mercoledì 30 gennaio 2019

Che lavoro facevano gli emigranti garfagnini del 1900?

La regola è primordiale: lavorare per vivere, per vivere (nel senso
più stretto della parola)bisogna mangiare, per comprare da mangiare servono soldi e se vuoi i soldi devi lavorare. Questa è il principio base per cui lavoriamo. Prima c'era il baratto considerato la prima forma storica di scambio di beni: ad esempio il lavoratore arava il campo e in compenso il padrone del terreno dava al contadino generi alimentari con cui sfamare se stesso e la famiglia, poi la storia cambiò e subentrò "il vil denaro": allo stesso modo il contadino arava il campo, il padrone pagava con sonante moneta e il lavoratore con quei soldi poteva comprare il suo cibo dove voleva. Questa sistema basilare vale per ognuno, a patto che il lavoro ci sia per tutti...Questo è il fatto per cui molti garfagnini emigravano verso paesi più ricchi e con maggiori possibilità di lavoro, generalmente è il solito motivo per cui anche oggi molti immigrati raggiungono le coste italiche. D'altronde i dati forniti dal "Rapporto sull'economia dell'immigrazione" a cura della Fondazione Moressa parlano chiaro: gli extracomunitari regolari che lavorano svolgono una mansione di media e bassa qualifica, il 74% dei collaboratori domestici è infatti straniero, così come il 56% delle badanti e il 51% dei venditori ambulanti e ancora il 39,8% dei pescatori, pastori e boscaioli e d'origine immigrata, così come il 30% dei manovali edili e braccianti agricoli. Ad oltre un secolo di distanza è interessante fare un parallelo con gli emigrati garfagnini di un tempo e vedere le differenze sui lavori svolti dagli attuali immigrati in Italia, vedremo poi che in questo senso le difformità non sono poi molte. 
Per gli uomini della Valle del Serchio il mestiere qualificato più
figurinaio
praticato era quello del figurinaio. Siamo intorno al 1870, anno in cui fu svolta un'inchiesta industriale tra i lavori e i commerci degli italiani all'estero e appunto risultava al primo posto l'arte del figurinaio. A Parigi ad esempio ne esistevano una dozzina, con il tempo questi affinarono la loro arte diventando creatori di modelli, altri duecento circa erano operai figurinisti. A New York la cosa cambiava e vedeva la colonia garfagnina fatta prevalentemente da operai, furono circa undicimila che a a scalare diventeranno  agricoltori, muratori, scalpellini, marinai, pescatori, garzoni, cuochi, confettieri, figurinai in gesso, suonatori di organetto e commercianti. Una menzione particolare fra tutti questi lavoratori va ad Attilio Piccirilli, diciamo subito che con la nostra valle non ha niente a che fare, ma la vicenda va sottolineata perchè è poco conosciuta. I Piccirilli venivano da Carrara, dapprima erano impiegati nelle cave delle Apuane come cavatori, ma una volta emigrati in America si dedicarono alla scultura ornamentale. Il loro studio era a New York, nel Bronx, nel 1901 parteciparono ad un concorso con quaranta concorrenti dove si aggiudicarono il primo posto per scolpire la maestosa statua di Lincoln in quello che oggi
La statua di Lincoln
al Lincoln Memorial Washington
è appunto il Lincoln Memorial a Washington. Una volta che fu realizzata l'opera arrivò la delusione più grande, il pregiudizio anti italiano colpì la commissione che aveva delegato i lavori, il nome dei Piccirilli non comparirà mai sul piedistallo della statua, ma verrà apposto solo quello del suo ideatore Chester French. D'altra parte era dura la vita dell'Italiano emigrato, nel 1889 il console italiano Giampaolo Riva di New York diceva: "
Al loro primo por piede sovra questo suolo americano; ignari della lingua e degli usi, privi di appoggio e di direzione, creduli e fidenti in questa terra da loro vagheggiata come la fine di ogni miseria, come la soglia dorata di ogni prosperità, essi cadono in potere di bassi speculatori che li ingannano...". Chi riusciva a scampare al raggiro lo aspettavano comunque i lavori più duri. Dalla Garfagnana molti si adoperarono come sterratori, boscaioli, carbonai, minatori e tantissimi erano i contadini impegnati in lavori faticosissimi è il caso di Enrico Fiori che segui una colonia di abitanti di Piazza al Serchio e Giuncugnano, diretta negli anni '20 del '900 in Australia, nello
Tagliatori di canne
 di zucchero in Australia
stato del Queensland a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Stessa sorte toccò ad Angelo Fenili, lui andò a lavorare alla costruzione delle linee ferroviarie brasiliane nell'impresa dei fratelli Baccili originari di Vagli. Non furono comunque solo operai i garfagnini, molti si dedicarono anche al commercio. Nell'aprile del 1900 "La Domenica del Corriere" dedicò ampio spazio alla comunità italiana emigrata a Londra che risiedeva nel quartiere "italiano" di Saffon Hill, chiamato in modo spregiativo dagli inglesi "l'Abissinia", oltre a descrivere lo stato di degrado del quartiere il giornale diceva che oltre 2500 venditori ambulanti partivano di li ogni mattina per vendere la loro merce in centro città, molti di questi erano per appunto emigrati dalla Valle del Serchio che vendevano le castagne arrosto o i gelati. Da un rapporto della polizia di Coventry al viceconsole italiano si parla di un certo Giannotti di Castiglione Garfagnana, trovato morto d'infarto in giovane età nella sua casa inglese dove abitava da solo, oltre al povero cadavere gli inquirenti rinvennero anche il testamento, dove oltre a "due para" di mutande ed a un orologio in argento lasciava ai suoi cari, residenti nella lontanissima Garfagnana, anche un carretto per la vendita del gelato, uno sbatti uova e un mescolatore...tutto frutto del suo lavoro. Ci sono stati anche coloro che furono più fortunati, da semplici commercianti con il tempo passarono ad essere dei veri e propri industriali. Questo infatti è quello che successe alla ditta alimentare Gonnella. Alessandro Gonnella arrivò a Chicago nel 1886 e li riprese l'attività che aveva abbandonato a Barga, infatti riapri in città un piccolo forno in cui lavorava da solo. L'azienda cominciò a
il "forno" Gonnella a Chicago
svilupparsi quando gli venne la brillante idea di consegnare il pane a domicilio. Agli inizi del '900 gli vennero in aiuto i fratelli della moglie e nel 1915 fu costruita in Erie Street, quella che ancora oggi è la sede principale del gruppo industriale. Attualmente è fra le migliori cento panetterie americane.

