mercoledì 26 maggio 2021

Una storia lunga secoli su quegli strani fenomeni garfagnini, che nessuno sa e sapeva spiegare...

Se c'è una cosa sulla quale tutti possiamo concordare è che il mondo, così come lo conosciamo, è davvero un posto strano e originale. Nel corso dell'evoluzione, man mano che il nostro intelletto andava ad affinarsi, siamo riusciti a spiegare e a catalogare sempre più stranezze e abitudini alquanto bizzarre, rendendoci sempre più padroni e fautori della nostra consapevolezza di "uomo intelligente". Eppure, qualcosa resta ancora senza risposta (più o meno) e non si è mai smesso di fantasticare o di creare curiose leggende su alcuni dei casi più eclatanti. Infatti questi "eventi strani" rientrano a buon titolo nella categoria del "preternaturale". Ma cosa significa questa strana parola? Il "preternaturale" è ciò che appare al di fuori o accanto (dal latino praeter) alla struttura del naturale, in pratica è ciò che è sospeso tra il mondano e la magia, fra il vero e l'incredibile. La suddetta materia è un argomento per niente frivolo e superficiale, tale disciplina è trattata perfino in teologia e il termine viene usato per distinguere meraviglie, trucchi ed inganni, spesso attribuiti
alla stregoneria. Dall'altra parte gli scienziati trattavano questo argomento da un altro lato e la parola faceva riferimento ad anomalie e strani fenomeni di vario genere che si discostavano dalle norme della Natura. In Garfagnana come ben si sa, in tal senso non manca niente: esseri fantastici, fantasmi, luoghi della paura, streghi, buffardelli e chi più ne ha più ne metta, ma accanto a questo mondo puramente fantastico, esiste anche il mondo parallelo del "preternaturale", fenomeni a quanto pare (presunti) veri a cui ancora non si è data una convincente giustificazione razionale. Dalle nostre parti di questi fatti e fattarelli si ha notizia da tempo immemore, fino ad arrivare ai giorni nostri. Percorrendo i secoli le prime notizie scritte si hanno già dal XVII secolo. E' difatti il caso di quanto riportava Pellegrino Paolucci, Preposto in quel di Sillano nel 1720 nel suo libro "La Garfagnana Illustrata". Eravamo a Ceserana nell'anno di Grazia 1620 e alcuni operai stavano compiendo dei lavori di ristrutturazione su una scala: " Vi fu ritrovata una cassa di pietra, nella quale giaceva il cadavere d'un gigante, il quale aveva
i denti lunghi un dito d'uomo grande de' nostri tempi. E se è vero che "Ab ungue Leonem" (n.d.r: ossia il leone si riconosce dall'artiglio)può argomentarsi da' denti, che fosso un colosso di carne, come Golia, per non dirlo simile a quello di Rodi. E se quello, benchè franto, potè da Timante misurarsi dal dito pollice del piede; questo, benchè fatto scheletro, mostrò la sua grandezza a proporzione dei denti".
Insomma un gigante vero e proprio di cui non si sono più avute notizie, nonostante fossero indicati precisamente il luogo del ritrovamento e la data, tutto finito nell'oblio senza altra indicazione sulla fine dello scheletro del presunto gigante. Sempre ed a proposito di strane creature il Paolucci racconta sempre di strani uccelli visti sul paese di Sassi: "Sono molti anni che sul principio di Aprile fu veduto svolazzare una moltitudine d'uccelli grossi, d'ignota specie, a' quali non nuocevano l'archibugiate e in detto tempo pericolarono alcuni di quegli abitanti. Fecero voto però
di solenizzare uno di que giorni e cessò il pericolare, nè più si videro quei mostri volanti
". Queste vicende inspiegabili non riguardano solo strane creature, in questa ottica ci rientrano anche fatti paranormali chiamati in questo caso "segnali centenari". Per "segnale centenario" s'intende dare a un comune mortale delle indicazioni e delle tracce sovrannaturali  per trovare determinate ricchezze. Da questi segnali l'uomo può difatti ritrovare delle vere e proprie fortune nascoste da altri uomini non più vivi. Queste tracce vengono date obbligatoriamente ogni cento anni dall'anima del proprietario del tesoro nascosto, se trascorsi centotrenta secoli e se nessuno fosse riuscito ad impossessarsene il tesoro sarebbe rimasto nelle mani dell'anima defunta. Naturalmente  tale anima cercherà in ogni modo di sviare l'attenzione dell'uomo da questi segnali. Vediamo allora quello che da testimonianze accadde al Capitano Ponticelli nei primi anni del 1600:"Niccolò Ponticelli di Castelnuovo, valoroso capitano al servizio dell'esercito modenese e forse capostipite del marchesato omonimo, una notte per necessità del suo servizio percorreva il tratto di strada tra Marigliana e Monteperpoli, dicesi che, appunto s'imbattesse in uno di questi segnali centenari che testimonia l'esistenza di tesori nascosti. Un
