mercoledì 28 luglio 2021

Animali fantastici (garfagnini): dove trovarli

Il titolo di questo articolo si rifà ad un libro(poi diventato
film)di J.K Rowling
 , la famosa autrice della saga letteraria fantasy di Harry Potter. "Animali fantastici: dove trovarli", questo è il titolo esatto, faceva parte di quella categoria di libri definita  "pseudobiblium", ossia un libro immaginario citato come vero in un'opera letteraria reale(n.d.r: nel 2001, anno in cui è stato pubblicato il racconto perse tale definizione)
. Difatti questo libro, nei romanzi di Harry Potter si pone come uno dei libri di testo richiesti fin dal primo anno di Hogwarts (l'istituto scolastico che frequenta il maghetto). Il saggio (nella fantasia della scrittrice) fu scritto nel 1918 dal famoso "magizoologo" Newt Scamandro e descrive settantacinque specie di animali magici (il Velenottero, lo Snaso, il Purvincolo, il Moonclaf e così via). Tante informazioni su di essi furono raccolte proprio da lui attraverso i tanti viaggi. Viaggi che poi si trasformarono in ricerche, fatte presso "l'Ufficio di ricerca e regolamentazione dei draghi". Questi studi nel 1979 portarono poi lo studioso a guadagnarsi l'Ordine di Merlino di seconda classe... Bhè, che dire, in Garfagnana e nelle Apuane non esiste alcun libro a riguardo e nemmanco un "magizoologo" per studiare queste strane creature, in compenso esiste però una forte tradizione orale di leggende, racconti e favole, che senza dubbio ci fa dire che la nostra "collezione" di animali fantastici non ha nulla a che invidiare a quella del suddetto libro. Pertanto ecco a voi un bel
 viaggio negli animali fantastici garfagnini. Direi di cominciare dai Gatti Streghi. Una delle ultime volte che furono avvistati fu grazie ad un uomo di Palagnana che tornando a casa lungo la strada che scende da San Pellegrinetto vide in prossimità del paese dei
gatti neri appollaiati su un noce. L'uomo allora capì subito che erano proprio i gatti streghi e d'improvviso il coltello che aveva in tasca lo piantò sul tronco del noce. Subito i gatti si trasformarono in persone, persone che l'uomo conosceva bene. Gli strani uomini sul noce si cominciarono a dimenarsi e ad agitarsi e raccomandarono al passante di non rivelare la loro identità, se non avesse fatto ciò gli avrebbero dato il malocchio a vita. Sul versante del Monte Procinto (anzi, proprio sulla sua cima) di notte si sente uno svolazzare di grossi uccelli neri, sono gli Sputasecchi. Questi strani volatili hanno l'abitudine di posarsi sui rami degli alberi e di sostare lì fino alle ultime ore della notte.
Al povero disgraziato che passa sotto questi rami dove loro si sono posati, può capitare di sentirsi rivelare verità agghiaccianti o segreti terribili. Per evitare questi incontri il viandante di turno può rilevare la loro presenza grazie ad alcune accortezze: a un ramo che si spezza, un sasso che rotola o anche da una stella che sfreccia nel cielo. Questi esseri, così come i gatti streghi, assumono forma umana e si presentano come donne altissime vestite di nero, 
senza capelli e con le braccia lunghe. Sempre ed a proposito di donne esiste la Donna Bodda (metà, appunto donna e metà rospo) vive per lo più nelle acque stagnanti, nonchè dentro le grotte, a patto che li ci siano delle pozze d'acqua. Per non incappare nel pericolo di incontrarla, maggior attenzione deve essere fatta soprattutto sul far della sera o dopo un'abbondante pioggia. Infatti dal pantano e dalle acque ferme e fetide si può udire un gorgoglio strano, da li, come code di serpente, lunghe dita  strisceranno fino ad avvinghiarsi alle gambe del malcapitato. Comunque sia,
 fra gli animali più feroci e orripilanti esiste invece il Serpebue. Il serpebue abita negli anfratti naturali della Tambura, la spaventosa creatura esce di notte per mangiare, la sua preda preferita: la pecora, che può prima catturare e poi trascinare in men che non si dica nella sua tana. Il suo aspetto è simile a quello di un grosso serpente, è perfino dotato di squame che riflettono la luce come tanti specchi ed è proprio per questo è difficile da vedere, il suo avvistamento si rivela come un forte lampo che lo sguardo non può sostenere. Tanto brutto e mostruoso è il suddetto animale, quanto magnifico e bello è il Cerbiatto Bianco delle Apuane. Bianco come la neve, tanto da confondersi con il colore chiaro delle rocce. Molti uomini gli hanno dato la caccia ed un brutto giorno riuscirono anche a ferirlo, il cerbiatto bianco comunque sia riuscì a fuggire. Fu avvistato da questi cacciatori sulla via del loro ritorno a casa 
mentre si curava la ferita ad una sorgente d'acqua. Per molto tempo si è creduto che quella sorgente d'acqua
potesse guarire tutte le malattie. Storia diversa quella di un capretto che vive dalle parti di Chiozza in località "Piana Tagliata". Il
capretto nero , quando batte gli zoccoli per terra fa scintille e se passa di fronte ad una "mestaina" o a una croce l'animale scompare. La creatura che invece è stata più  avvistata nella valle è il Serpente Alato. Nei tempi andati si diceva che uno di loro abitasse alle chiuse del fiume Ania, mentre a Sillicagnana, ormai due secoli fa, il mostro attaccò uno dei membri della famiglia Ferrari. Nella chiesa del paese c'è un quadro dove è raccontata questa scena. La sua presenza fu rilevata anche fra le rocce dei Diaccioni che scendono il Monte Giovo. Infine, ma si potrebbe ancora continuare, voglio chiudere questa lista di animali fantastici con la Chioccia dai pulcini d'oro. La si può notare fra le scoscese pareti del Balzo Nero. Nelle notti di luna
piena fra gli sterpi e i rovi è possibile sentire un chiocciare lento lento accompagnato da un pigolio. E' la chioccia che porta a spasso i suoi pulcini tutti luccicanti d'oro zecchino. Nessuno sa la genesi di questo animale e nemmeno si sa da dove provenga, rimane il fatto che è fortunato colui che riesce a vedere i pulcini prima che la chioccia lo scorga, perchè in quell'istante ci si  ritroverebbe di fronte un bel mucchio di monete d'oro... Storie e fantasie queste che fanno parte di un mondo magico tutto nostro e chissà, forse un giorno questi misteriosi animali si potrebbero incontrare anche noi...


