giovedì 27 gennaio 2022

Quando e come nacquero i mercati settimanali in Garfagnana. Storia curiosa e a dir poco singolare

Gallicano mercato anni'30
"È domenica mattina si è svegliato già il mercato, c'è la vecchia che
ha sul banco f
oto di Papa Giovanni, lei sta qui da quarant'anni o forse più e i suoi occhi han visto re scannati, ricchi ed impiegati capelloni, ladri, artisti e figli di...". Queste sono le strofe dell'ormai famosa canzone di Claudio Baglioni "Porta Portese". Era il 1972 quando queste note portarono alla ribalta nazionale quello che era il più famoso mercato di Roma. La storia narra che questo mercato nacque intorno al 1945 come nuova "location" della borsa nera che precedentemente si teneva a Campo 'de Fiori. La gente che esponeva la propria merce a questo gran bazar a cielo aperto era fatta da ambulanti, venditori improvvisati e perfino da semplici privati e la canzone di Baglioni fotografò perfettamente l'anima di chi vendeva qui la sua mercanzia. La storia dei mercati settimanali però nasce da molto più lontano, a Roma la fiera di Porta Portese esiste dal 1945, ma le vicende dei mercati settimanali garfagnini hanno una storia ultrasecolare, che parte addirittura nel lontano medioevo. Si può sicuramente affermare che tutto sia nato dal mestiere dell'ambulante che già in epoca antica percorreva mulattiere e strade, accompagnato dal fedele animale da soma, i più attrezzati avevano anche "il baroccio" e altri ancora un carro trainato dai 
muli. Figurarsi, con questi mezzi e con la forza delle proprie braccia questi commercianti "ante litteram" si spingevano fino a città lontanissime e di casa in casa per vendere o per procurarsi materie prime per creare i loro prodotti. Consideriamo poi che per lungo tempo questa figura fu di un'importanza sociale fondamentale, dato che l'ambulante fu l'unico a fornire beni e minuterie varie per gli abitanti dei molti paesini della montagna, ma non solo, egli fu l'unica fonte d'informazioni sul mondo, una sorta di telegiornale viaggiante. Poco alla volta, comunque sia, con lo sviluppo dei paesi e la relativa crescita di popolazione, dalle autorità locali furono individuati spazi appositi nei principali centri urbani per favorire l'incontro fra compratori e venditori in quello che in epoca medievale era definito "il libero commercio". Da quel momento il mercato settimanale assunse per la gente un nuovo momento di vita, il paese era diventato un cuore pulsante, le piazze e le vie del paese si animavano, era l'occasione per vestirsi a festa, per incontrare amici, si chiacchierava con chi non si vedeva da tempo, addirittura si allacciavano nuove conoscenze e si discuteva di affari, di politica e c'era chi portava perfino i propri risparmi per cercare di fare l'affare del momento. Tale giorno, era atteso con trepidazione,

Castelnuovo mercato
c'era anche chi veniva solamente per trascorrere una gradevole mattinata tra i banchi, immersi nei profumi delle spezie, di formaggi e salumi. Qui giungevano gli abitanti dei paeselli limitrofi, che arrivavano seguendo i tracciati di secolari mulattiere. Le donne che arrivavano a farvi le spese, oltre ai fagotti necessari, ne avevano sempre uno supplementare con dentro gli zoccoli buoni e poco prima di arrivare nella piazza principale sostituivano gli "scappini" (una sorta di scarpa rustica fatta in casa), che venivano nascosti in una siepe, li pronti per essere presi e calzati al ritorno. Nel "paesotto" si comprava tutto ciò che era necessario alla sopravvivenza delle piccole comunità: generi alimentari, attrezzi e utensili vari e pure cianfrusaglie per le vezzose del paese. Insomma questo fu lo spirito che per secoli e secoli rimase inalterato e che animò i nostri mercati, fino a qualche anno fa, oggi questa magia è però terminata... Tuttavia, in Garfagnana, lo sviluppo dei mercati (anche come oggi li conosciamo) lo dobbiamo ad una strada... la Via Francigena. Per i pochi che non lo sanno la Via Francigena fu una delle più importanti strade di pellegrinaggio che conduceva a Roma alla tomba dell'apostolo Pietro, questo cammino era una "selva" di strade, viuzze e di sentieri spesso paralleli, confusi, uniti e scissi dallo scorrere del tempo che trovava il suo passaggio anche in Garfagnana e nei suoi "hospitali". Era proprio questo il periodo in cui l'Italia era percorsa da una moltitudine di pellegrini, soprattutto da quei pellegrini provenienti dalla terra dei Franchi