gran fuoco acceso proprio sul ciglio della via gli si parò dinanzi improvviso. Il modo insolito con cui questo fuoco s'era acceso lo meravigliava. La notte era fredda, oscura e piovigginosa. Tale apparizione sembrava proprio che avesse qualcosa di sovraumano. Il capitano si avvicinò ma non potè arrivare presso il fuoco che questo si spense ad un tratto per poi brillare di nuovo più lontano, sempre sulla strada"
e così più e più volte fino a che ad un certo punto della storia ecco una voce che mormorò: "-Venturiero che cerchi ventura, perchè corri dappresso al mio fuoco? Esso non può scaldare le membra, il gelo dei secoli ne ha assiderato il calore - In quel momento gli sembrò che qualcosa di meno fluido e più consistente dell'oscurità si interponesse fra lui e il fuoco:- Chi sei?- gridò il capitano, l'ombra rispose lenta e senza eco:- Ero l'Augure che presiedeva ai sacrifici nel tempio della Gran Selva. Allor che la Dea Feronia fu destituita da altre divinità e il suo tempio distrutto dagli uomini, io raccolsi il tesoro sacro, lo costudì e tra esso e la loro rapacità posi l'impossibile, riconsacrando il tesoro all'occulto. Viandante va!- Il colloquio fra il capitano e l'oscura presenza continuò fino a che l'anima non convinse lo stesso Ponticelli a demordere dalla sua impresa d'inseguire il tesoro, l'oscura presenza in cambio di ciò gli lasciò un mucchietto di soldi d'oro ed inoltre trasformò l'impugnatura della sua spada in oro.
Parecchi anni dopo, il 6 agosto 1613, nella battaglia dell'assedio di Gallicano in un furioso corpo a corpo ebbe spezzata la sua spada. Gli rimase in mano la sola impugnatura d'oro:- Cattivo presagio- dicesi che mormorò il capitano- sventura a me!- Il giorno dopo un colpo d'archibugio delle soldatesche lucchesi lo colpì e lo stese morto. Questi irrazionali episodi non fanno parte solamente del tempo che fu, alcune storie arrivano anche ai giorni nostri e ritornano a parlare di strane creature come ad esempio il serpente di Bergiola. Bergiola è tutt'oggi un paesino abbandonato nel comune di Minucciano. Questo paese fu abbandonato definitivamente dopo il catastrofico terremoto del 1920 che colpì Garfagnana e Lunigiana. Fu in quel momento che in certi periodi dell'anno si parlava di strane presenze nel vecchio paese, c'era infatti la possibilità d'imbattersi in un mostruoso serpente nero, chiamato comunemente da quelli che giurano di averlo visto con i propri occhi "Devasto". Quando si muoveva fra i ruderi di Bergiola il
Bergiola oggi
 rumore terrificante del suo passaggio si sentiva dai paesi vicini. Le sue dimensioni erano veramente notevoli, due-tre metri di lunghezza per circa quindici centimetri di diametro, la sua testa non somigliava per niente a quella di un rettile ma piuttosto a quella di un furetto. Il luogo in cui si credeva e si crede che abbia stabilmente dimora e nella vecchia cisterna dell'acqua. La quasi totalità dei testimoni diceva che il serpente era maschio e riusciva riprodursi autonomamente, fecondandosi cioè da solo. Sempre sulla falsariga del rettile ecco la storia più recente e famosa e nessuno si può dimenticare quello che accadde sul Monte Palodina. 
Andiamo allora a raccontare uno degli strani eventi che nascono da questo monte. Il posto è stato, ed è sempre luogo di escursionisti, cercatori di funghi e cacciatori e proprio uno di questi cacciatori (esiste anche nome e cognome) verso la metà degli anni '80 divenne famoso in tutta Italia. Durante una battuta di caccia sulla Palodina stessa si apprestava a ricaricare il suo fucile quando alle sue spalle uno scricchiolio di rami e foglie distolse la sua attenzione: "sicuramente sarà la mia preda" pensò fra se e se, ma subito si trovò di fronte un grosso essere squamoso alto più di due metri e con la testa da rettile, il cacciatore preso dal panico fuggì a gambe levate distruggendo anche il fucile nella sua precipitosa
La Palodina
fuga. La notizia in breve tempo raggiunse radio e televisioni locali che riportarono dettagliatamente l'evento, tale notizia fu poi ripresa anche dai media nazionali. Rimane il fatto che tutte queste storie e vicende fanno comunque parte di un mondo folkloristico e che quindi sono tutte da verificare pertanto dobbiamo credere a quello che  solo  vediamo...


