restaurato monumento neoclassico del 1942
quel 24 novembre fu veramente spaventoso. Il terreno già di per se poco stabile in condizioni di tempo buono, subì un vero e proprio peggioramento con l'arrivo della stagione delle piogge, tutta quest'acqua formò nella terra una specie di "sacca" che causò lo smottamento nella galleria, un'operaio garfagnino rimase fin da subito sotto il fango, mentre altri sette rimasero imprigionati all'interno della galleria, era una squadra dell'impresa di costruzioni Scardovi di Bologna che era sotto la direzione di Alfredo Lepri di San Benedetto Val di Sambro (cittadina dell'Appennino bolognese)anche lui rimasto bloccato all'interno del

traforo. Furono sei lunghi giorni di agonia nei vani tentativi di liberare le persone dalla morsa del buio, del fango e dei sassi. Ogni secondo, ogni minuto e ogni ora erano preziosi per salvarli da una delle peggiori morti: l'asfissia. In quei giorni alcuni lamentarono che non fu fatto abbastanza per salvare i malcapitati e in molti si domandarono del perchè non furono usate quelle piccole gallerie "di servizio" che erano più a sud del paese utilizzate 
Particolare del monumento
per movimentare uomini e materiale e ancora, perchè non fu accettato l'appoggio della vicina metallurgica? La S.M.I si rese disponibile ad aiutare con dei tubi, che avrebbero portato aria all'interno della galleria ma in questo caso il testimone di Adolfo Moni chiude di netto la vicenda con lapidarie parole:- non vollero...non vollero far nulla!-. Le casse da morto arrivarono quando all'interno quei disgraziati erano ancora agonizzanti e dopo sei lunghi interminabili giorni finalmente i corpi furono estratti dal maledetto tunnel, tutti morti e a quanto pare alcuni non avevano ancora il rigor mortis...Finì così per sempre la vita terrena di quelli che oramai erano considerati dagli abitanti del posto dei paesani "aggiunti", infatti alcuni di questi avevano stretto amicizia con i lavoratori che per tutta la settimana mangiavano e dormivano in paese e nelle vicinanze. Fu per il piccolo borgo garfagnino e per la valle un vero e proprio dramma.

Nel 1942, a tre anni di distanza dai fatti e nei pressi del luogo della sciagura fu eretto dalla società elettrica un tempietto neoclassico in ricordo di quei morti. Si pensò come era usanza al tempo di scrivere su marmo una pomposa e retorica dedica funeraria:
-NELL'ARDUA OPERA DI ASSERVIRE IL FLUSSO DELLE ACQUE ALLA MAGGIORE POTENZA D'ITALIA, PER ATROCE INSIDIA DELLA NATURA, SACRIFICAVANO LA VIGOROSA GIOVINEZZA.

In memoria di:
  • Bertei Desiderio di Piazza al Serchio
  • Bertozzi Guglielmo di Sassi
  • Giuliani Amelio di Camporgiano
  • Cassettari Giovanni di Piazza al Serchio
  • Grassi Giovanni di San Romano Garfagnana
  • Lepri Alfredo di San Benedetto Val di Sambro (Bologna)
  • Mucci Renato di Bologna
  • Muccini Guerrino da Camporgiano
  • Rocchiccioli Amerigo di Castelnuovo Garfagnana 
  • Borgia Antonio di Minucciano
Questa è la fine di questa storia, ma a questa storia nel tempo ce ne sono state purtroppo aggiunte altre, fatte di altrettanti racconti, altrettanti nomi e altrettante facce...


Bibliografia:


  • "Morti Bianche" di Mauro Bazzoni
  • "INCIDENTE DRAMMATICO SUL LAVORO IN GALLERIA DEL 24 NOVEMBRE 1939 a sera" di Adolfo Moni da "L'Aringo-il giornale di Gallicano" n°5 marzo 2016

mercoledì 16 novembre 2016

La "Santa"inquisizione in Garfagnana e il singolare caso del suo governatore Fulvio Testi