La Francigena
(da qui il nome alla via). Tutto questo traffico di persone e cose portò i garfagnini ad ingegnarsi e a vendere i loro prodotti a questi forestieri, che a loro volta commerciavano anch'essi i prodotti provenienti dalle loro terre. Possiamo dire senza ombra di dubbio che gli affari andavano a gonfie vele, ma c'era pure qualcuno che non era affatto contento di questo andazzo, tant'è che si mise a protestare, cercando di far valere le proprie ragioni con chi di dovere. Difatti, coloro che abitavano più a valle si lamentavano di non poter usufruire di questi floridi commerci, poichè questi pellegrini scendendo dal nord si fermavano a smerciare o a comprare nei primi paesi garfagnini che incontravano sul loro cammino, escludendo di fatto una buona fetta di Garfagnana dal lucroso "businness". Senza ombra di dubbio tutto ciò necessitava di regole ferree ed eque, e così fu. Con buona pace di tutti le Signorie locali si accordarono e decisero di regolamentare questi mercati, stabilendo che i principali paesi della valle un giorno alla settimana, alternativamente potessero godere di scambi commerciali con i pellegrini. La soluzione trovò il consenso di tutti ma naturalmente bisognava pagare dazio e com'è nella più classica tradizione
 italica, ogni paese interessato da queste faccende doveva versare una tassa alle autorità locali. La "vil gabella" scomparì, quando in Garfagnana giunsero gli Estensi, che da buoni e saggi nuovi "padroni" vollero portare a sè i consensi della popolazione, recando ad essa forti vantaggi economici. Pertanto gli Este per un 
Niccolò III
determinato tempo esentarono le comunità della Garfagnana dal pagamento di ogni sorta di tassazione personale e reale, dai dazi interni ed esterni, dalle collette e dalle imposizioni sul sale. I nuovi sudditi estensi ottennero inoltre la libertà di commerciare con Lucca e la Toscana e di recarsi alle scuole di Pisa anziché a quelle di Ferrara; la possibilità di muoversi armati in tutti i domini Estensi e... udite udite, il beneficio di tenere fiere e mercati settimanali esenti da tributi. Era il 1439 quando Niccolò III Marchese di Modena decise tutto questo, disciplinando ulteriormente  questa attività, dando licenza a chiunque ne facesse richiesta di vendere la propria merce, i prodotti del campo, i propri manufatti, concedendo la vendita di attrezzi e di fare piccole riparazioni, confermò e dispose che tutti quei paesi che erano sul percorso della "Santa Strada" (la Francigena) un giorno a settimana "vicendevolmente" godessero degli scambi commerciali, e
cco allora che il giovedì sarebbe stato il turno di Castelnuovo, il mercoledì quello di Gallicano, il martedì a Piazza al Serchio e così via... Ma non solo, si decise infine di riunire a Castelnuovo, una volta l'anno, nella prima settimana di settembre tutti i migliori commercianti di bestiame e di prodotti agricoli provenienti da tutta la Garfagnana e dalle zone limitrofe, qui si vendevano o si scambiavano prodotti, si discuteva di nuove merci o di semine. Era nata così, in questo modo, la prima fiera garfagnina. Man mano che gli anni passavano la fiera divenne sempre più grande, diventando dopo Modena e Ferrara, l'esposizione più importante del Ducato. Anche le altre comunità garfagnine non soggette al potere degli Estensi come Gallicano (che era sotto la Repubblica di Lucca)organizzarono i propri mercati e sull'onda modenese indissero nuove fiere che potevano durare anche una settimana intera: "Si fa noto che a ciascheduna persona, qualmente in esecuzione della Special Grazia accordata dall'Eccellentissimo consiglio a questa Comunità, si darà principio martedì prossimo al nostro mercato nella piazza fuori da questo Castello, e così continuerà in avvenire ogni settimana, e in caso che il detto giorno venisse impedito da festa si anticiperà il lunedì. Vi
sarà poi una volta l'anno la Fiera alla quale si darà principio il 24 agosto e durerà tutto il restante di detto mese, per il qual tempo sarà lecito ad ognuno di vendere liberamente pane, vino e cibi cotti come sarebbe il biroldo".