Bibliografia

  • "La Garfagnana Illustrata", Pellegrino Paolucci, anno 1720
  • "Usanze, credenze, feste, riti e folclore in Garfagnana" di Lorenza Rossi, Banca dell'Identità e della Memoria, Cominità Montana della Garfagnana, anno 2004

giovedì 20 maggio 2021

La polenta, il "formenton", il mais. Storia di un alimento e di una coltura che salvò dalla fame la Garfagnana

Giornale di bordo del 5 novembre 1492:"C’erano grandi campi coltivati
con radici, una specie di fava e una specie di grano chiamato mahiz".
Così Cristoforo Colombo annotava con piglio catalogatorio il paesaggio agricolo delle Indie. Da quel giorno la storia dell'alimentazione cambiò per sempre. Il mais arrivò così anche in Europa intorno al 1525 e quella piantina dallo straordinario ritmo di crescita, che da tremila anni era alla base dell'alimentazione delle civiltà amerinde, fu destinata a ridisegnare completamente i profili rurali (anche) di tutto il nord Italia, nonchè a stravolgerne le abitudini alimentari. Il mais prima di quella data (1525) era già coltivato in Spagna e Portogallo con un nuovo nome "grano turco". Ma perchè turco? Il linguaggio comune del
tempo chiamava "turco" tutto quello che era straniero, o meglio non europeo. Un'altra ipotesi invece dice che il mais fosse già giunto in Europa non dalle Americhe, ma bensì dal medio oriente, con già il nome "granturco" poichè i persiani che lo coltivavano e lo mangiavano vivevano sotto l'impero turco. Comunque sia il suo arrivo in Italia trovò terreno fertile soprattutto in Veneto e nel Friuli. Dapprima, fu la "Serenissima" Venezia ad introdurlo nei suoi territori, 
visto le sue importanti reti commerciali e la prima semina "italiana"(secondo lo studioso Giovanni Beggio)è datata 1554: "La mirabile et famosa semenza detta mahiz ne l'Indie occidentali, della quale si nutrisce metà del mondo, i Portoghesi la chiamano miglio zaburro, del qual n'è venuto già in Italia di colore bianco et rosso, et sopra il Polesene de Rhoigo et Villa Bona seminano i campi intieri". Ma per vedere l'ascesa e il vero successo di questa nuova coltivazione si dovrà aspettare ancora un paio di secoli, quando finalmente arrivò anche in Garfagnana. Fu infatti durante il settecento che arrivò prepotentemente sulla tavole garfagnine mutandone definitivamente le abitudini alimentari, non più solo castagne e polenta di neccio, ma una nuova polenta stava prendendo piede. Per di più in quegli anni una ciclica serie di carestie fece si che la polenta di granoturco diventasse uno dei piatti principali da mettere sulle tavole, per un semplice motivo: la fame. Fu talmente alto il suo consumo che si calcolò che in base alle coltivazioni il
consumo pro capite di farina di mais per garfagnino fosse intorno ai 50 chili l'anno (oggi siamo appena a tre chili). Insomma questa nuova coltura arrivò proprio come una manna dal cielo, però portò con se anche dei lati negativi. Se da una parte aveva salvato dalla fame molti garfagnini, dall'altra parte aveva visto l'insorgere di una brutta malattia dai sintomi terribili: desquamazione della pelle, diarrea e demenza, era la pellagra. La colpa non era dovuta allo stesso mais ma a una alimentazione squilibrata, basata sempre e comunque sul solito alimento consumato, questo abitudine portò alla carenza di una vitamina presente in altri alimenti indispensabile per il nostro organismo. La polenta d'altronde è un alimento che ha origini lontanissime, il nome deriva dalla parola latina "puls", infatti, già nell'antica Roma lo stesso Plinio la definì "il primo cibo dell'antico Lazio", quella che appunto era una "poltiglia" preparata cuocendo farina di farro con acqua e in realtà non facciamoci trarre in inganno dalla parola "polenta", difatti per polenta nella nostra valle s'intende esclusivamente quella di granturco o quella di