Ha fatto più morti la Santa Inquisizione spagnola (che di santo aveva poco)che un intero anno di guerra in Siria. I numeri parlano chiaro, da uno studio di inizio 1800 di don Juan Antonio Llorente (che conosceva bene gli archivi del Santo Uffizio per avervi ricoperto cariche di responsabilità) nella sua "Historia critica de la inquisicion en Espana" parla di ben 340.592 vittime dalle origini (1480) al 1815, così tristemente ripartite: 31.913 individui arsi vivi, 17.659 sempre arsi, ma come si suol dire in "effige" (n.d.r: antica pratica giudiziaria consistente nel distruggere il ritratto di un reo che non si poteva catturare o giustiziare), 291.021 "riconciliati" alla fede cattolica o condannati a pene minori. Quattro secoli dopo è stato chiesto un tardivo perdono da Papa Giovanni Paolo II, era il dodici marzo del 2000 e di fronte al mondo e alla storia pronunciò parole dure come la pietra: - Per la parte che ciascuno di noi, con i suoi comportamenti che ha avuto in questi mali, contribuendo a deturpare il volto della Chiesa, chiediamo umilmente perdono per gli errori commessi nel servizio della verità attraverso il ricorso a metodi non evangelici-. Da questo perdono papale non si sottrae nemmeno la Garfagnana, anche la nostra terra cadde sotto l'inesorabile scure del Sant'Uffizio. L'inquisizione romana(o Sant'Uffizio), nacque 64 anni dopo la famosissima inquisizione spagnola, era il 1542 e Papa Paolo II con la bolla "Licet ab initio" dette il via ad una persecuzione senza pari in tutta la penisola italica, solo la Repubblica di Lucca si oppose sempre alla sua penetrazione sul suo territorio, ma questo non impedì la persecuzione di streghe e di eretici, portata avanti dai magistrati statali. Anche il ducato di Modena di cui faceva parte la maggioranza dei comuni garfagnini aveva avuto i suoi problemi nei confronti della nuova riforma, anche da queste parti non erano visti di buon occhio questi cambiamenti e anche qui un gruppo di dissidenti delle classi sociali più ricche e alcuni altolocati religiosi fece sentire la sua voce senza esito,
il simbolo dell'inquisizione
davanti ad una bolla pontificia c'era poco da fare, molti di questi dissidenti si rifugiarono per paura di essere perseguitati a sua volta nella (anche allora) neutrale Svizzera. Fu così, che volenti o nolenti nei primi anni del 1600 la complessa macchina dell'inquisizione cominciò a funzionare a pieni regime, specialmente (nello specifico) quando fu completato il trasferimento della capitale ducale da Ferrara (donata alla Santa Sede) a Modena. L'ufficio inquisitorio di Modena (così come gli altri) aveva il compito di salvaguardare l'integrità della fede e aveva una duplice funzionalità, dividendosi praticamente in due rami distinti, da una parte svolgeva attività giudiziaria come un vero e proprio tribunale, dall'altra faceva attività censoria, relativa al controllo della stampa, in particolare dei libri, i due ordini si fondevano quando venivano violate le leggi in materia e nella ricerca del colpevole, a capo di tutto questo apparato c'era l'inquisitore generale, che una volta insediato nella nuova capitale estense cominciò a fare un po' d'ordine e in una nota in calce del 1600 nell'"Inventario delle robbe del Sant'Ufficio dell'inquisizione di Modona" prende ufficialmente giurisdizione sui territori della Garfagnana: "Con occasione della felice memoria di Clemente VIII, furono presi il possesso della città di Ferrara e fatte tre inquisizioni: quella di Ferrara, quella di Reggio e quella di Modana. A Modana furono sottoposte l'insigne Abbazia di Nonantola, la città di Carpi e quella parte di Garfagnana che in temporale è soggetta alli signori duchi di Modana et in spirituale parte al Vescovato di Lucha et parte a quello di Sarzana". Si, perchè ad onor del vero era nato qui un vero e proprio guazzabuglio. La nuova sistemazione di questi territori non si concretizzò tanto facilmente, molti furono i ritardi. Cesare d'Este duca di Modena aveva in quel tempo conti aperti con i lucchesi che sfoceranno in due guerre, per di più nel territorio già esistevano alcune comunità che erano sotto Lucca(Castiglione, Gallicano Minucciano), ma non solo, il dilemma più grosso rimaneva nel fatto che l'autorità civile aveva sede a Modena, mentre religiosamente parlando la valle faceva capo a Lucca e a Sarzana e in una lettera del 29 settembre 1601 l'inquisitore generale di Modena scriveva alla sacra Congregazione di Roma dicendo che nonostante l'avvenuta ripartizione, la provincia della Garfagnana "non fu consegnata ne a questa ne a quella inquisizione, per il che al presente non riconosce inquisizione alcuna", fu risolto tutto in men che non si dica, tutti i territori ad ovest dell'Appennino erano sotto l'inquisizione modenese. Per un po' di tempo la Garfagnana godè nell'essere in questo limbo
La sede della Santa Inquisizione a Modena
oggi sede di un istituto d'arte
amministrativo, nessuno infatti in quel periodo fu indagato, incarcerato o condannato, ma i tempi stavano per cambiare. Una volta definite tutte le questioni, l'inquisizione stabilì in loco tre congregazioni locali, ognuna a capo aveva un vicario, una si stabilì a Castelnuovo Garfagnana, una al Sillico e un'altra alle Verrucole presso l'inespugnabile fortezza omonima. Grazie a questi sedi distaccate l'inquisitore si poteva mantenere in costante consultazione con il territorio, dove così poteva avere occhi e orecchie dappertutto e in realtà bastava veramente poco per accusare una persona. Le denunce potevano essere fatte tranquillamente, bastava "ho sentito dire che..." ed era fatta, non mancavano inoltre casi di procedimenti per auto denuncia, avete capito bene, ci sono frequenti casi in cui il "colpevole" dietro sollecitazione del prete confessore si presentava spontaneamente davanti all'inquisitore, naturalmente era possibile procedere anche per ufficio senza denuncia alcuna e una volta constatata la denuncia e indagato il presunto colpevole si svolgeva il processo che si faceva sempre nella sede centrale di Modena, davanti all'inquisitore generale. Il processo avveniva in una o più sedute, in varie fasi, ciascuna delle quali eventualmente conclusiva, con l'interrogatorio dei testi e dell'imputato, in buona parte dei casi per i fatti più gravi come l'accusa di stregoneria si arrivava quasi sempre alla confessione del reo, estorta con la tortura, che (fatto curioso) doveva essere fatta sotto parere medico, l'imputato doveva essere in buona salute per affrontare tale supplizio...e che supplizio!!! I metodi di tortura erano fra i più svariati e fantasiosi. Fra i più diffusi c'era il cosiddetto "tratto di corda" che consisteva nel legare con una lunga corda i polsi del malcapitato dietro la schiena 