La delibera gallicanese era del 1769 e introduceva una novità per i mercati nostrali, la vendita del cibo cotto. Ovviamente le persone che frequentavano questi mercati settimanali garfagnini erano ben diverse da quelle che oggi siamo abituati a vedere, gli ambulanti vendevano merce diversa da quella che oggi vediamo sulla bancarelle, ad esempio il sale. A tal proposito non mancò chi di questo ingrediente ne faceva contrabbando vendendolo sul "mercato nero". Questo preziosissimo bene era infatti soggetto a tasse onerose da parte dello Stato e un giorno di mercato (era
 il 20 maggio 1720) in quel di Castelnuovo, tal Giacomo Giacomelli, contrabbandiere d'eccellenza, nonchè novello Robin Hood si presentò nella piazza principale della cittadina con i suoi muli carichi, vendendo pubblicamente sale "con aperto scandalo universale", la gente nonostante la meraviglia accorse in fretta e furia e in men che non si dica il sale finì e il Giacomelli se ne andò tranquillamente come era venuto. Naturalmente il malvivente non la passò liscia, l'onta subita dal governo estense proprio sotto le finestre di "casa" fu troppo grossa e fu così che subì una condanna in contumacia al bando perpetuo. Non solo contrabbandieri, ma fra i protagonisti dei mercati di casa nostra esisteva un altro "fanfarone" da cui era bene star lontani: il ciarlatano. Questi malfattori erano veramente instancabili, percorrevano tutta l'Italia, dalle Alpi alla Sicilia, scaltri, furbi, sapevano stuzzicare la curiosità delle persone con mezzi sagaci che stimolavano una morbosa curiosità nel popolo. Appena arrivavano nei mercati garfagnini sapevano rubare subito la scena, montavano in men che non si dica il loro palchetto e subito vi salivano sopra. Alla fine dei conti il successo era garantito, tant'è, sempre a
Castelnuovo, gli fu riservato lo spazio migliore, quello dover poter accogliere più gente.
 Fra i "dotti" impostori che bazzicavano i mercati della Garfagnana si ha notizie di due infingardi, non sappiamo se le generalità fornite siano vere, ne dubito, ma dai registri delle autorità si ha notizia del dottor Salvadori, medico tirolese, vendeva "vino amaro", approvato nientedimeno dal sigillo del medico di corte del Regno di Napoli, un vero toccasana. Ma il medicamento più richiesto, a quanto pare, era un olio benefico, detto "olio di Sasso", un prodotto che veniva direttamente dalle terre del Ducato di Modena, tale portento scaturiva da alcune sorgenti del Monte Giglio, nei pressi di Sassuolo. Sicuramente questa "medicina" non mancava al più famoso di tutti i ciarlatani che in Garfagnana andava di mercato in mercato: Luigi Gambarotta di Pistoia, possessore inoltre del vero ed unico salutifero "balsamo antiermintico". Per fortuna c'era anche chi svolgeva il proprio commercio in maniera onesta e fra la svariata merce, questa persona offriva servizi che oggi sarebbero chiamati "alla persona". Lo scrivano di questa funzione ne era l'interprete principale visto che, fino agli inizi del 1900 la Garfagnana aveva un livello di analfabetismo al di sopra della media nazionale, perdipiù la necessità di scrivere lettere
aumentò di pari passo con l'incrementarsi dell'emigrazione. Lo scrivano lo si poteva incontrare 
 con cadenza settimanale nei principali paesi garfagnini nei giorni di mercato, aveva il suo banchino solitamente nella piazza principale, pronto a scrivere per l'innamorato di turno appassionate lettere d'amore, oppure a leggere anche le notizie inviate per lettera del caro parente emigrato nelle lontane Americhe, non gli mancava nemmeno di redigere anche missive di notevole importanza. Dopotutto la varia umanità che circolava nei mercati paesani, lasciò il suo segno anche nei detti popolari: "al mercato si conoscono gli uomini meglio che in chiesa". Quegli stessi detti popolari che hanno la forza di immortalare per sempre la vera essenza della saggezza.