Bibliografia

  • "Storie e leggende della montagna lucchese", di Paolo Fantozzi, edito "Le Lettere", anno 2003
  • "Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" di Paolo Fantozzi, edito "Le Lettere" anno 2013

giovedì 22 luglio 2021

Un'antica e vera storia garfagnina: inquisizione, tesori, maghi e... un maledetto capitano

Chi da bambino non ha mai sognato di trovare un tesoro nascosto,
sepolto magari da qualche pirata o da un avventuriero di passaggio? Fantasie degne dei romanzi di Emilio Salgari o delle imprese del Corsaro Nero. Storie che hanno rappresentato per tutte le generazioni di ragazzi e ragazzetti un'irresistibile attrazione. Che dire poi di quell'avvincente mappa del tesoro? Simboli e parole indecifrabili che ancor di più stimolavano la creatività. Ma quelle che potevano sembrare le fantasie di bambini dotati di fervida immaginazione, per qualcun altro la cosa si poteva presentare ben più seria, tanto da scomodare forze occulte e misteriose. Questo accadeva veramente nella Garfagnana del XVII secolo, quando un personaggio d'alto lignaggio, per ritrovare il tesoro nascosto del padre affidò le ricerche a maghi e fattucchieri vari... Ma ben presto l'inesorabile scure della Santa Inquisizione di Modena non tardò ad abbattersi sui loschi protagonisti di questa fantasmagorica ed incredibile vicenda. Ma prima di addentrarsi nei fatti è giusto fare un doveroso preambolo, per far capire meglio al caro lettore gli avvenimenti di quel lontano 1668. Bisogna infatti fare un salto indietro nel tempo di qualche decennio dai suddetti misfatti e andare a quel 1586 quando Papa Sisto V emanò la bolla "Coeli et Terrae". Con questa bolla il Santo Padre operò una vera e propria rivoluzione
Papa Sisto V
sociale, non bastava più dare la caccia alla streghe. Nonostante il moltiplicarsi dei roghi in tutta Europa la guerra alla blasfemia si affinò, allargando la cerchia degli eretici agli astrologi, ai superstiziosi e ai trasgressori del riposo festivo, ma non solo a loro, con tale lettera papale si cercò soprattutto di colpire, e anche in maniera piuttosto energica, la magia rinascimentale, ossia la cosiddetta "magia dotta", fino a quel momento se si vuole tollerata. Ma cos'era questa "magia dotta"? A praticare la magia dotta(che a differenza di quella popolare di competenza femminile, era una specializzazione prettamente maschile) erano gli stessi prelati, i medici, gli avvocati e tutta la classe delle professioni in genere, che facevano uso di libri di formule magiche come "La Spada di Mos"(per la cura delle malattie), e "La Chiave di Salomone" (per trovare tesori nascosti). Spesso questi tomi circolavano nei paesi e nelle città in maniera clandestina, addirittura talvolta questi libri venivano trascritti a mano e ciò era dovuto soprattutto non tanto alla difficoltà di ottenere copie edite, ma bensì quello che spaventava di più era la paura di incorrere nell'accusa di possesso di materiale proibito. Rimaneva il fatto che per ottenere l'efficacia delle formule inserite nei libri bisognava che queste stesse pagine fossero riprodotte usando penne e carte consacrate dal mago di turno. Insomma per farla breve tale magia era usata principalmente per trovar tesori, pertanto se le classiche streghe si affidavano ad una tradizione orale, i sapienti vantavano un metodo "scientifico" e usavano nei loro riti tutte le
Chiave di Salomone
 risorse di loro conoscenza (alchimia, chimica e così via...). Quello che è sicuro che talvolta la bramosia di ricchezza e di prosperità di questi individui era ben superiore a qualsiasi altra paura, vorrei infatti rammentare a quei pochi che non se lo ricorderanno che le carceri di Regina Coeli in confronto a quelli dell'Inquisizione del XVII secolo erano un hotel a cinque stelle, perciò una volta scoperti  dovevano subire la condanna alla scomunica, sottoporsi "alle pene salutari" che consistevano a un lungo periodo di pane e acqua, alla quotidiana recita del rosario per mesi o anni (secondo la colpa commessa) e alla preghiera quotidiana (per cinque volte) del Padre Nostro davanti a un'immagine sacra, nonchè alla prigione e alla letali torture. Tutto perchè il potere di questi dotti maghi derivava esclusivamente dal demonio in persona. A tal proposito le vicende garfagnine del lontano 1668 che andremo a raccontare ricalcano perfettamente quanto finora è stato scritto. Questi singolari avvenimenti nostrani tornarono alla ribalta e all'interesse di tutti nel 2012, quando il professor Manuele Bellonzi pubblicò il suo bel libro "Il Castellano delle Verrucole". Dall'Archivio di Stato di Modena l'esimio studioso portò alla luce le carte processuali del Santo Uffizio di Modena che parlavano di un certo Francesco Accorsini di Puglianella, capitano militare e comandante dell'inespugnabile Fortezza delle Verrucole accusato di "superstizione qualificata",
Fortezza delle Verrucole