e poi nell'issare il corpo per mezzo
il famoso "tratto di corda"
di una carrucola, per aggravare gli effetti la corda veniva ripetutamente allentata di colpo e poi bloccata, ciò provocava lo strappo di muscoli e la rottura delle ossa delle braccia. Altra tortura molto presente nei documenti era la
"pulizia dell'anima", questa più che una tortura era proprio un atto dovuto, se mi posso permettere il termine, dal momento che l'anima di una strega o di un eretico si credeva corrotta e sporca, andava allora pulita, prima del giudizio le vittime venivano forzate a ingerire acqua calda, carbone e sapone, la famosa frase "sciacquare la bocca con il sapone" risale proprio a questa tortura, non di meno si può dimenticare "l'annodamento", tortura specifica per donne, si attorcigliavano i capelli a un bastone dopodichè robusti uomini ruotavano l'attrezzo in modo veloce, provocando enormi dolori, in alcuni casi si arrivava a togliere lo scalpo. Risparmio al sensibile lettore di continuare in questo macabro elenco, ma assicuro che la lista sarebbe ancora lunghissima. Rimane il fatto che per terminare questa immane sofferenza l'imputato confessava ed era sicuramente meglio morire che continuare a patire in questo modo. La verbalizzazione di confessione portava quasi sempre il segno di croce come vera e propria firma, visto che era quasi sempre il popolo che cadeva sotto la ferocia dell'inquisizione. La sentenza di condanna o di assoluzione veniva emessa dall'inquisitore generale e dal vescovo competente, anche se l'ultima parola spettava sempre alla Congregazione Romana. Le pene non si concludevano sempre con la condanna a morte, a chi andava bene "pagava" spiritualmente con l'obbligo di partecipare a messe varie e rosari, ad altri toccava di pagare moneta suonante, tale pena toccava spesso agli ebrei che sapendoli ricchi e benestanti venivano dissanguati dei loro averi, non si disdegnava come pena nemmeno l'esilio perpetuo o temporaneo, la pubblica fustigazione, la condanna ai remi per alcuni anni sulle navi pontificie e il carcere secolare. La Garfagnana però può ritenersi fortunata. Nei primissimi anni del 1600 conosciamo solo cinque procedimenti e solo due contemplavano l'accusa di stregoneria, il più famoso rimane quello riferito alle streghe di Soraggio(per leggere la storia clicca qui http://paolomarzi.blogspot.itle-streghe-di-soraggio-un-processo-di.html) . Per il resto, in tutto il restante secolo sono circa trecento i processi svolti a carico dei garfagnini. Le accuse variavano, dalle bestemmie, al possesso e lettura di libri proibiti, all'inosservanza dei precetti della Chiesa, bigamia, sollecitazione erotica. Per
La lista dei libri proibiti
dal Sant'Uffizio
quanto riguarda i possedimenti lucchesi, i procedimenti sono solamente quattro, tre dei quali colpiscono Minucciano e uno, una garfagnina abitante a Lucca, anche in questi processi la stregoneria era estranea. Ma fra tutti questi poveri diavoli ci fu un personaggio particolare ad essere accusato di preposizione ereticale, lui era Fulvio Testi (n.d.r: a cui è intitolata la via principale del centro storico di Castelnuovo), pochi forse conoscono questo personaggio che fu Governatore di Garfagnana dal 1640 al 1642, anch'egli poeta, proprio come il suo più illustre predecessore Ludovico Ariosto. Infatti fu lui a prendere il suo posto nella rocca castelnuovese. Fulvio Testi fu un personaggio scomodo, molto vicino più ai Savoia che ai suoi "padroni" gli Estensi, in aggiunta era pure di idee anti spagnole (nazione cattolicissima...)e forse proprio per questi motivi rimase nelle maglie del Sant'Uffizio quando era reggente di Garfagnana. Correva il mese di marzo, anno di grazia 1641, quando venne inviata dal Vicario Sanzio Corsi una lettera all'inquisitore modenese Padre Giacomo Tinti da Lodi, questa missiva riportava le confidenze del capitano di Camporgiano, dove secondo lui, il governatore Testi avrebbe affermato: -
che sia lecito a un principe o altro signore far ammazzare chierici (n.d.r: uomini di chiesa)di qualsivoglia sorte senza peccato per buon governo, e che così gli aveva detto un teologo-. Nonostante tutto questa vicenda non finì in un processo, sappiamo bene come vanno le cose e oggi come ieri il peso politico conta e contava sempre...La suddetta lettera parti senza dubbio verso Modena e verso il padre inquisitore, ma insieme a quella furono mandati in dono a quanto pare "un quartuccio di
Fulvio Testi
ritratto di Francesco del Cairo
cappari minuti"
, l'inquisitore fu "preso per la gola" e la severità con cui di solito operava fu calmata con l'ingordigia e la...ragion di stato. Al povero Fulvio Testi comunque le cose non andarono bene negli anni che seguirono. Le sue simpatie filo francesi verso la casa savoiarda furono scoperte nel 1646 dal duca di Modena e per questo imprigionato nella fortezza cittadina con l'accusa di alto tradimento, li troverà la morte sette mesi più tardi. Ma questa è un'altra storia, rimane il fatto di una verità assoluta, quando si dice che la più grande arma di distruzione di massa è l'ignoranza...