Bibliografia

  • "Usanza, credenza, feste, riti e folclore in Garfagnana" di Lorenza Rossi, Banca dell'identità e della memoria, anno 2004
  • "Stasera venite a vejo Terè" . Gruppo vegliatori di Gallicano. Banca dell'identità e della memoria. "La strada" testimonianza di Maria Valentini
  • "Ciarlatani nei secoli" di Ugo Gabriele Becciani, Pistoia 2005
  • "Corriere della Garfagnana" n°4 aprile 2015, "I nuovi articoli sul dazio" di Guido Rossi
  • Antichi mestieri della montagna italiana (Leonardo Ansimoni 1980 stampato in proprio)
  • "Il cammino del Volto Santo. Dalla Lunigiana, attraverso la Garfagnana, fino a Lucca"

mercoledì 19 gennaio 2022

Le inaspettate origini del Vin Brulè...

Talvolta può succedere di credere che alcune proprie tradizioni,
ormai in uso e nella consuetudine da tempo immemore siano originarie del luogo e della regione in cui si vive, non sapendo magari che in altri lidi la stessa medesima usanza è li che è nata e che magari è molto più diffusa di quanto si possa ritenere. Questo vale per qualsiasi tradizione, ma questa realtà capita con frequenza maggiore se applicata nei piatti, nei manicaretti e nelle bevande di cui certe volte ci fregiamo del titolo di primogenitura. Tutto quello che riguarda la sfera della cucina e dei piatti tradizionali è molto soggetta a questa malfatta abitudine, scatenando la corsa di storici ed esperti del settore nello scovare documenti e manoscritti dove si attesti che lì in quel posto quella determinata ricetta si faceva prima che in ogni altro dove. Quello che è sicuro che una data su un foglio, pur antico che sia, non certifica affatto che in altri luoghi quel piatto o quella ricetta prima non fosse mai stata fatta. Figurarsi poi se in una terra di accesi campanilismi come la Garfagnana questo non accade... Senza scendere nel particolare (per l'amor di Dio !!!) questo principio si può applicare su squisitezze nostrane come il biroldo, la pasimata, i befanini, ogni paese ed ogni borgo garfagnino non esista infatti a rivendicarne l'appartenenza. Comunque sia per chiarire ancor meglio il concetto e per fare qualche esempio pratico che non tiri in ballo guerre di campanile possiamo portare a modello qualche prelibatezza nazionale. Gli spaghetti senza dubbio sono uno dei nostri piatti portabandiera, conditi con molteplici sughi, preparati in decine e decine di modi, eppure non sono italiani... Infatti per alcuni storici fu Marco Polo ad
introdurre gli spaghetti in Italia nel 1295, al suo ritorno dalla Cina e a quanto pare s
embra certo che il più antico piatto di spaghetti giunto fino a noi fu rinvenuto in una zona nel nord-ovest della Cina stessa e risalirebbe a circa 40.000 anni fa, ma sono spaghetti di miglio, infatti gli spaghetti cinesi, sebbene antichissimi, erano soprattutto a base di soia, il frumento non era  conosciuto. Che dire poi del pomodoro? Condimento principe dei suddetti spaghetti? Le regioni del sud Italia ne producono fra i migliori al mondo. Ciononostante, come ben si sa, il pomodoro è originario del Sudamerica occidentale. Portato nell’America centrale, fu messo a coltivazione dai Maya, i quali svilupparono il frutto nella forma più grande che conosciamo oggi. Fu qui che Hernán Cortés lo vide durante l’occupazione della regione, fra il 1519 ed