Destini e storie che s'intrecciano con il passare dei secoli, oggi sui giornali sembra leggere le solite cose scritte su questo articolo: lavori duri, umili, pesanti, talvolta si sente parlare di migranti raggirati o truffati...insomma le storie purtroppo non cambiano, ma i protagonisti si... 



Bibliografia

  • Rapporto annuale sull'economia e l'immigrazione 2017 Fondazione Leone Moressa
  • "Storie di ieri, storie di oggi, di donne di Uomini. Migranti" Fondazione Paolo Cresci

mercoledì 23 gennaio 2019

1938: "Gli ebrei fuori dalle scuole". Testimonianze sulle leggi razziali in Garfagnana

Pochi lo sanno e forse altrettanto pochi se lo ricorderanno, ma
tutto cominciò ufficialmente nella nostra bella Toscana. Era il 5 settembre del 1938 nella reale tenuta pisana di San Rossore. Qui Vittorio Emanuele III re d'Italia passava insieme alla famiglia reale "il meritato" riposo estivo che andava da inizio giugno ai primi di novembre. Quella era una mattinata qualsiasi e come sempre con estrema naturalezza e indifferenza sua maestà aveva già fatto la sua passeggiata in riva al mare con i pantaloni rimboccati per non bagnarli, dopodichè si apprestò a tornare all'interno della tenuta, ma prima di pranzo lo attendeva una firma che sbrigò così, su due piedi, in quattro e quattro otto come se niente fosse, assecondando di fatto la volontà di Mussolini e di Hitler. La firma sanciva una legge dello Stato che si sviluppava su 7 articoli, la legge era la n°1390 e così titolava: "Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista", solamente i primi tre articoli non lasciavano
Tenuta reale di San Rossore
dove furono firmate le leggi razziali
spazio a qualsiasi dubbio:

Art 1: All'ufficio di insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle scuole non governative, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano state comprese in graduatorie di concorso anteriormente al presente decreto; nè potranno essere ammesse all'assistentato universitario, nè al conseguimento dell'abilitazione alla libera docenza
Art 2: Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica
Art 3: Al datare dal 16 ottobre 1938 tutti gli insegnanti di razza ebraica che appartengono ai ruoli delle scuole di cui al precedente art 1 saranno sospesi dal servizio; sono a tal fine equiparati al personale insegnante i presidi e i direttori delle scuole anzidette, gli aiuti e assistenti universitari, il personale di vigilanza nelle scuole elementari, Analogamente i liberi docenti di razza ebraica saranno sospesi dall'esercizio di libera docenza.
Benito Mussolini e
 re Vittorio Emanuele III