Bibliografia:

  • "Historia critica de la inquisicion de Espana" 1817, Juan Antonio Llorente
  • Archivio Statale di Modena
  • "L'inquisizione in alcuni territori estensi in particolare riferimento alla Garfagnana" di Elena Pierotti
  • "Ursolina la Rossa e altre storie" Oscar Guidi

mercoledì 9 novembre 2016

Nei meandri di un terremoto: Garfagnana 7 settembre 1920. Storia di solidarietà, malgoverno e truffe.

Sono giorni tristi, tristissimi per il nostro Paese, i terremoti
Garfagnana devastata, il giorno dopo
(collezione Paolo Marzi)
hanno sconvolto il centro Italia e le nostre anime. Città famose in tutto il mondo per la loro rinomata cucina, per la loro immensa arte e per i loro prodotti sono sparite da un minuto all'altro e dove prima si potevano ammirare stupendi paesaggi, adesso si possono vedere solo cumuli di macerie. La tragedia più grande rimane però quella relativa alle vittime e alle persone che sono rimaste senza casa. La vicinanza a questi luoghi e a queste gente noi garfagnini la sentiamo ancor di più sulla nostra pelle, poichè come tutti ben sappiamo viviamo in una zona ad alto rischio sismico e nel vedere queste immani disgrazie pensiamo a quello che potrebbe essere, vivendo nella speranza che questo non accada mai, ed è per questo che ad ogni tremore balziamo fuori da casa e puntualmente ad ogni piccolo o grande movimento della terra ci ritornano alla memoria i racconti dei nostri nonni sul quel drammatico terremoto del 7 settembre 1920 che colpì la Garfagnana e non solo. Ho già avuto modo di raccontare e scrivere su questo nefasto terremoto, due anni fa feci un apprezzato articolo e affrontai il tema riportando la pura cronaca e le testimonianze di quei giorni (leggi cliccando qui http://paolomarzi.blogspot.it/-settembre-1920-il-grande-terremoto-i.html). Oggi voglio parlare sempre di quel terremoto, ma voglio approfondire certi aspetti che poche volte sono stati affrontati, in modo da fare così un paragone con quello che succede attualmente e vorrei quindi entrare nelle viscere di quel sisma e vedere come si svilupparono i soccorsi, quali furono gli interventi e gli aiuti dello Stato e scrivere ancora degli altri terremoti che colpirono la nostra valle, tutti ci ricordiamo "di quello del '20", perchè il più vicino ai giorni nostri, ma altri e di grossa intensità e con relativi morti ci furono anche nei secoli passati, in queste righe ne farò un veloce elenco.

7 settembre 1920 ore 7:56, un sisma di magnitudo 6,48, colpì inesorabilmente un area di 160 Km2, in particolare la Garfagnana e la Lunigiana. L'intensità all'epicentro fu calcolata intorno al IX-X grado della scala Mercalli. I morti ufficialmente furono 171 e i feriti 650. Con queste fredde parole si può riassumere brevemente il terremoto di quel maledetto settembre 1920. Andiamo invece dentro a
(collezione Paolo Marzi)
questo sisma e analizziamo attraverso le relazioni tecniche dell'epoca quello che accadde.