il 1521. Dal Messico i semi giunsero in Spagna al seguito di coloni e missionari. L’Italia fu il primo paese europeo, dopo la Spagna, a conoscere il pomodoro, grazie agli stretti rapporti esistenti tra i Borbone e le famiglie regnanti dell’epoca e ai domini spagnoli su territorio italiano. Come questi casi narrati ne esistono molti altri e un caso simile riguarda una bevanda che alcuni credono garfagnina e che proprio in questo freddo inverno trova il suo maggior consumo... Signore e Signori ecco a voi le inaspettate origini del Vin Brulè. Innanzitutto cominciamo con il dire che se anche il Vin Brulè non ha niente a che fare con la Garfagnana, non
per questo non lo possiamo considerare a buon titolo anche una nostra tipica bevanda e pertanto merita come tutte le altre prelibatezze nostrane il suo degno articolo in questo blog. Fatta la doverosa premessa possiamo sicuramente affermare che il "brulè" è la bevanda tipica delle zone montane italiane e di tutta l'Europa continentale. Proprio per questa sua internazionalità, la sua è una storia che fa il giro del mondo. Ma partiamo dall'inizio. Le sue prime notizie scritte si hanno nell'antica Roma, è nel "De re coquinaria" che si ha per la prima volta nero su bianco la sua ricetta che risale nientepopodimeno che tra il I e il IV secolo a.C. Il vin brulè dagli antichi romani era chiamato il "conditum paradoxum" e Marco Gavio Apicio (lo scrittore del ricettario) ci dice che: "
siano versati in un vaso di bronzo un quarto di vino e due cucchiai di miele, in modo che, mentre il miele bolle, il vino diminuisca di volume. Scaldalo a fuoco lento di legna secca, gira il tutto con un bastoncino finché prenderà il bollore. Quando comincerà a salire trattienilo versando altro vino. Quando lo avrai tolto dal fuoco, sarà diminuito di volume. Una volta freddo fallo scaldare di
nuovo. Ripeti per altre due volte. Il giorno dopo lo schiumerai. Aggiungi allora 120 grammi di pepe, poco pistacchio, cannella e zafferano, cinque ossi arrostiti di datteri. Trita cinque datteri che dal giorno precedente avrai posti nel vino per farli ammorbidire. Fatto ciò versa due litri circa il vino giovane. La cottura sarà perfetta quando avrai consumato circa un chilo e mezzo di carbone”.
Insomma, a quanto pare la preparazione era un po' più complicata di come lo facciamo oggi e sicuramente con ingredienti diversi. La questione degli ingredienti in effetti è molto variabile e giustamente i prodotti da inserire nel vino differiscono da quello che la natura offre a un determinato territorio, infatti c'è chi mette pezzetti di mela, lo zenzero o il cardamomo. Fattostà che più i secoli andavano avanti e più la ricetta del vin brulè, così oggi come la conosciamo trova una sua versione simile alla nostra nel lontano medioevo. Come sempre i divulgatori "moderni" di queste preparazioni saranno i frati, sapienti conoscitori di spezie, e fu proprio durante questo periodo che questa bevanda raggiunse anche la Garfagnana. La valle è sempre stato terra di chiese, monasteri ed eremi e in quel remoto tempo le nostre strade pullulavano di umili fraticelli, che sulle origini del "vino conditum" avevano tutt'altra teoria e ci raccontavano una storia ben più diversa  da quella romana. Una storia che risalirebbe ai tempi del medico greco Ippocrate, ipotesi fra l'altro avvallata dal nome scelto per indicare il vin brulè di quell'epoca: "ipocras", ossia "manica d'Ippocrate". I frati scelsero di chiamarla così perchè in questo