atta a trovare con l'aiuto dello spiritismo quelle monete d'oro a suo tempo nascoste dal defunto Ser Marco, padre del presunto colpevole. Del protagonista della nostra storia sappiamo ben poco, sappiamo che nacque in quel di Puglianella (Camporgiano), nel massiccio palazzo di famiglia (detto il castello), nel 1646 e che sposò Donna Chiara Micotti, facente parte anch'ella di una delle famiglie di notabili di Camporgiano. Gli Accorsini appartenevano a un antica progenie garfagnina, probabilmente originaria di San Donnino (Piazza al Serchio), di essa forse il più noto esponente fu tale Bartolomeo, primario medico a Ravenna agli inizi del 1600 e personaggio fortemente stimato dal Vallisneri. Da parte sua Francesco si dedicò fin da giovane alla carriera militare nell'esercito estense, ottenendo prima i gradi di tenente e successivamente quelli di capitano, questa nomina lo portò ad assumere il comando della Fortezza delle Verrucole (San Romano)e poi, a fine carriera, quella di Mont'Alfonso (Castelnuovo). Aveva ventidue anni il capitano Accorsini nei giorni in cui accadde il misfatto, fu Don Andrea Baldi a fare luce su strani accadimenti che coinvolgevano, a quanto pare, in un rituale magico perfino un bambino di 11-12 anni circa. Il parroco seppur in attesa di esercitare la funzione di delegato dell'inquisizione si dimostrò da subito particolarmente
Puglianella foto Amalaspezia.eu
attento a raccogliere testimonianze su quanto di strano succedeva in paese. Il tutto era infatti legato ad un altro processo svoltosi a Castelnuovo e poi concluso con un nulla di fatto. Fra gli imputati di questo processo c'erano personaggi di ogni risma... tale Conte Federico di Villanova, parigino, domiciliato a Lupinaia (Fosciandora), don Sebastiano Satti, Cristofano Danzi maestro di scuola a Pieve Fosciana, il caporal Giovanni e suo fratello Domenico Sabatini di Chiozza, servitori del (presunto) nobile parigino. Il Villanova infatti possedeva un libro manoscritto dal quale era sicuro di poter trarre istruzione per ritrovar tesori, il libro era intitolato "Cornelio Agrippa con aggiunta di secreti di Pietro Abano". Il creduto tesoro si immaginava fosse nella canonica del paese di Roccalberti, per cui il 18 aprile 1668, qui si ritrovarono i sopra menzionati, dopo che, per giorni si era proceduto ad un'opera di purificazione che lo stesso conte fece su di sè:"Prima si cominciò ad osservare per nove giorni continui la castità, poscia dentro nove giorni mi confessai e comunicai due volte, e fra tanto in questi nove giorni digiunai tre giorni continui in pane e vino, cibandomi solamente una volta il giorno". In quel giorno il rito continuò ponendo sotto la tovaglia dell'altare la spada rituale ed il pentacolo sul quale vi erano scritti e riportati simboli magici riconducibili al sigillo di Salomone. Il rettore Satti non partecipò al rito, il parroco lasciò la chiesa in mano agli altri figuri e dopo aver fornito a loro il sacro abbigliamento sacerdotale se ne andò a
pescare e poi si rifugiò nella casa del nostro capitano Francesco Accorsini. Fattostà che tutto il complesso cerimoniale non riuscì: "a tutti gli scongiuri fatti non avevamo visto che un ragnio (n.d.r: ragno)entrare in una apertura e il tutto si è risoluto in riso" . Detto fatto, finita tale messinscena tutta la schiera di loschi figuri si trasferì per la notte a casa dell'Accorsini per mettersi al suo servizio in quanto lo sapevano interessato a ritrovare il tesoro nascosto dal padre. A quanto pare il capitano non era nuovo a un simile tentativo di ricerca, circa un mese prima dei fatti vi fu in casa del militare una seduta spiritica fatta da fattucchiere locali, da testimonianze processuali si parlava di certe zingare, ritenute streghe, che in quella casa avrebbero fatto delle magie. Ma un altro teste parlò di fatti ben più gravi, nel tentato ritrovamento del tesoro di Ser Marco era stato coinvolto un innocente bimbetto del posto. Il fanciulletto (di nome Antonio) era stato chiamato dal capitano stesso mentre era a scuola. In tali accadimenti, è giusto dire, non fu coinvolto però il bizzarro Conte Villanova, poichè l'Accorsini non ebbe pazienza di aspettarlo e perciò furono convocati per il rituale il caporale Giovannini da Granaiola e Giuseppe Niccolai d'Anchiano "che sapevano fare l'alchimia" e ahimè, l'inconsapevole bambino. Il piccolo Antonio era infatti indispensabile al mago per la riuscita della magia, serviva proprio un "putto vergine" necessario per invocare gli spiriti. Interrogato poi dal tribunale del Sant'Uffizio il bambino rivelò il perchè ad un
Tribunale del Santo Uffizio
 primo interrogatorio non osò proferire parola: "Quello homini lucchesi che erano il caporale Giovannini da Granaiola e quel altro suo compagno mi dissero che non dicessi niente perchè mi haverebbero dato. Io non volsi dire cosa alcuna perchè havevo paura". Per il resto, sempre dalle parole del giovinetto continua l'incredibile storia dove si raccontò che il mago di turno fu il Giuseppe Niccolai, fu costui che in un rito propiziatorio costituito in una mistura di "raschiatura di capelli" e  d'olio d'oliva 