I primi telegrammi dei prefetti alla direzione generale di pubblica sicurezza del Ministero dell'Interno furono inviati la mattina stessa e sottolineavano la violenza del terremoto, ma ancora non inquadravano bene la situazione generale, al momento non era stata valutata bene la distribuzione degli effetti e la gravità del danno. Solo a tarda mattina da Massa, la provincia più colpita e di cui al tempo faceva parte la Garfagnana, il prefetto De Berardinis segnalò i primi preoccupanti dati. Alle 15:30 anche il prefetto Bodo da Castelnuovo Garfagnana inviava un ennesimo e lapidario telegramma : -Disastro sempre più maggiore. Comuni con case crollate inabitabili, richiesta soccorsi urgenti-. Molti paesi furono rasi al suolo, fra le località più colpite naturalmente Villa Collemandina, Barga e Castelnuovo, gli ingegneri dopo svariati sopralluoghi constatarono che le case erano fatte generalmente con materiali scadenti, dato che erano costruite con grossi sassi di fiume tondeggianti, inoltre anche le malte non erano buone, non considerando poi i numerosi difetti di irrazionalità al momento della costruzione, in poche parole già partivamo con un patrimonio abitativo estremamente fragile, d'altronde l'ultimo grande terremoto fu quello del 1837, ben ottanta anni prima con epicentro nelle Alpi Apuane. La macchina dei soccorsi partì in ritardo, grandi furono le difficoltà organizzative, in buona parte giustificabili con l'interruzione delle comunicazioni telegrafiche e dalle frane che caddero sull'unica strada che portava nella valle, peggio ancora era per tutti quei paesi garfagnini sparsi per la montagna. I primi ad arrivare furono i giornalisti de "La Nazione" e ciò che comparì davanti ai loro occhi è ben descritto in questo stralcio di articolo che inviarono alla redazione di Firenze: "A mano a mano che ci inoltriamo nella regione colpita, tutto conferma, purtroppo la fondatezza delle prime notizie. I paesi che si sono successivamente attraversati con la nostra macchina, mostrano sempre più gravi gli effetti della formidabile scossa, che ha scrollato tutto il sistema montuoso che corona le Valli del Serchio e dei suoi affluenti. E'una triste teoria di rovine che mette sgomento nell'animo, un inseguirsi di scene di dolore e disperazione che ci procura una pena infinita
(collezione Paolo Marzi)
per l'impossibilità di portare soccorso e un aiuto che possa lenire in parte il danno irreparabile dell'immensa rovina"
. Finalmente la situazione si sbloccò, dopo una prima sottovalutazione delle conseguenze dell'evento ci si cominciò a rendere conto della grande disgrazia. Le prime squadre di soccorso ad arrivare furono 
i marinai della nave Cavour provenienti da La Spezia, subito si prodigarono allo sgombero delle macerie, al recupero dei cadaveri e al salvataggio dei superstiti. Già la sera del 7 settembre sempre da La Spezia fu inviato un treno speciale per ricoverare gli sfollati e il giorno seguente arrivarono altri due treni con a bordo, tende, viveri, medici e medicinali, attrezzatura da sgombero e ingegneri per la valutazione del danno e per gli interventi di ripristino. La stazione ferroviaria di Aulla era diventato il centro di smistamento di tutto il materiale, umano e non. Al tempo, è giusto sottolinearlo non esisteva il Dipartimento di Protezione Civile e veniva nominato dal governo nel momento di necessità colui che doveva coordinare i soccorsi e tale compito in questo caso fu dato al sotto segretario ai Lavori Pubblici onorevole Bertini che assunse sul posto l'alta direzione e il coordinamento dei servizi, mentre al Ministero dell'Interno e alla direzione generale della sanità pubblica erano di pertinenza i servizi sanitari, la parte che riguardava i generi alimentari e il vestiario spettava sempre al ministero dei Lavori Pubblici. Il gran cuore degli italiani anche in questo caso si dimostrò tale, le forze armate come consuetudine svolsero un grande lavoro per fronteggiare l'emergenza, ma non solo, squadre di volontari arrivarono da La Spezia, Massa, Carrara e ancora giunsero squadre di pubblica assistenza, insieme ad un migliaio di soldati di fanteria, zappatori del genio di Firenze, Piacenza, Bologna, Reggio Emilia che operarono alternandosi fino al dicembre 1920. Un ruolo importantissimo lo svolsero i pompieri venuti da tutte le regioni limitrofe, rimarrà nel cuore di tutti il contingente inviato dal comune di Rimini che intervenne senza mai fermarsi, abbattendo gli edifici pericolosi per la pubblica
I pompieri del comune di Rimini
incolumità  e puntellando i muri e le case che potevano forse essere recuperate, aiutarono la popolazione nel compito del recupero degli effetti personali e si inerpicarono nei luoghi più nascosti e impervi della valle per portare soccorso, caricandosi gli attrezzi in spalla o a dorso di mulo. Ma purtroppo nell'avversità non ci furono solo note liete, tutt'altro. Nei giorni seguenti al terremoto si avviò il dibattito parlamentare in quel di Roma per emanare provvedimenti in favore delle popolazioni colpite dal sisma. Venne chiesta dall'assemblea presieduta dal primo ministro Giovanni Giolitti di adottare l'applicazione delle leggi fatte in occasione dei terremoti di Messina del 1908 e della Marsica del 1915, arrivando di conseguenza all'emanazione del Regio decreto legge, 23 settembre 1920 n° 1315 "Provvedimenti per i danneggiamenti dal terremoto 6-7-settembre 1920", in base a questa delibera lo stato si impegnava a provvedere interamente ai lavori per la tutela della pubblica incolumità (demolizioni, puntellamenti, sgomberi di aree pubbliche), come pure alla realizzazione di ricoveri provvisori per le persone senza tetto e si prendeva l'onere di applicare le agevolazioni governative per la riparazione degli edifici pubblici (sussidi del 50% e mutui di favore) e privati (mutui di favore e contributi diretti e riparazione gratuita per i soli non abbienti, però nel limite massimo di 5000 lire). Ed è qui, a questo punto che nasce l'ennesimo papocchio all'italiana. La ricostruzione di tutto ciò fu affidata su delega dello stato all'U.E.N (Unione Edilizia Nazionale) nata all'indomani del catastrofico sisma messinese, quest'ente nacque appunto come consorzio di proprietari danneggiati e aveva lo scopo sostituendosi ai privati di facilitare sia la costruzione, sia la riparazione della casa danneggiata, basando la sua attività su due tipi di contratto: il primo riguardava il singolo cittadino e prevedeva la cessione incondizionata dei diritti del proprietario a fronte della ricostruzione, trasformando di fatto il proprietario stesso in un affittuario perpetuo, la seconda riguardava gli edifici pubblici, dove anche qui avrebbe acquisito diritti di non poco conto. Anche in Garfagnana fu dunque 
I primi soccorsi in arrivo alla
stazione di Castelnuovo
(foto collezione Silvio Fioravanti)
messo in pratica il "solito servizietto", la ricostruzione riguardò 214 case, ma fu proprio durante la ricostruzione di queste case che finalmente scoppiò lo scandalo che travolse l'U.E.N, che portò il governo a decidere la sua liquidazione in breve tempo, furono scoperte fra le altre cose speculazioni legate all'acquisto di fabbricati distrutti, appartenuti a chi non aveva le possibilità economiche per poterli rimettere in sesto. Nel frattempo e in attesa di queste riedificazioni i garfagnini furono alloggiati in baracche di legno, in totale ne furono costruite 669 per complessivi 1920 vani, per un importo complessivo di oltre sette milioni di lire, tale costo comprendeva anche la manutenzione per due anni e la dotazione di cucinette in muratura o di stufe-cucina. Dai privati poi ne furono allestite altre 121, mentre per uso adibito a edificio pubblico ne furono costruite 50, delle quali 34 dalle amministrazioni locali e 16 dai comitati di beneficenza. Alla fine della storia nonostante un decreto legge che fissava termini e provvedimenti in favore dei danneggiati, la maggior parte della gente rimase per molto tempo in attesa dei contributi da parte dello stato, solo chi aveva disponibilità economica (pochi)potè affrontare in proprio (in attesa dei soldi del governo) la ricostruzione delle proprie case. La situazione cominciò a tornare alla normalità tre
Baracche terremotati a Fosciandora
anni dopo il tremendo sisma del 7 settembre, grazie sopratutto a due ennesimi decreti legge con cui venivano affrontati con risolutezza i problemi dei terremotati garfagnini, fra i più significativi e importanti fu l'introduzione della legge n° 2089 del 23 ottobre 1924 che finalmente introduceva nuove norme e regole per le costruzioni nelle aree classificate sismiche.