castagne, ma è da tempo immemore che una qualsiasi polenta fatta con svariati cereali (segale, orzo, miglio, sorgo, ecc...)rimaneva il piatto principale dell'alimentazione contadina da secoli e secoli, a confermare questo è un documento lucchese del 765 d.C, dove si parla di un "pulmentario" di fave e panico, cibo destinato a elemosina per i  poveri. Niente a che vedere con le nostre specie autoctone, il "formenton ottofile" è una varietà di mais tutta garfagnina. La sua coltivazione è abbastanza limitata sia per la scarsa estensione, sia per il clima spesso avverso, ma la sua qualità è rinomata e dal sapore
Formenton Ottofile
inconfondibile. La pannocchia è snella con chicchi disposti in otto file (da qui il nome) dai colori gialli e rossi. La sua produzione in annate particolarmente favorevoli può raggiungere 8/10 tonnellate. Viene raccolto manualmente intorno a settembre o al massimo ottobre, una volta essiccato e macinato da una farina pregiatissima. Rimane il fatto che con essa possono essere fatte succulente polente e ottime farinate (una via di mezzo fra una polenta e un minestrone). Un'altra varietà di mais "garfagnino" è il "Nano di Verni", la sua origine è sconosciuta, ma è da oltre un secolo che viene coltivato nelle zone di Verni e Trassilico. Pianta di piccola taglia (ecco l'origine del suo bizzarro nome), che proprio per questa sua caratteristica in tempo di guerra veniva coltivato lungo i fossi, in modo così da non essere visto. Il suo ciclo di vita è molto breve è resistente però alla siccità ed è di moderate
Il Nano di Verni
esigenze. Mostra anche un particolare adattamento alle zone montane, anche in terreni poveri e asciutti. Dalla sua farina nascono piatti prelibati, ottima difatti per fare i "mignecci" (focaccine di granoturco di circa 2-3 mm di spessore e dal diametro di venti centimetri),da accompagnare con la "Minestrella di Gallicano" (una minestra di erbe selvatiche), indicata pure per fare le celeberrime Crisciolette, (schiacciate tipiche del paese di Cascio preparate con impasto d'acqua, farina di grano e mais, ripiene di pancetta o lardo). Fra tutti questi prelibati manicaretti, sempre ed a proposito di polenta, non si può non menzionare la polenta con il "salacchin". Per quei pochi che forse non lo sanno il salacchino è un aringa affumicata e conservata sotto sale, era uno di quei "mangiari" antichi, purtroppo dimenticati grazie al benessere post bellico. Spesso "il salacchin" stava attaccato al soffitto e la polenta una volta rassodata, veniva "strusciata" sopra per fargli prendere un po' del suo sapore forte. Comunque sia com'era nelle buone abitudini contadine di un tempo, di ogni pianta si cercava di sfruttare ogni sua parte. Questa regola aveva valore anche per il granoturco che non era buono solo per mangiare, ma in Garfagnana le sue foglie venivano utilizzate nelle maniere più disparate. Infatti le foglie più esterne della pannocchia venivano date alle mucche, mentre le più interne, bianche e raffinate, servivano per riempire i materassi di casa, ma
non solo, gli steli più grossolani non utilizzati per l'alimentazione del bestiame servivano per il fuoco, più che altro per far bollire l'acqua per il bucato. Onore quindi al granturco e alla polenta che è, e rimarrà sempre il cibo povero dei poveri.

Bibliografia

  • Herbario Nuovo di Castore Durante (1585)
  • "Il Mais" di Azimonti Eugenio, Hoepli 1902
  • http://germoplasma.regione.toscana.it/