modo vollero sottolineare le caratteristiche medicamentose della bevanda, efficace, così dicevano, per combattere le malattie stagionali: raffreddori e bronchiti. In sostanza possiamo però affermare che fino a quei tempi questa bevanda non conobbe una grossa diffusione, la sua vera "globalizzazione", a quanto pare, la dobbiamo agli svedesi che associarono la bevanda al periodo natalizio. Fu un "merchandaising" ante litteram se il vin brulè, o meglio "il glogg" (così che si chiama in Svezia) prese la via del successo, a fine 1800 furono infatti i vinattieri e gli speziali di quei luoghi che per aumentare un po' gli introiti si misero a dipingere delle bottiglie di "glogg" e le iniziarono a vendere ai mercatini natalizi. Fu così, in questo modo, che la fama di questa bevanda prese piede in tutti i luoghi di montagna di tutta Europa. In Germania così  diventò "il gluwhein", in Francia "il vin chaud", in Inghileterra e Stati Uniti "il mulled wine" e... in Italia perchè lo chiamiamo "Vin Brulè". "Brulè", letteralmente significa "bruciato". La parola deriva dal dialetto franco-valdostano, perciò tradotto in parole povere indica un "vino bruciato". La ricetta naturalmente non sto manco a dirvela, sicuramente la sapete meglio di me. Dosi, spezie e quale miglior vino usare, tutto dipende dai gusti che uno ha. Comunque sia niente è più
profumato di un vin brulè: quel vino bollito nel pentolone con cannella, bucce d'arancia, chiodi di garofano, zucchero, inebriano l'aria dei nostri paesi dal giorno dell'Immacolata fino alla fine del Carnevale.

mercoledì 12 gennaio 2022

Quelli che erano i nomi di battesimo più diffusi in Garfagnana...

Cari futuri genitori, dare il nome al nascituro che fra poco tempo
allieterà (più o meno...) le vostre prossime giornate non è cosa da poco. D'altra parte un nome attribuito ad un pargoletto non rivela nulla delle sue caratteristiche personali e d'altronde è indubbio che questo bambino si ritroverà un nome fra "capo e collo" che lui (ovviamente) non ha scelto. Invece, dall'altro lato, è altrettanto chiaro che questo nome dirà molto delle caratteristiche di chi lo sceglie, infatti, è fuori di dubbio che l'insieme di tutti questi nomi in una società possono essere considerati un indicatore sensibile delle tendenze, dei gusti e dei valori comuni di una determinata epoca storica. Insomma, bene o male anche i nomi fanno parte della sfera della moda, del gusto del momento o dell'usanza corrente. Rimane il fatto, comunque sia, che esiste una classifica ben definita dei nomi di battesimo più diffusi in Italia ed è curioso vedere anche tale classifica riferita specificatamente alla nostra cara Garfagnana. Il lavoro fatto per arrivare a questo è stato a dir poco certosino e fa riferimento allo spazio di tempo che parte dal 1900 e arriva al 1999 e tutto ciò è stato tratto dagli archivi digitali dell' Istituto Nazionale di Statistica, meglio noto a tutti come I.S.T.A.T. Prima di arrivare al nocciolo della questione però e doveroso fare un viaggio nei regolamenti e nelle leggi che esistono sull'attribuzione di un nome.