Per arrivare a questa legge ci vollero distruttivi terremoti in tutta Italia, che colpirono più volte nei secoli passati anche la nostra valle . Guardiamo allora un elenco dei maggiori "terremoti garfagnini":

  • 7 maggio 1481 Lunigiana e Garfagnana VIII, magnitudo 5,4. La scossa danneggiò particolarmente l'alta Lunigiana provocando numerosi morti.La scossa fu sentita anche a Lucca
  • 6 marzo 1740 VIII, magnitudo 5,7 Garfagnana. Il terremoto colpì sopratutto la Garfagnana, ma l'area dei danni si estese anche alla Versilia e all'Appennino modenese. Fra i centri più colpiti Barga e i suoi dintorni, ci furono tre morti, crollarono diverse case e molte furono danneggiate
  • 23 luglio 1746 VII, magnitudo 5,3. Le località maggiormente colpite furono Barga e Castelnuovo Garfagnana. La sequenza dei
    L'ingresso al duomo di Barga
    puntellato
    (foto bargainfoto.altervista.org)
    terremoti cominciò il 9 luglio e durò fino a ottobre. La popolazione per mesi si trasferì in campagna e costruì baracche
  • 21 gennaio 1767 Fivizzano VII,magnitudo 5,4. I danni più gravi le subì Fivizzano, dove ci furono gravi lesioni alle abitazioni e il crollo di molti comignoli, oltre ai danni alle chiese e agli edifici pubblici. Era tempo di carnevale i festeggiamenti vennero sospesi per far posto a riti devozionali
  • 11 aprile 1837 Alpi Apuane IX-X, magnitudo 5,6. Il terremoto colpi il versante nord orientale delle Alpi Apuane, al confine fra Garfagnana e Lunigiana. La scossa causò gravi danni nei territori di Fivizzano e Minucciano, dove si contarono pure delle vittime. Fra i paesi più danneggiati Ugliancaldo dove crollarono quasi tutti gli edifici e dove si contarono cinque morti e diciotto feriti.
Sandro Pertini, l'amato presidente della Repubblica, dopo il sisma che colpì l'Irpinia nel 1980 ebbe a dire: "Qui non c'entra la politica, qui c'entra la solidarietà umana, tutte le italiane e gli italiani devono mobilitarsi per andare in aiuto di questi fratelli colpiti da questa nuova sciagura. Perchè credetemi, il modo migliore per ricordare i morti è quello di pensare ai vivi" 




Bibliografia
  • Il terremoto della Garfagnana del sette settembre 1920 a cura della Protezione Civile

martedì 1 novembre 2016

Gaetano Bresci, un regicida nella Valle del Serchio

-29 luglio 1900, il sovrano,sua maestà Umberto I di Savoia, salutati ed incitati gli atleti presenti a quella serata, tornò nella sua carrozza insieme ai due generali, il ministro della Real Casa,Ponzio Vallia e Felice Avogadro di Quinto, aiutante di campo del re. I tre partirono in direzione della Villa Reale alle 22 e 30 e, tra le ovazioni della gente e il suono squillante della Marcia Reale, partirono tre–o quattro colpi di rivoltella verso la persona del Re che, pochi minuti dopo, si accasciò e spirò di fronte ai due generali attoniti. La popolazione lì radunata scorse l’attentatore e tentò di linciarlo, questi da prima cercò di dileguarsi passando per un turista, avendo al collo una macchinetta fotografica, poi per sua fortuna venne tratto in salvo dal maresciallo dei Carabinieri,Giuseppe Braggi, che lo trasse dai pugni e dai calci sferrati dalla gente e lo tradusse nella Regia Caserma monzese. Fuori dalla caserma la popolazione indemoniata gridava a l’unisono: "morte all’attentatore". Alcuni cittadini presenti all'attentato raccontano:Ero vicino alla carrozza– narra alla stampa il testimone Giuseppe Buggioli – il Re era in piedi, stava sedendosi, quando il primo colpo lo ferì nella parte posteriore del collo; il Re si voltò istintivamente, e fu colpito al petto da altri due colpi, alla regione cardiaca. Accasciandosi, rivolto al cocchiere ordinò: "Avanti, Avanti”-
Gaetano Bresci