unse la mano destra del piccolo: "...mi disse poi alcune parole nel una e nel altra orecchia che io non intesi e poi me mise una candela di ferro (???) accesa fra le dita, mi disse che guardassi nella palma della mano e li dicesse cosa vedessi". Il povero piccolo Antonio venne così catapultato suo malgrado in un'esperienza sconvolgente dovuta all'ingenuità dell'età e alla giustificata impressionabilità del momento, tuttavia agli atti rimase il racconto di ciò che vide:"...io li dissi che vedevo deli homini me venevano nella mano... il detto giovine lucchese (n.d.r: il Niccolai)mi disse che domandassi ad uno di quelli se era ancor venuto sua Maestà". Sempre su richiesta del ragazzetto venne detto agli uomini li presenti nella visione di portare al sovrano (individuato come capo)  "la sedia e la corona reale e da mettere sotto i piedi una Bibia Sacra". Il racconto continuò dopo che il cosiddetto "sovrano" giurò di dire la verità in merito a quello che gli avrebbe chiesto "il putto": "...mi faccia vedere qui in questa mano quella stanza dove sono i denari nascosti e io vidi nella mia mano una camera con dentro due letti e io dissi: vostra Maestà facci venire fuori quei denari e vidi dui che lavoravano con un palo in mano...io dissi a quelli che lavoravano di fare presto, vi comando in virtù della mia verginità e del Nostro Creatore e che fate presto a metter fuori i denari e così vidi nella mano che votarono quel lavezzo e chi vi erano delli denari gialli e bianchi e poi comandai che ritornassero i denari e il
lavezzo dove erano prima"
. Il Capitano Accorsini a quel punto ordinò al bambino di ritornare a casa e di ripresentarsi la mattina dopo al palazzo. Il giorno seguente il rito continuò nella camera dei due letti: "quando quelli homini che erano nella mia mano lavoravano per tirar fuori il lavezzo come avevano fatto il giorno avanti, il caporale Giovannini andava toccando la muraglia con uno stiletto, mi disse che li sapessi dire il luogo dove lavoravano e quando il caporale con il detto stiletto fu arrivato al luogo con la mia mano dissi che lavoravano ivi et allora si fermarono et io andai a fare li fatti miei". Ecco,  è allora che a questo punto della storia un altro personaggio entrò a far parte di essa, era tal Lorenzo Angeli maniscalco di Sillano, che trovandosi anch'esso nella casa dell'Accorsini ed avendo sentito voci che raccontavano di un tesoro nascosto volle farsi raccontare direttamente come erano andate le cose e così narrò:"rompirono la muraglia dove haveva detto quella voce in luogo dove già altre volte vi era stato un finestrino e che nel aprir questo e veder la tavoletta che vi era per tener saldo detto finestrino il capitano stete alegro persuandosi d'haver ritrovato i denari, ma che in fatto non ritrovarono cosa alcuna e che il diavolo era bugiardo". Il capitano Francesco Accorsini oramai inchiodato alle sue responsabilità a sua difesa presentò la sua giovane età (22 anni), il fatto di essere
incensurato e una sorta di "fede-certificato", ossia un documento di cristianità conclamata, rilasciata da un penitenziere (n.d.r: sacerdote presente nelle cattedrali nominato direttamente dal vescovo) di Reggio Emilia, per di più si tentò la richiesta di grazia. Niente di tutto questo servì per evitare il severo carcere dell'Inquisizione che lo condannerà a più di un anno di reclusione, un fatto questo che segnerà il militare garfagnino per tutta la vita. Infatti negli anni a seguire le sue vicende non saranno ricordate per le sue imprese militari, ma bensì per le sue imprese criminali. Una volta subita la giustizia secolare del Santo Uffizio, dei suoi crimini si occupò la giustizia ordinaria modenese. Erano trascorsi ormai venti anni dai suddetti fatti e il capitano la sua vita l'aveva continuata fra sotterfugi e angherie varie, nel tempo furono molte le colpe di cui fu  imputato: concubinaggio ("Il Castellano Accorsini non abita mai con la moglie e vive in continuo concubinato con una vedova detta Maria nipote del sergente da Verrucole, dalla quale ha figliuoli,"), ma non solo questo, il suo comportamento era alla pari di quello di un padre- padrone del luogo. Non mancò infatti di far malmenare preti, militari e persone normali, ordinare delitti (non compiuti), intrallazzare in loschi affari realizzando di fatto alleanze sia familiari, oltre che politiche, civili e religiose, cercando in questo modo di speculare sui conti pubblici, si arrivò perfino a dire che la sua "patente" di castellano fosse stata negoziata, falsificando gli atti anagrafici dichiarandosi così cittadino di Reggio Emilia, insomma come si testimoniò nei processi a suo carico: "egli perseguita tutti quelli che non obbediscono ai suoi capricci". Francesco Accorsini finirà così ancora una volta imprigionato nelle carceri di Modena, era il 1688. Per il resto sappiamo che la sua ultima lettera scritta risale al 1691 e che da li a poco morì. Con ogni probabilità per lui si
aprirono le porte di quell'inferno, dove sicuramente avrebbe trovato il suo amico più fidato: il diavolo...