mercoledì 12 maggio 2021

Origine, significati e misteri dei "modi di dire" toscani e garfagnini

Cos'è tecnicamente "un modo di dire"? "Un modo di dire" è
quell'espressione che si dice essere una frase idiomatica, ossia una frase che spesso non può essere tradotta in nessun'altra lingua. In pratica è un modo con cui personalizziamo la comunicazione fra noi. Per capire ancora meglio, tale locuzione è classificata come “linguaggio automatico”, è una speciale frase o espressione dotata di un significato figurativo distinto dal suo significato letterale. Per dirla in maniera più semplice e poetica "un modo di dire" non è altro che la quintessenza di un popolo. La Garfagnana e la Toscana in genere di questi "modi di dire" ne hanno a bizzeffe e proprio dalle nostre parti hanno resistito più che nelle città, dove piano piano vengono sostituiti dallo slang giovanile. Tuttavia "un modo di dire" merita protezione e attenzione proprio come un animale in via d'estinzione, perchè queste frasi fanno parte della nostra storia e identificano quale era il nostro modo di essere e poichè taluni di questi oggi rischiano di risultare incomprensibili, mi è sembrato opportuno buttarne giù alcuni fra i più simpatici e divertenti. Ne è venuto fuori un viaggio curioso, particolare e inconsueto e mostra che nemmeno queste singolari locuzioni nascono a caso, trovando infatti origine nella storia e nel nostro modo di vivere. Quante volte abbiamo sentito dire dalla nostra mamma "roba da chiodi!", "un modo di dire" che alluderebbe ad argomentazioni insostenibili,
inconcludenti; a ragionamenti che non hanno nè capo nè coda, ebbene questa frase troverebbe origine dai fabbri, dato che un tempo proprio per fabbricare i chiodi si usavano gli avanzi del ferro, quindi in senso traslato "roba da chiodi" si riferisce ad un comportamento non corretto, quasi spregevole come era la materia di scarto con cui erano fabbricati. Altra ipotesi dice che tali ragionamenti sono talmente senza senso che per stare in piedi devono idealmente essere rinforzati con i chiodi. E cosa s'intende quando si dice "alla Carlona"? Per significare che una cosa è fatta senza pretese? Alla buona insomma. Bhè, tale Carlona non era una paffuta signora  che faceva le cose così tanto per farle, anzi, questa parola si riferisce nientepopodimeno che a "re Carlone", ossia a Carlo Magno in persona, che anche dopo l'incoronazione a Sacro Romano Imperatore non rinunciò mai alle sue abitudini e ai suoi abiti un po' grossolani. Pensate un po' questo modo di dire è antichissimo, è attestato nella letteratura italiana sin dal 1400 da Pietro l'Aretino. Sempre a proposito di re, regine e alti dignitari il detto "andare a Canossa" ci riguarda da molto vicino, poichè "Nostra Signora" Matilde di Canossa,
Matilde di Canossa
Grancontessa e Vicaria Imperiale, nonchè "padrona di tutta la Garfagnana" rientra a buon titolo in questa espressione, dato che tale frase deriva da un noto fatto storico e significa "umiliarsi, piegarsi di fronte a un nemico, ritrattare, ammettere di avere sbagliato, fare atto di sottomissione". Essa trae infatti origine dall'avvenimento occorso a Canossa (proprio nel castello di Matildenel rigido inverno del 1077, allorquando l'imperatore Enrico IV attese per tre giorni e tre notti, scalzo e vestito solo di un saio, prima di essere ricevuto e perdonato da Papa Gregorio VII, con l'intercessione della stessa Matilde di Canossa. Altri modi di dire traggono invece il loro concetto principale dalla vita contadina e se ormai nella desueta frase "consolarsi con l'aglietto" (a
ccontentarsi di poco. Deriva da "aglietto", cioè aglio giovane, non ancora formato, senza spicchi. Quindi contentarsi di cosa di poco valore), molte altre di queste espressioni sono ancora assai presenti nel nostro modo di parlare come: "fare di tutta un erba un fascio", ovvero generalizzare eccessivamente, un po' come facevano le nostre nonne quando per pulire i campi raccoglievano tutte le specie di erbacce in un solo fascio, senza distinguerle. E che dire poi di una cosa (o talvolta una persona) "fatta con il pennato"? Quello che è sicuro che per cesellare e fare un lavoro di
fino su un pezzo di legno non serve il pennato, questo attrezzo è adatto per lavori grossolani: sbozzare, sgrossare, tagliare... Sempre riferito al mondo rurale esiste ancora un'altra fase: "Oggi in piazza c'era un tritello, un si passava...", tradotto: "Oggi in piazza c'era talmente tante gente che non si passava", o si può anche dire "
fare un tritello" ("fare un macello"). Ma cos'è il tritello?. Il tritello è il sottoprodotto dei cereali, quello che i contadini ottengono rimacinando questi prodotti. Quindi, in sostanza, di un tritello non si riconosce più niente, tutti i cereali vengono sminuzzati insieme a mo' farina in modo da non distinguerli più. Non dimentichiamoci, sempre in questo ambito