Questa è la cronaca di quel tragico 29 luglio 1900 e dell'assassinio del re d'Italia Umberto I, avvenuto a Monza dopo un concorso ginnico promosso dalla società sportiva "Forti e liberi". Così, con questo fatto clamoroso e mai più ripetuto gesto il nuovo secolo si aprì per gli italiani, dopo le due guerre mondiali per la nostra nazione fu l'evento più sconvolgente e a commetterlo fu un anarchico toscano: Gaetano Bresci. Per conoscere la personalità di Bresci basta raccontare uno degli ultimi episodi che lo vide in vita, quando dopo il regicidio fu condotto in carcere nell'Isola di Santo Stefano(n.d.r:isola fra il Lazio e la Campania), ai marinai che lo conducevano in prigione fu dato il tassativo ordine di non scambiare alcuna parola con l'assassino, ma il marinaio Salvatore Crucullà infrangendo la consegna domandò:-Perchè hai ammazzato il re?- Bresci lo guardò con compassione e gli rispose:-L'ho fatto anche per te...-, non comprendendo a fondo il significato di quelle parole, tutti si misero a ridere, il regicida si arrabbiò e accusò la sua scorta di ignoranza politica e sociale e chiuse lapidario con una frase:-Comunque sia io passerò alla storia, voi sarete polvere!-
Questo era il temperamento di Gaetano Bresci e mai frase più
Il momento dell'attentato al re