Bibliografia

  • "Il Castellano delle Verrucole. Storie e misteri della Garfagnana del seicento" di Manuele Bellonzi, edito Garfagnana editrice, anno 2013

mercoledì 14 luglio 2021

Quello che potevano e NON potevano fare le donne garfagnine (e non solo quelle garfagnine) nell'Italia del secolo passato...

"Compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere a
capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, essere quasi un'accessione(n.d.r: un accessorio), un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata" e poi: "La donna, insomma, è in un certo modo verso l'uomo ciò che è il vegetale verso l'animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostentata da sè". Ebbene si, nonostante possa apparire così, questi non sono i pensieri o le parole di qualche integralista islamico riportate da qualche quotidiano sui fattacci di cronaca che stanno riempiendo le pagine dei giornali in questi giorni. Questi concetti erano espressi dai maggiori intellettuali e filosofi italiani del tempo che fu, in questo caso rispettivamente ad Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti. D'altronde è innegabile e tantomeno incontrovertibile, dire che le donne fino a poco tempo fa erano purtroppo considerate cittadine di serie B. Quando oggi ci schifiamo e giustamente alziamo la voce contro quelle nazioni che negano i diritti alle donne, pensiamo bene che fino al secolo scorso (storicamente parlando è come se fosse trascorso il tempo di un batter d'occhi), la nostra Italia si trovava più o meno (in fatto di diritti civili) nella approssimativa situazione di quei Paesi e se andiamo a vedere ancor di più nello specifico, ancor peggio andava alla nostre bisnonne, che seppur inconsapevolmente vivevano una situazione ancor più deficitaria in
confronto alle altre donne che vivevano nella città, dove bene o male una possibilità, seppur minima di emancipazione poteva essere trovata. In Garfagnana sotto questo punto di vista era ancor più dura: una donna nasceva esclusivamente per lavorare nei campi, fare figli e accudire casa. Rimane il fatto che per tutte le donne italiane parlavano le leggi dello Stato. Uno Stato che a partire dall'Unità d'Italia, fino ad arrivare al suffragio universale del 2 giugno 1946, conoscerà la sola voce dell'uomo in fatto di diritti e di leggi. Così fu che il nuovo Stato unitario, nonostante l'esaltazione della madri e delle spose risorgimentali, non concesse un millimetro di emancipazione al sesso femminile, malgrado ci fosse stata la possibilità attraverso il nuovo, nonchè il primo Codice Civile del neonato Regno d'Italia, di dare il "de profundis" ai vecchi e retrogradi codici degli stati preunitari. Pertanto alle donne garfagnine (e italiane in genere)il nuovo codice non concesse un bel niente, anzi, tali leggi erano improntate sulla supremazia maschile, precludeva alla donna, attraverso la sola "autorizzazione maritale", ogni decisione di natura giuridica o commerciale. Quindi, tanto per chiarire bene la situazione nel cosiddetto "codice di Famiglia" del 1865 le donne non avevano diritto di esercitare la tutela sui figli,
nè di essere ammesse ai pubblici uffici, per di più le donne sposate non potevano gestire i soldi guadagnati con il proprio lavoro (la cosa spettava al marito), da questo ne nacque quella che fu chiamata la suddetta "autorizzazione maritale", per vendere o meno dei beni mobili ed immobili (fino al 1919). La ciliegina sulla torta la metteva invece l'articolo 486 del codice penale che prevedeva la galera da tre mesi a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di  concubinato, ossia di convivenza. Non rimaneva allora che una sola strade alle donne per emanciparsi e ottenere una coscienza civile: la scuola, lo studio. Anche qui però le nuovi leggi ben ne guardavano di dare questa opportunità al gentil sesso, anche se (solo) nel 1874 alle donne fu consentito l'accesso e l'iscrizione ai licei, anche se in realtà molte di queste scuole continueranno a respingere queste adesioni (nel 1900 le donne iscritte alle università italiane saranno 250, mentre ai licei 287...). E in Garfagnana sotto questo punto di vista come eravamo messi? La situazione era ben peggiore. Anche qualora le ragazze avessero potuto avere facile accesso alle scuole superiori, nella valle tali scuole non esistevano; addirittura bisognava considerare il livello di alfabetizzazione che nel 1901 contava il 43% di analfabeti di ambosessi. Sia le bambine che i bambini del tempo non frequentavano la scuola elementare, figurarsi i licei. In un resoconto giornalistico del 1911 sulle condizioni  sociali della Garfagnana si cercò anche di trovare un perchè a questo malcostume: "Quindi si presenta molto frequente il caso che paesetti di 100 o 150 abitanti siano distanti a 3 -4 chilometri dalla scuola più vicina ed è impossibile che fanciulli di 6-12 anni le frequentino a causa delle pessime strade di montagna, d'inverno con neve e gelo.
Le famiglie sono poi libere di mandare o di non mandare i figli a scuola, preferiscono impegnare le femmine nei lavori domestici e nei campi e i maschi negli esclusivi lavori campestri. L'ultima preoccupazione di questi contadini è di mandare i loro figli a scuola