 l'espressione "è grasso che cola", ovvero, quando le cose ci sono in abbondanza, anche se più precisamente fa riferimento ad un'impresa dalla quale si ricavano utili superiori al lavoro eseguito. Comunque sia il grasso in questione è il grasso del
maiale, una vera e propria ricchezza nella civiltà contadina, dal momento che, come si suole dire, "del maiale non si butta via niente", tanto meno il grasso, che veniva usato per una miriade di utilizzi come l'illuminazione, per ungere i "barocci", per cucinare e altro ancora. Adesso guardiamo quei modi di dire riferiti alla persona e più precisamente vediamo cosa s'intende quando da giovanotti si andava "
a fare franella", cioè quando andavamo a baciarsi con la fidanzatina, a farsi effusioni... per farla breve... a pomiciare. Insomma la parola "franella" è una storpiatura della parola francese "flaner", cioè "bighellonare", ma bighellonare dove... Anticamente si diceva quando i lor signori andavano in giro per bordelli e per "testare" le signorine di turno si prodigavano in effusioni amorose, scegliendo quella che poi avrebbero preferito. E quando si dice che quei due sono "culo e camicia" che significa? Non significa altro che queste due persone sono in perfetta sintonia fra loro, come al tempo che fu erano il culo e la camicia. Il riferimento risale all'epoca in cui le mutande non erano un granchè usate e nemmanco di moda  e per riparare le parti intime si usavano camicie abbastanza lunghe che restavano a contatto diretto anche con il culo. Vediamo adesso locuzioni prettamente legate a parole dialettali e così dal noto vocabolo garfagnino "uscio" nasce anche questa ennesima espressione: "secco come un uscio", ossia "magro come una porta". Naturalmente, in questa sfera che riguarda la persona e il dialetto "stretto" è impossibile tralasciare uno dei nostri detti principe, ossia "non fare lo sciabigotto" (riferito ad una persona buona a nulla, un incapace). Anche questa espressione trae origini dalla storia "nobile",
purtroppo l'ipotesi 
non è provata nè documentata, ma la tradizione dice che nel corso di una visita di Napoleone a sua sorella in quel di Lucca, il condottiero ebbe l'idea di affacciarsi dalla finestra di Palazzo Ducale per salutare la folla plaudente, non tutti però erano plaudenti e festosi e una parte di questa folla cominciò a rumoreggiare in segno di protesta verso le imprese dell'imperatore francese, al che un po' sconcertato e arrabbiato si rivolse verso sua sorella Elisa e disse: "Cosa vogliono questi chien bigots?"("Cosa vogliono questi cani bigotti?"), da qui le autorità italiane li presenti e che erano intorno a Napoleone presero ad intendere la parola "sciabigotto", intesa però da loro in riferimento a persone "buone a nulla", come quelle che erano in piazza a protestare. Come vedete di "modi dire" ce ne sarebbero moltissimi e stravaganti che verrebbe voglia di scriverli tutti, ma prima di chiudere l'articolo non posso esimermi di tralasciare quelli riguardanti Pisa. Simpatico e bizzarro è quel "modo di dire" che da bimbetto quando mi appisolavano sul divano di casa la mamma mi avrà detto centinaia di volte: "Ecco, arrivano i pisani!" e io mi domandavo sempre - Ma questi pisani che vorranno da me !-. Da me
niente, ma a Lucca, ai tempi delle annose lotte fra le due città si ricordavano spesso quella notte che in un'incursione notturna le armate pisane attaccarono i territori limitrofi di Lucca, quando i lucchesi stavano dormendo; la sortita riuscì proprio perchè gli avversari dei pisani, non riuscirono a tener gli occhi aperti dal sonno: dunque i pisani arrivano quando ci si sta per addormentare. Sempre su Pisa ne esiste un altro di "modi di dire" che dice
"fare come i ladri Pisa" e i ladri di Pisa cosa hanno di diverso dagli altri ladri? La tradizione toscana vuole che i ladri di Pisa andassero a rubare insieme durante la notte e poi di giorno litigassero fra di loro per dividersi il bottino. Oggi tale frase è riferita a coloro che nonostante liti e diverbi continui sono sempre uniti. Mi accingo allora a concludere questo scritto sperando che sia piaciuto a tutti voi e che non sia  "un fiasco", un fallimento insomma, non vorrei fare proprio come quell'attore che narrava di quell'episodio 
 avvenuto in un teatro di Firenze, dove un famoso artista era solito esibirsi con particolari smorfie e facce divertenti nei confronti di alcuni oggetti. Una sera decise di portare sul palco un fiasco da vino. Invece di divertirsi, il pubblico si annoiò e cominciò a fischiarlo rumorosamente. Da allora il "modo di dire" viene utilizzato quando si va del tutto contro le aspettative. Quindi chiudo con una riverenza ai miei lettori che ringrazio e saluto, brindando con "il bicchiere
della staffa
", cioè l'ultimo bicchiere (di vino) della giornata prima di congedarsi da un luogo qualsiasi o ancor più precisamente da un osteria, dove gli avventori del 1800 usavano bere l'ultimo bicchiere quando già avevano un piede nella staffa del cavallo, pronti per salire in sella e tornare a casa... Alla salute allora !!!