veritiera. Ma cosa c'entra uno degli assassini più famosi d'Italia con la Valle del Serchio? Tanto, dal momento che con ogni probabilità proprio nelle nostre terre cominciò a maturare l'idea di assassinare il re. Guardiamo tuttavia come arrivò a stabilirsi a Ponte all'Ania, frazione nel comune di Barga, facendo un po' di antefatto per comprendere così al meglio tutta la situazione.
Bresci nacque a Coiano, vicino Prato il 10 novembre 1869, destino volle che nascesse esattamente un giorno prima di Vittorio Emanuele III (n.d.r:nato l'11 novembre 1869) colui che diventerà re d'Italia per sua mano dopo i fatti di Monza. Il padre Gaspare era un agiato contadino, proprietario di un piccolo podere e di una casa a tre piani. Il giovinetto cominciò ben presto a lavorare e a undici anni era già "al pezzo" come apprendista in quello che a Prato era conosciuto come il "fabbricone", ovverosia l'industria tessile Hosler. A quindici anni Gaetano si dimostrava già sveglio e pronto, tanto da essere fatto operaio specializzato e fu proprio in quegli anni che cominciò a frequentare i circoli anarchici della città. La "marmaglia", così come venivano chiamati gli anarchici
Il re Umberto I
dalle forze dell'ordine era tenuta costantemente sott'occhio e nel 1892 ci fu la prima occasione per tarpare le ali alle idee rivoluzionarie di quel "giovanotto impenitente" del Bresci. L'opportunità capitò quando ci fu da difendere un fornaio che teneva aperta la bottega oltre l'orario di chiusura, Gaetano non esitò ad insultare le guardie, si beccò immediatamente quindici giorni di reclusione, ma non pago di tutto ciò prese parte anche agli scioperi che portarono all'occupazione del "fabbricone", una volta terminato lo sciopero si licenziò per poi in seguito venire fermato e nuovamente arrestato "per misure di pubblica sicurezza" e condannato nel 1893 al confino nella lontanissima isola siciliana di Lampedusa. Durante il processo uno dei suoi datori di lavorò dirà:- onestamente devo riconoscere che come operaio ce ne erano pochi come lui-, ma questo non bastò a trovare un nuovo lavoro, quando a distanza di oltre un anno fu liberato insieme ai suoi 52 compagni anarchici, grazie ad una amnistia concessa per il disastro di Adua (n.d.r: guerra coloniale in Africa). Ecco a questo punto entrare in scena la Valle del Serchio e Ponte all'Ania. Gli fu infatti suggerito dagli ambienti anarchici di sparire un po' dalla circolazione e di rimanere tranquillo e gli fu consigliato di trasferirsi in "una sperduta valle" a nord di Lucca, li, in un piccolo paese di nome Ponte all'Ania vi era già uno stabilimento laniero: "Michele Tisi & C", con la sua esperienza lavorativa sicuramente sarebbe stato assunto, così fu. Alcuni nel paese negli anni 30 del secolo passato si ricordavano ancora (dopo i fatti del 29 luglio) di quel giovane elegante dalle idee un po'strane, che era soprannominato da tutti "il paino", il damerino. Si, perchè Bresci era un'anarchico atipico, dai gusti borghesi, sfoggiava abiti di
Una vecchia foto di Ponte all'Ania
di 75 anni fa
buon taglio e foulard di seta di ottima fattura e frequentava spesso i barbieri e i ristoranti della zona. Arrigo Petacco (n.d.r:noto storico) nel suo libro "L'anarchico venuto dall'America" sostiene che in questo modo di vivere influì il ricordo di un agiatezza perduta, che da un lato lo spinse a manifestare certi gusti borghesi e dall'altro aumentò il livore e la rabbia verso la medesima classe sociale ritenuta responsabile della rovina della sua famiglia. Si racconta ancora che andava in giro per Ponte all'Ania e nei paesi vicini con la sua rivoltella, a quanto pare come diceva lui regolarmente denunciata. Uno dei suoi passatempi preferiti era proprio andare nel vicino greto del torrente Ania a sparare e mai nessun colpo rimaneva fuori dal bersaglio, inoltre quello che colpiva in quelli che lo avevano conosciuto era la sua ottima cultura e il suo spirito godereccio, indimenticabili rimarranno le gite domenicali da lui
Piazza Grande. La Lucca di inizio 900, quando
veniva frequentata da Bresci
organizzate per andare a Lucca, gite a base di...vino e donne. Già le donne, insieme al tiro al bersaglio con la pistola questo rimaneva il suo passatempo preferito, a dimostrazione ancor di più, (sempre ce ne fosse stato bisogno) del suo spirito indipendente e libertino, in pratica era un vero "tombeur de femme", ne sapevano qualcosa le operaie del lanificio locale "Michele Tisi" e fra le svariate storielle amorose la relazione più infuocata e passionale fu con una certa Maria, dalla quale nell'estate 1897 ebbe addirittura un figlio che nacque proprio nel paesello del comune di Barga. La cosa non fu presa bene da Gaetano Bresci, nell'autunno del solito anno fece ritorno a Coiano a casa del fratello per chiedere in prestito 30 lire, poi ritornò a Ponte all'Ania per poche settimane, qui prese la decisione di licenziarsi dal lanificio e di ritornare nuovamente alla casa natale dove annunciò alla sua famiglia di volersi trasferire in America. Nessuno capì mai l'avventata decisione o meglio nessuno la capì al momento. Molti pensarono a due ipotesi: la prima fu il fuggire dalle responsabilità di padre, lasciando il pargolo solamente alle cure della povera Maria in quel di Ponte all'Ania, la seconda tesi dice che il richiamo degli anarchici fuggiti negli Stati Uniti fu forte, con ogni probabilità entrambe le teorie erano esatte e comunque sia nel febbraio del 1898 arrivò in America, nel New Jersey a Paterson, quella che era
La città di Paterson in New Jersey
considerata la patria dell'anarchia italiana, qui ritrovò molti compagni del "fabbricone" e nuovi amici con cui condividere le idee rivoluzionarie, con queste idee in testa e con una pistola Hamilton and Booth calibro 9 in tasca ripartì dall'America nel maggio del 1900. Tornò in Italia per vendicare i drammatici fatti accaduti nel 1896 
(quando lui era ancora a Ponte all'Ania) nel corno d'Africa e sopratutto tornò per lavare l'onta degli avvenimenti del 1898, quando il Regio Esercito a Milano represse nel sangue le proteste popolari, sparando con le artiglierie sui civili e in conseguenza a questi fatti proprio il Re Umberto I fu colpevole (secondo gli anarchici) di aver concesso al generale Bava Beccaris (comandante in quei giorni)l'alta onorificenze del Collare dell'Annunziata per aver "pacificato Milano". Così si arrivò a quel fatidico giorno di luglio di inizio secolo e a tutte le sue inevitabili conseguenze, Bresci dichiarò sempre di aver agito da solo senza complici. Nel suo processo che ebbe inizio un mese dopo l'attentato (29 agosto 1900), l'avvocato difensore Francesco Saverio Merlino si accalorò rivendicando l'infermità mentale che fu smentita clamorosamente dal Bresci stesso, che affermò per tutta risposta di non aver ucciso un Re, ma un'idea. Tutto questo gli costò però la condanna all'ergastolo con l'aggiunta di sette anni isolamento.
L'originale pistola Hamilton
and Booth usata da Bresci
che uccise re Umberto I
(museo crimonologico di Roma)
Il 22 maggio del 1901 l'ufficio matricola della Regia Casa di Pena di Santo Stefano registrò la morte del detenuto "Gaetano Bresci fu Gaspero, condannato all'ergatolo per l'uccisione a Monza del re d'Italia". Il secondino dichiarò di essersi allontanato per pochi minuti, poichè il detenuto doveva espletare bisogni fisiologici, al suo ritorno il Bresci era già cadavere, impiccato con un tovagliolo alla sbarra della finestra. Ma con un tovagliolo non ci si può avvolgere il collo, fare il nodo scorsoio e poi legare l'altro capo all'inferriata! La direzione dichiarò comunque il suicidio. I sospetti su questa morte rimangono tutt'oggi, il suo corpo ad esempio scomparì nel nulla, si pensò fosse stato sepolto nel cimitero del
La macchina fotografica di Bresci e gli
effetti personali al momento dell'arresto
(museo criminologico di Roma)
carcere senza alcun riferimento e targhetta, ma con ogni probabilità fu invece gettato in mare, scomparvero anche documenti privati mai più ritrovati, ad alimentare ulteriormente i sospetti furono gli strani e repentini scatti di carriera delle autorità coinvolte nel "caso Bresci".

Questa, comunque sia è la storia dell'anarchico pratese che visse a Ponte all'Ania. Rimangono in ogni caso domande senza risposta: agì veramente da solo? Fu dunque "suicidato" in carcere? Gli fu fatto pagare il regicidio? Su commissione di chi? Sembrano interrogativi scolpiti nella pietra dura della storia, che non troveranno mai risposta certa. 



Bibliografia

  • Arrigo Petacco, "L'anarchico che venne dall'America", Mondadori, 1970 
  • Tommy Cantafio "Gaetano Bresci e il mistero della morte del re d'Italia" Associazione culturale misteri d'Italia, aprile 2016
  • Nazareno Giusti "L'anarchico Gaetano Bresci a Ponte all'Ania" Il Giornale di Barga 12 settembre 2010