". Figuriamoci allora se in Garfagnana la condizione femminile era considerata un problema (anche dalle stesse donne). Rimane il fatto che nel 1902 fu approvata una prima legge per proteggere il lavoro delle donne "le ore giornaliere di lavoro sono limitate al massimo a 12 ore..."(!!!).A proposito di lavoro femminile è interessante analizzare dei dati riguardanti il censimento del 1901 che ci dava sotto questo aspetto un quadro dettagliato del panorama garfagnino dove si riscontrava che la maggior parte del gentil sesso era impiegata nei lavori agricoli (3912 femmine). Nell'industria, nei mestieri e nell'artigianato si potevano contare 501 donne (maschi 2416), il piccolo commercio era composto da 17 lavoratrici (uomini 501). Impiegate dello Stato e maestre erano 12 (maschi 608). Da notare le così poche maestre (in realtà erano molte di più) perchè risulta che questo non era il loro lavoro ufficiale, tali donne risultavano in buona parte sotto un'altra categoria, forse proprio in quella delle "cure domestiche" dove si annoverava la cifra di ben
8998 donne. Insomma, in Garfagnana circa dodicimila donne lavoravano nei campi e nelle cure domestiche e buona parte di esse non sapeva nè leggere, nè scrivere. Quale futuro ci poteva essere allora?
  Nel 1912 per la prima volta si parlò di dare il voto anche alle donne, il Presidente del Consiglio Giolitti gelò la questione definendola "un salto nel buio". Bhè, direte voi, il tempo passa, le menti si evolvono, qualcosa sarà pur cambiato. Certamente dico io... in peggio. Il nascente partito fascista ebbe da subito una posizione ambigua, da un lato dichiarava il suo favore per il voto alle donne, dall'altro accusava le stesse di togliere il lavoro ai reduci di guerra. L'ambiguità fu comunque dissipata da una serie di Regi Decreti che propendeva da una sola parte: Regio Decreto 1054, 6 maggio 1923, con la riforma Gentile si proibiva alle donne la direzione delle scuole medie e secondarie. Regio Decreto 9 dicembre 1926 n°2480, vietava alle donne l'insegnamento nei licei, dando l'esclusività femminile all'istruzione negli istituti magistrali. Il 20 gennaio 1927 furono dimezzati per decreto i salari femminili rispetto a quegli degli uomini, una legge fatta ad hoc per disincentivare il lavoro femminile a tal proposito l'esimio economista Ferdinando Loffedo nella sua "Politica della famiglia" del 1938 diceva: "Il lavoro femminile crea al contempo due danni: la mascolinizzazione della donna e la disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe" e sempre in quest'ottica con la legge 22/1934 venne concesso alla pubblica amministrazione di discriminare le donne nelle assunzioni, escludendole di fatto da una serie di pubblici uffici. La posizione del fascismo a riguardo della condizione femminile venne poi
rafforzata dalla Chiesa che nel 1930 ribadiva il ruolo primario della donna come madre e si condannava come "contro natura" ogni idea di parità tra i sessi. A chiudere miseramente il cerchio su tali leggi fu l'approvazione dell'articolo 587 del codice penale che prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse moglie, figlia o sorella per difendere l'onore suo o della famiglia. Fu istituito in questo modo il cosiddetto "delitto d'onore" (quello che è più grave) rimasto in vigore fino al 1981. Arrivò poi la guerra e qui, se mai ce ne fosse stato bisogno, le donne assunsero il ruolo di protagoniste assolute. Svani per sempre l'immagine della donna come angelo del focolare e anche e soprattutto in Garfagnana, quando mariti, figli o nipoti partirono per la guerra o per la lotta partigiana, la donna prese su di sè tutto il carico della società, sostituendo il lavoro fatto in fabbrica degli uomini (vedi la S.M.I di Fornaci di Barga e la Cucirini di Gallicano), sostituendo sempre gli stessi anche nei lavori della terra, al contempo non fecero mancare il sostentamento agli altri familiari nei lavori casalinghi. A questa situazione la donna garfagnina non era nuova, non era infatti la prima volta che si sobbarcava sulle spalle tutta la responsabilità familiare, era già accaduto negli anni passati quando nella valle l'emigrazione raggiunse il suo apice, la donna oltre ai suoi
tradizionali compiti, assunse anche quelli dell'uomo che era emigrato in terre lontane, il fenomeno è evidente in documenti degli anni 20-30 del 1900, dove negli atti notarili è ben evidenziato che i contraenti di accordi di ogni tipo e di compravendite varie  sono in prevalenza firmati con nomi di donne. D'altra parte fu proprio dalla fine di quella maledetta guerra mondiale che le donne, grazie alla loro forza e alla loro caparbietà presero in mano il proprio destino. Quel 2 giugno 1946, quando finalmente anche loro poterono votare, fu vissuto da quelle "ragazze del '46" proprio come l'inizio vero del cambiamento. Un cambiamento, se si vuole vissuto anche con timore, quel timore reverenziale di chi non ha mai assaporato una certa autonomia. A tal proposito rimasero impressi nella mia memoria di bimbo i ricordi della mia nonna Beppa di Gallicano, che di quel giorno rammentava: 
"Misi cappello e guanti (l'ultima volta l'aveva fatto per la comunione delle figlie)e mi preparai per uscire a compiere a 40 anni e per la prima volta il mio dovere di cittadina". Ricordava sempre che nell'attimo che aprì la porta di casa  per recarsi al seggio ebbe un attimo di
esitazione, 
guardò il nonno che già era andato a votare e gli chiese: - Alfredo, cosa devo votare?- La cara nonna era stata impaurita dalla troppa indipendenza che gli si presentava in età adulta, lei che fino a quel giorno aveva accudito e pensato solo alla numerosa famiglia, mentre il nonno (come diceva lei) "si occupava di cose importanti, di cose da uomini"...