Si perchè non è che proprio proprio ad un bambino si può dare il nome che uno vuole... La scelta tuttavia è ben ampia, sono infatti 28.000 i nomi di persona documentati in Italia nel '900, in base ai dati del Ministero delle Finanze. La vastità di tale repertorio non lascia dubbio sull'ampio grado di libertà che possono avere i futuri padri e madri. Con tutto ciò però, è bene specificare che fino al 2000 è stato in vigore il divieto, introdotto nel 1939, di: "imporre un cognome come nome, altresì ridicoli o vergognosi o contrari all'ordine pubblico, al buon costume o al sentimento nazionale o religioso, o che sono indicazioni di località o in generale denominazioni geografiche e, se si tratta di un bambino avente la cittadinanza italiana, anche nomi stranieri". Naturalmente è inutile affermare che nel corso del secolo scorso non sono mai stati rispettati pienamente questi vincoli e visto che queste norme venivano pienamente disattese i legislatori hanno fatto buon viso a cattivo gioco e una revisione introdotta dal D.P.R 396 del 3 novembre 2000 non ha fatto altro che prendere atto di una situazione esistente, facendo cadere indicazioni divenute anacronistiche per una società democratica e multietnica. Unico limite alla fantasia dei genitori è rimasto il divieto di attribuire un cognome come nome, nonchè nomi ridicoli o vergognosi, una forma di tutela della persona che ci piacerebbe pensare di non dover delegare alla legge. Il secolo preso in visione in questo caso per quando riguarda la Valle del Serchio intera riflette un periodo storico particolare, perchè in questo arco di tempo in Italia la società ha avuto cambiamenti profondi: due guerre, conflitti politici e sociali, ma non solo, anche la circolazione delle persone e delle idee ha inciso profondamente a livello onomastico. Difatti se è vero come è vero che i nomi sono legati alle tendenze del momento vediamo che anche in Garfagnana negli anni '80 ci fu un proliferare del nome Pamela,
Pamela...di "Dallas"
probabilmente questo era legato ad una delle prime serie T.V: "Dallas". La serie ebbe un successo clamoroso e "Pamela" era una delle protagoniste di questo telefilm. Non crediamo però che questa moda di attribuire nomi di personaggi della televisione e dello spettacolo 
sia una tendenza attuale, anche nei primi anni del 1900 il nome "Cabiria" fu dato grazie ad una pellicola cinematografica del 1914, uno degli sceneggiatori di questo film, che fu uno dei primi kolossal, era nientepopodimeno che Gabriele D'Annunzio e Cabiria (in Garfagnana c'erano otto bambine che portavano questo nome) era appunto la protagonista di questa opera. Questa voga continuò nei decenni a venire e negli anni '40 anche dalle nostre parti fu il momento di venire alla luce di alcune bambine di nome "Deanna". Deanna Durbin era infatti un'attrice famosissima, vincitrice di un premio Oscar e acerrima rivale di Judy Garland. Ascese alle cronache nazionali poichè si racconta che nel 1941 il dittatore italiano Benito Mussolini scrisse una lettera aperta sul giornale "Il Popolo d'Italia" dove invitava l'attrice ad adoperarsi per convincere il presidente statunitense Franklin Delano
Deanna Durbin
Roosvelt
 a non far coinvolgere la sua nazione nella seconda guerra mondiale, l'invito non fu mai raccolto... A proposito di Mussolini, anche in Garfagnana non potevano mancare i nomi legati a quell'ormai lontano ventennio... Naturalmente il nome Benito vide il picco massimo proprio in quel periodo e in Garfagnana di Benito ce ne erano molti... ma non moltissimi come si potrebbe credere. L'era fascista portò (anche) in dote altri nomi legati alle italiche imprese. Adua infatti prima di essere un nome, era, ed è una città dell'attuale Etiopia. La guerra in questa nazione africana fu intrapresa (fra i vari motivi) dall'Italia fascista proprio per vendicare una sonora sconfitta avvenuta in questa località nel
La battaglia di Adua