Bibliografia 

  • "Dizionario Garfagnino, l'ho sintuto dì" di Aldo Bertozzi, edizioni L.I.R, anno 2017
  • Raccolta di Proverbi Toscani di Giuseppe Giusti e pubblicato da Gino Capponi, Le Monnier Firenze, anno 1871

mercoledì 5 maggio 2021

Gli aiuti umanitari in Garfagnana. Una storia da ricordare

Il 24 giugno 1859, nel corso della 2° Guerra di Indipendenza
italiana, a Solferino si consuma una delle battaglie più sanguinose dei XIX secolo, sulle colline a sud del Lago di Garda. Trecentomila soldati appartenenti a tre eserciti distinti (francese, sardo-piemontese e austriaco) si scontrano, lasciando sul terreno circa
 centomila fra morti, feriti e dispersi. Castiglione delle Stiviere (provincia di Mantova) è il paese più vicino, a sei chilometri da Solferino, dove esisteva già un ospedale e la possibilità di accedere all’acqua, elemento fondamentale nel soccorso improvvisato ai novemila feriti che, nei primi tre giorni, vengono appunto trasportati a Castiglione. Lì si trova anche un cittadino svizzeroJean Henry Dunant, venuto ad incontrare per i suoi affari 
Henry Dunant
Napoleone III. Egli si ritrova coinvolto nella terribile carneficina, aggravato dall'”inesistenza” della sanità militare e li insieme ad altre decine di contadine si prodiga spontaneamente nell'assistenza dei soldati feriti, qualsiasi fosse la loro appartenenza di nazione o di esercito. Dunant organizzò così i primi soccorsi, mentre il parroco di Castiglione delle Stiviere spalancò le porte della chiesa trasformandola in un ambulatorio d'emergenza. Alcuni anni dopo questi fatti Dunant fondò la Croce Rossa Internazionale. Questa  fu il primo atto ufficiale di quello che sarà definito universalmente come "aiuto umanitario". Il concetto di aiuto umanitario fa parte delle tendenze “naturali” dell’uomo: l’assistenza ai propri simili nel momento in cui la loro vita é minacciata é un’espressione dell’istinto di sopravvivenza della specie, e lo spirito di solidarietà rappresenta indubbiamente uno dei fondamenti del vivere sociale. Il "dogma" cardine dell'aiuto umanitario è l'imparzialità, ossia la totale estraneità dell’assistenza umanitaria a prescindere dagli aspetti politici e militari della guerra.
Insomma, l'aiuto umanitario oggi, ai nostri occhi, ci sembra una cosa che mai ci ha riguardato, aiuti e soccorsi hanno interessato ed interessano le nazioni africane, l'Iraq, l'Afghanistan, eppure appena 76 anni fa ci fu una grande mobilitazione per salvare dalla fame e dalle povertà anche la popolazione della Garfagnana. Eravamo alla fine della seconda mondiale, la guerra stava ormai volgendo al termine e già gravi problemi erano all'orizzonte: fame, penuria di abitazioni e disoccupazione. La Garfagnana, come si sa, era sul fronte della Linea Gotica, era da oltre un anno che la sua popolazione subiva bombardamenti e battaglie. Le condizioni di vita della gente erano ormai allo stremo per cui già prima della fine del conflitto, il 10 aprile 1945, per la gente della nostra valle si era già mobilitata la Croce Rossa Italiana. In quel di Lucca furono infatti convocate le autorità al fine di istituire già un "Comitato pro Garfagnana" che nell'immediato fosse pronto ad inviare vestiario, medicinali e cibo, ma non solo, si cercò anche di risollevare lo spirito dei garfagnini e di tutti gli sfollati qui rifugiati, si
Castelnuovo bombardata