Bibliografia

  • "Il sogno realizzato" di Umberto Sereni, Banca dell'Identità e della Memoria, anno 2011
  • Biblioteca digitale ISTAT . Censimenti 1901-1911
  • "La Garfagnana" di Augusto Torre, articolo pubblicato su "La Voce" il 26 ottobre e il 2 novembre 1911

mercoledì 7 luglio 2021

A volte ritornano... Storie di bande e briganti. Garfagnana 1946...

Corsi e ricorsi... Da ogni epoca oscura si passa ad una eroica e
luminosa, governata dalla ragione, alla quale purtroppo seguirà una nuova decadenza e una successiva rinascita, in un ciclo eterno di caduta e ripartenza. Così succede, è una regola a cui il mondo ci ha ormai abituati e nemmeno la nostra Garfagnana è sfuggita a questa norma. Infatti dalle nostre parti esisteva un'epoca, ormai da tutti conosciuta e studiata, in cui nella valle regnava incontrastato il brigantaggio. Era quel preciso periodo storico in cui a Firenze stava per nascere quel movimento culturale e sociale che si proponeva la rinascita della grandezza del mondo classico: il Rinascimento, e mentre a Firenze cominciavano a circolare personaggi come Leonardo Da Vinci, Niccolò Machiavelli e Michelangelo, in Garfagnana vigeva ancora la legge in cui lo schioppo soverchiava qualsiasi altro pensiero e questo ben lo sapevano il Moro del Sillico, Pierino Magnano e Filippo Pacchione: briganti di prim'ordine. Da quel momento in poi però di briganti e bande di delinquenti in Garfagnana non se ne senti più parlare per cinque
secoli, fino al momento in cui, nell'imminente fine e nell'immediato dopoguerra del secondo conflitto mondiale questo fenomeno tornò prepotentemente a galla. Naturalmente il contesto storico e sociale, le motivazioni e la durata dei misfatti fu ben diversa e va contestualizzata e collocata nel tempo dove successero tali accadimenti. Rimane comunque il fatto che morte, ruberie e angherie varie tornarono di gran moda nella valle. Giaime Pintor (giornalista e scrittore) di quel nefasto periodo (fra il 1944 e il 1946) ebbe a dire: "Dappertutto la guerra ha diffuso una facile crudeltà, una crudeltà inconsapevole e piatta che è la peggiore linfa dell'uomo. L'orribile senso del gratuito, dell'omicidio non necessario. Tolti i ritegni diviene consuetudine uccidere e punire è diventato un esercizio". Sì, perchè questa nuova ondata di violenza non fu un fenomeno tipicamente garfagnino, ma la geografia italiana degli
omicidi mutò radicalmente a partire dal 1943. L’aumento del tasso di criminalità crebbe in tutta la penisola, ma in modo particolare nelle regioni centrosettentrionali. Esso raggiunse il valore più alto nel 1944 in Toscana, seguita dal Piemonte e dall’Emilia-Romagna. 
Ma anche fra queste stesse regioni vi furono significative differenze. La Toscana fra tutte ebbe un ruolo di preminenza, il tasso di omicidio, crebbe straordinariamente nel 1944, mantenendosi su alti livelli anche negli anni successivi. Quello che difatti rimane curioso e a dir poco interessante è l'analisi particolare di questi fatti e se andiamo a vedere gli anni precedenti a questi delitti (1939-1945) vediamo che in Italia ci fu un notevole calo di tutti gli atti delinquenziali, perfino le contravvenzioni subirono un forte calo. La forte caduta delle contravvenzioni fu riconducibile a due fattori, assai diversi fra loro, ma entrambi inerenti allo stato di guerra. In primo luogo, alla riduzione del traffico stradale, in secondo luogo, alla diminuzione dell’efficienza delle forze dell’ordine, impegnate in altri urgenti problemi. Il calo dei furti, delle rapine e degli omicidi poteva essere spiegato nel fatto che il conflitto bellico, allontanò dalle case e dalle strade un gran numero di giovani maschi, ovvero proprio gli appartenenti a
quel gruppo che più frequentemente commetteva tali reati. Dall'altro lato lo straordinario aumento della frequenza di molti reati nel secondo dopoguerra fu provocato da numerosi fattori: da quello economico, innanzitutto, perché in misura maggiore o minore, in tutti i Paesi europei questo periodo fu caratterizzato dall’aumento della disoccupazione e dell’inflazione (il costo della vita in Italia fra il 1938 e il 1945 salì di 23 volte !!!), dalla riduzione dei beni disponibili e dal peggioramento del livello di vita. Ma vi furono anche altri fattori che spinsero verso questa direzione: la presenza di larghi strati della popolazione che, a causa del conflitto, erano ormai assuefatti all’uso delle armi, nonchè al disorientamento di numerosi ex militari che faticavano a trovare un posto adeguato all’interno della società dopo aver vissuto la drammaticità della guerra. Infatti molti dei primi banditi erano state personalità che avevano partecipato a diverse operazioni belliche, c'è da aggiungere poi che in tutta questa situazione rimanevano un gran numero di armi disponibili
lasciate dagli eserciti in ritirata, che chiunque poteva procurarsi. Figurarsi allora in Garfagnana dove il fronte si attestò fra opposti eserciti per dei lunghi mesi. Difatti anche qui vigeva un clima d'insicurezza totale. Svariate bande di delinquenti si formarono fra queste impervie strade, tali bande si macchiarono anche di reati gravissimi. A Ponteccio (Sillano- Giuncugnano) un commerciante di Villa Minozzo (Reggio Emilia) fu prima derubato di 7.000 mila lire e poi ucciso da un uomo di Sillano. Una banda armata composta da tre uomini invece aveva presidio sul Passo delle Radici, questi manigoldi erano specializzati nel derubare i camionisti. Fra le più grosse bande c'era quella che aveva sede nella zona di Fornaci di Barga e operava in tutta la Valle del Serchio, composta da gente senza scrupoli che non esitava a risolvere le situazioni con frequenti scontri a fuoco con i Carabinieri, il suo arsenale era composto da armi residuate dalle guerra: pistole, mitra, bombe a mano, rimase alla storia lo scontro avuto con le forze dell'ordine nel mezzo del paese di Fornaci. Sempre a Fornaci furono arrestati due uomini sospettati di essere nientemeno affiliati alla banda di Salvatore
Salvatore Giuliano