conflitto d'Abissinia del 1895. Sempre su questo leitmotiv non ci possiamo dimenticare nemmeno di Derna. Nella nostra valle erano presenti 27 ragazze che portavano il nome di questa città libica, divenuta provincia italiana nel 1939. Vabbè, poi i nomi Vittorio, Vittoria e Italia saranno quelli che in quegli anni andranno per la maggiore. Sempre ed a proposito di politica è giusto dire che con l'attribuzione del nome non veniva omaggiato solamente tutto quello che era sotto l'egida del littorio, nei primi anni del 1900 anche in Garfagnana nella più alta spinta patriottica si volle dare onore al proprio figlio chiamandolo con il nome dei regnanti di Casa Savoia, ossia Umberto, il re e Margherita, la regina. Altro caso singolare e a dir poco curioso fa riferimento nel dare il nome ai
Il re Umberto I
propri figli in base al numero ordinale di nascita. Se per caso il bambino era il primogenito (con uno sforzo di fantasia enorme) il piccolo poteva essere chiamato Primo, Quinto se era nato per quinto, Settimo se era il numero sette di una larga figliolanza. Questo andazzo nelle famiglie contadine garfagnine era piuttosto in uso. Molto in uso erano anche tutti quei nomi portati in eredità, non mancava che il piccoletto portasse il nome dei nonni o dei bisnonni che i genitori davano a loro in memoria o in ossequio al proprio genitore. In alcuni di questi casi andava bene e in altri casi ancora si ereditava un nome che addirittura era già passato di moda: Alvise, Alceste, Clemente, tutti nomi (presenti anche da noi)e che erano in auge nel 1800. Logicamente fra tutte queste categorie di nomi in Garfagnana c'è quella che fa la parte del leone ed è proprio quella numerosa fascia di nomi che rientra negli "agionimi". La forte tradizione cattolica della valle ha fatto si che nel corso del secolo sotto esame una larghissima fetta di questi nomi provenisse dal nome proprio di un santo: Giovanni, Giuseppe, Maria, Lucia, e chi più ne ha più ne metta. Da un attenta analisi vediamo che questi nomi per così dire "devozionali" nella Valle hanno avuto il suo apice nel decennio che va dal 1950 al 1959, probabilmente perchè il 1950 fu un anno particolare per tutti i cattolici, dato che si celebrò a Roma il cosiddetto Giubileo di Papa Pio XII, l'Anno Santo fu convocato dopo le miserie della seconda guerra mondiale. Il medesimo anno fu 
anche l'anno in cui il Papa
proclamò il dogma dell'Assunzione di Maria, secondo il quale la Madonna, alla sua morte, è stata trasferita in cielo nell'anima e nel corpo e
 sempre nell'occasione di quell' Anno Santo il Santo Padre diede l'annuncio del ritrovamento della tomba di San Pietro. Insomma il fervore religioso di quegli anni vide un proliferare di nomi strettamente legati ai santi o anche a nomi d'ispirazione biblica: Luca, Matteo, Simone, Davide. Ad ogni modo vediamo nello specifico la classifica "garfagnina" dei nomi di battesimo più diffusi. Di sorprese non ce nè e tutto rimane nell'alveo della classicità più assoluta. Al primo posto nella graduatoria maschile c'è Giuseppe, al secondo c'è Giovanni, al terzo Antonio, seguono Mario, Luigi e Francesco. Tra le donne Maria ed Anna sono al primo e secondo posto, poi nell'ordine Giuseppina, Angela, Giovanna, Teresa e Lucia. Quello che possiamo aggiungere è che tutti questi nomi sono condannati a sparire, tant'è che negli ultimi trenta, quaranta anni questi nomi sono quasi del tutto scomparsi e la tendenza ha virato su altri nomi ancora. Infatti fra le femminucce spiccano i nomi Giulia, Martina e Sofia e fra i maschietti primeggiano Lorenzo, Andrea, Matteo e Francesco. Consideriamo ancora il non marginale fatto che in questa classifica, abbiamo nomi come Kevin, Thomas, Alex e Denis, fatto praticamente inesistente fino alle fine degli anni '70 del 1900. Peraltro, segno evidente di una società che si sta dirigendo verso la multietnicità, notiamo la presenza di nomi come Kamal, Youssef, Fatima e Miriam o nomi tipicamente dell'Europa dell'est come Gheorge, Constantin, Ana e Iona. Fattostà, che anche
un nome può anche essere non per sempre...Ad onor del vero le procedure per il suo cambio sono tutt'altro che semplici. Innanzitutto serve il via libera dal Ministero dell'Interno, dopodichè bisogna rivolgersi alla Prefettura e tale domanda verrà approvata solo se il nome è ridicolo, vergognoso o oggetto di discriminazione... In alternativa esistono i soprannomi...