 cercò di far pervenire tutte le lettere dei prigionieri di guerra e dei soldati garfagnini. Qualche giorno dopo il presidente del comitato, Frediano Francesconi, fece un appello a tutti i cittadini lucchesi "soprattutto abbienti e ricchi" poichè "il vivo desiderio di ogni lucchese di portare tutto il possibile aiuto ai nostri fratelli della martoriata Garfagnana". Fattostà che si cercò in ogni modo di organizzare al meglio la rete della solidarietà e si fece si che ogni parrocchia garfagnina avesse un comitato a se stante a cui affidare la distribuzione degli aiuti, a capo di questo c'era il parroco, una rappresentante dell'Unione Donne Italiane e un altra incaricata del Centro Italiano Femminile. I primi beni di sussistenza arrivarono subito dopo lo sfondamento del fronte, un auto con diversi generi alimentari fra il 26 e il 27 aprile 1945 arrivò presso l'ospedale di Castelnuovo. La macchina degli aiuti aveva quindi cominciato il suo percorso. E' bene sottolineare che il capoluogo di provincia (Lucca), soprattutto fra la gente qualunque, prese molto a cuore "la questione garfagnina", e per stimolare la solidarietà alla Garfagnana nei negozi della città si esponevano fotografie dei rovinosi
bombardamenti sulla valle. I giornali della città delle mura definirono la Garfagnana "fra le regioni maggiormente devastate dalla guerra" e ogni giorno questi quotidiani pubblicavano fra le loro pagine la lista di enti e privati che numerosi davano il loro contributo al Comitato pro Garfagnana. Alla fine di novembre erano stati già raccolti denari per la considerevole cifra di un milione di lire. Non furono solamente le donazioni della brava gente a risollevare le sorti della valle, anche il Vaticano stesso nel 1946 diede il via all'iniziativa denominata "la pasta del Papa", notevoli quantitativi di questo alimento venivano distribuiti dalle parrocchie locali alle famiglie più bisognose. La Commissione Pontificia d'Assistenza non si limitò solamente ad inviare pacchi di pasta, ma intervenne personalmente con i suoi uomini sul territorio, distribuendo circa 400 pasti al giorno a Castelnuovo e altrettanti nel resto dei comuni garfagnini. Non poteva mancare nemmeno l'intervento di quel partito che guiderà il Paese per decenni. La Democrazia Cristiana istituì la "Giornata Popolare", nell'ambito della quale le varie sezioni della provincia versavano denari ai comuni. Vennero aiuti anche dall'Ente Nazionale Distribuzioni Soccorsi che attraverso i buoni uffici del nuovo sindaco di Castelnuovo Loris Biagioni portò in Garfagnana 600 quintali di farina. Dall'altra parte nemmeno il Partito Comunista
volle essere da meno e così videro la luce i cosiddetti "Ristoranti del Popolo", questa iniziativa aveva lo scopo di fornire buoni pasto ai disoccupati, ai mutilati, invalidi e partigiani. Alla fine del gennaio '46 erano ventuno mila i buoni distribuiti. Per capire bene quanto durarono le difficoltà e l'emergenza per la Garfagnana basta vedere che ancora nel 1947
(erano due anni che era finita la guerra...) la "Mensa del Popolo" (anche quest'ente nata per iniziativa del Partito Comunista) forniva ancora sessanta pasti al giorno e nel 1949 la Croce Verde distribuiva pacchi alimentari a famiglie bisognose. Naturalmente non mancarono nemmeno gli aiuti dai tanti emigrati garfagnini, fece scalpore la donazione di una signora (di origine garfagnine) di San Paolo del Brasile che donò ai bambini garfagnini bisognosi un milione e mezzo di lire. Ad onor di cronaca bisogna dire che non tutto fu all'insegna della trasparenza più assoluta e nel più classico stile italiano non mancarono le polemiche e le proteste circa l'effettiva utilizzazione e destinazione di
queste risorse. Insomma, nonostante ciò gli aiuti per la Garfagnana martoriata non mancarono e la rinascita della valle ricominciò proprio da quella solidarietà e anni dopo qualcuno nel ringraziare per questi aiuti si lanciò in una profetica frase: "Se aiuti gli altri, verrai aiutato. Forse domani, forse tra un centinaio d'anni, ma verrai aiutato. La natura umana deve pagare il suo debito..."   


Bibliografia

  • "La Terra Promessa" di Oscar Guidi, edito Unione dei Comuni della Garfagnana, anno 2017