Giuliano, il re di Montelepre. Insomma in quegli anni in Garfagnana c'era la base per associazioni a delinquere di vario genere che addirittura operavano su un vasto raggio territoriale, d'altronde la valle da secoli e secoli si prestava a nascondigli introvabili, le vaste selve e gli impervi boschi da sempre avevano offerto riparo a delinquenti di ogni risma a partire dai tempi del Moro per arrivare poi ad eminenti personaggi di spicco degli anni di piombo. Ad esempio a sottolineare la gamma e la varietà di malavita che in Garfagnana era presente in quel periodo fu il fatto del 1947 dove al Sillico (Pieve Fosciana) fu sgominato un traffico regionale illecito di medicinali che provenivano dal deposito americano di Tombolo (Livorno), a capo della banda c'erano un tedesco disertore e una donna del posto. In definitiva, queste erano bande  pericolosissime e armate fino ai denti, pronte a tutto e senza scrupoli che vigliaccamente cavalcavano il momento di sbandamento sociale che si era creato dopo la fine della guerra. Comunque sia niente a confronto di una banda della lucchesia che ben presto salirà alla ribalta della cronache nazionali come una delle associazioni a delinquere più spietate di tutto il panorama italiano. Svariate definizioni furono attribuite a questa banda, per molti fu la "la banda del camioncino rosso" per altri "la banda  dell'autostrada", ma per tutti sarà riconosciuta con il nome del suo capo "la banda Fabbri". Le sue attività criminose durarono per pochi mesi, dall'ottobre 1945, alle primavera successiva, in questo poco lasso di tempo uccisero cinque persone e rapinarono di tutto, dai soldi alle cose più impensabili. Il giorno in cui ci fu il processo il giudice per leggere i reati commessi si protrasse per oltre 25 minuti... La banda operava su tutto il territorio provinciale e oltre, aveva una delle sue basi operative nelle trincee e nelle grotte della Linea Gotica scavate dai tedeschi a Borgo Mozzano. I rapinatori agivano sia sulle strade che nelle abitazioni (come 
Gallerie Linea Gotica
Borgo a Mozzano
avvenne a Minucciano), la banda era composta da elementi che provenivano da tutta la regione e anche dalla Valle del Serchio. Il suo capo si chiamava 
Lando Fabbri, fiorentino di Santo Spirito. Classe 1912, prima della guerra aveva lavorato come fattorino presso una ditta farmaceutica, impiego ottenuto tramite la federazione fascista, grazie ai meriti acquisiti con la sua partecipazione alla campagna d’Etiopia. “Lo dovemmo assumere per forza – avrebbe dichiarato al processo il suo ex principale – e non lo potevamo licenziare, benché fosse violento e prepotente. Una volta inseguì un altro dipendente sparando in aria con la rivoltella che portava sempre con sé”. A seguito di una condanna a 30 anni di reclusione comminatagli nel ‘38 dal tribunale di Genova per tentato omicidio a scopo di rapina, Fabbri fu rinchiuso nel carcere di Parma, per essere poi trasferito in quello di Apuania; dal quale riuscì tuttavia a fuggire nel luglio del ‘44, sfruttando un bombardamento aereo alleato che aveva sventrato il penitenziario. Unitosi assieme ad altri evasi a una formazione partigiana, al termine della guerra egli si stabilì a Pisa, sotto falsa identità trovò lavoro alle Poste. Nella medesima città conobbe, nell’ottobre ‘45, i fratelli Attilio e Nilo Moni, con i quali formò un sodalizio criminale che, allargatosi rapidamente (la banda era composta da 22 persone), avrebbe causato, in pochi mesi di attività la morte di cinque persone, tutte uccise a sangue freddo. Come quella volta ad Anchiano (Borgo a Mozzano)quando ammazzarono come cani tre persone per rubare quattro gomme. Difatti si racconta che una parte della famigerata banda era a prendere un caffè a Lucca, quando tornando verso Viareggio scorsero un autocarro Mercedes targato Udine, carico di carrozzine per bambini. Il camioncino rosso dei malviventi si mise di traverso in mezzo alla strada e l’altro dovette fermarsi; a bordo c’erano due commercianti, i fratelli Secondo e Quinto Di Pauli e il loro amico Giorgio Pacile, provenienti da Udine e diretti a Roma. Una volta scesi, i tre si trovarono di fronte quattro rivoltelle e uno Sten; spinti al margine della strada, furono legati e imbavagliati. Gli ostaggi furono poi caricati sul camioncino rosso e il mezzo si avviò per la statale dell’Abetone avendo già in mente la destinazione: Anchiano, dove nell’ambito delle fortificazioni della Linea Gotica i tedeschi avevano approntato una caverna artificiale utilizzata come deposito munizioni. Ecco comunque la cronaca del processo e del fattaccio in questione riportata dalle pagine de "Il Tirreno" il 10 aprile 1946. Testimonianza dell'imputato Fabbri:" Erano diversi giorni che il Lippetti ci aveva pregato di aiutarlo a trovare delle gomme, perchè quelle del camioncino erano fuori uso. Così si decise di andare sull'autostrada ed avevamo aspettato due tre ore per trovare quello che andasse bene. E' arrivato il camion abbiamo guardato le gomme e così si decise di fermarlo... Ad Anchiano ci fermammo ed io andai a vedere la grotta ove avevamo stabilito di lasciarli e di andare in un altro posto per levare e gomme. Con degli stracci imbevuti di nafta esplorai la grotta e li portammo là... Essi si raccomandarono di non fargli nulla di male, ed infatti noi li rassicurammo. Il Lippetti però cominciò a dire che il suo camioncino rosso, che era ormai preso d'occhio poteva essere riconosciuto e che quindi bisognava ucciderli... Fra tutti decidemmo di ucciderli. Il Lippetti disse che se non li avessimo uccisi noi, li avrebbe uccisi lui. Allora io rientrai nella grotta e sparai!". A giudicarli per direttissima fu il Tribunale militare straordinario, istituito il 10 maggio‘45 conformemente alla legge speciale per la repressione delle 
Un momento del processo
rapine e che prevedeva anche la fucilazione. Il processo ebbe inizio a Lucca il 10 aprile ‘46 e fu peraltro l’ultimo tenuto da tale organismo giudiziario. La sentenza giunse già il 13 aprile (per leggerla ci vollero più di venti minuti), infliggendo, come il giornale riporta “le condanne più dure del dopoguerra toscano”: pena capitale per Fabbri e per il suo luogotenente Baccetti, ergastolo a Lippetti e ai fratelli Moni, 30 anni a Brega, Angelini e Fanelli, 15 anni a Baldacci, proprietario del mitra in dotazione alla banda; oltre a una serie di condanne minori. Un'ultima affascinante descrizione della miseria umana degli imputati la diede sempre "Il Tirreno" dell'epoca: 
"
Senza folla intorno, senza giudici e l’apparato del processo, nell’intervallo, seduti, stanchi e depressi, hanno gettato la maschera e abbandonato il loro aspetto tracotante, che amano ostentare davanti al pubblico. Eccoli qui senza infingimenti, miseri uomini vinti dalle loro folli passioni, più bestie che uomini, paurosi al pensiero della sorte che gli attende, e pensare che uccidevano le loro vittime come se si fosse trattato di mosche. Dal dire al fare. Oggi no, oggi ci stanno attaccati alla vita, alla propria".


Bibliografia

  • "Il banditismo in Italia nel dopoguerra" di Umberto Giovine, Bompiani 1974
  • "Crimini toscani del secondo dopoguerra raccontati da Umberto Giovine" di Giuseppe Alessandri (https://giuseppealessandri.myblog.it/2019/08/28/crimini-toscani-del-secondo-dopoguerra-raccontati-da-umberto-giovine/)
  • "La Voce di Lucca" , "Banda Fabbri il processo in 15 puntate" di "Oracolo di Delphi" (http://www.lavocedilucca.it/post.asp?id=6483)
  • "Il Tirreno" 10 aprile 1946 di Dino Grilli
  • "La Terra Promessa. La Garfagnana nella seconda metà del XX secolo" di Oscar Guidi, edito Unione dei Comuni della Garfagnana
Fotografie
  • Le fotografie riguardanti il tribunale sono tratte dalla pagina facebook "Studio legale Paolini Tommasi Piana"