Di fatto da quel giorno diventarono ufficiali le leggi razziali,che cacceranno fuori dalle scuole italiane bambini e insegnanti ebrei, una macchia indelebile nel nostro Paese. Ma quale fu l'effetto di tutto ciò in Garfagnana? Non esistono documentazioni scritte (o almeno io non l'ho trovate)su particolari provvedimenti adottati nella nostra valle, ma in compenso possiamo attingere a fonti orali da cui si può trarre spunti di riflessione interessanti.
Le leggi razziali del 1938 non ebbero conseguenze fattive o significative in Garfagnana per il semplice motivo che ebrei non ve ne erano, la consolidata religione cattolica era presente più che mai in ogni famiglia, quello che è intrigante è vedere come apparirono agli occhi degli scolaretti innocenti di allora le leggi sulla razza. Questa testimonianza è di Adelina classe 1929 di Castelnuovo Garfagnana, al tempo frequentava la terza elementare nel capoluogo garfagnino e ricorda nitidamente tutto questo: 
"Tutta la scuola fu convocata nell'aula magna, se ricordo bene erano
Scuola fascista al saluto romano
i primi giorni, la maestra ci disse che il direttore ci doveva leggere una lettera del re...Come sempre entrammo nell'aula magna, prima di tutto si salutò rispettosamente il direttore e poi al saluto romano rendemmo omaggio al quadro del duce e di Vittorio Emanuele III. Il direttore ci disse che parlava non per se ma per bocca del re, questo frase mi rimase impressa nella testa, perchè fu ripetuta più volte, solo con gli anni capì il significato di questo ripetersi del direttore, probabilmente lui non era d'accordo con queste nuove leggi, ma comunque doveva leggerle visto che il suo ruolo glielo imponeva. Fattostà che cominciò a leggere passo passo tutta la legge, articolo per articolo...e io in questa "lettera" del re non c'avevo capito proprio nulla. Come me molti altri bimbetti, infatti una volta rientrati in classe si chiese spiegazioni alla maestra. Era la prima volta che sentivo parlare di ebrei, non sapevo neanche della loro esistenza o chi fossero, pensai solamente nella mia testa di bambina che la dovevano aver combinata grossa per essere cacciati da tutte le scuole del regno e invece povera gente...
"

Un altra bella testimonianza viene da Piazza al Serchio, lui è Rino, ottant'anni suonati, ma anche qui la mente è vivida: 
"Queste famose leggi sulla razza a noi le lesse il maestro in classe, in "quattro balletti", pochi ci capirono qualcosa, i bimbetti più curiosi chiesero spiegazioni, il maestro le liquidò dicendogli semplicemente di farsele spiegare dal prete, praticamente fece come Ponzio Pilato se ne lavò le mani e i piedi, a me non è che sinceramente me ne fregava più di tanto, io dopo la scuola dovevo pensare al pascolo delle pecore. Però un giorno passò il prete da casa, come al solito per "raccattare" qualche "ovo" e due pomodori freschi dell'orto, la mamma allora mi mandò nel campo a staccare qualche verdura per il prete e quando gli consegnai gli ortaggi mi ritornarono in mente le parole del maestro e allora così a bruciapelo gli domandai - Ma chi sono gli ebrei?- e lui senza batter ciglio così mi disse:-Sono quelli che hanno condannato Gesù alla croce perchè non riconoscevano in lui il figlio di Dio- e poi aggiunse questo passo della Bibbia: - E sarete maledetti voi, e i figli dei vostri figli, e tutta la vostra genia... e quello che succede in questi giorni sono le
conseguenze che pagano!-. Devo dire la verità, così come me la buttò giù questi ebrei mi fecero una gran rabbia e dentro di me pensai che ben gli stava di essere cacciati da scuola, loro erano i colpevoli della morte di quel Gesù che pregavo tutte le sere e poi le parole del prete a quel tempo erano prese come oro colato. Poi per fortuna si cresce e si comincia a capire molte cose ed ecco che allora a quel prete oggi risponderei con un altro passo della Bibbia: "Non c'è nè giudeo nè greco, non c'è nè schiavo nè libero, non c'è nè maschio nè femmina; poiche siete tutti una persona unitamente a Gesù Cristo".
Quest'ultimo ricordo che vado a narrare invece fa riferimento ad un'altra infamia: "Il manifesto della razza". Questo fogli pubblicati su "Il giornale d'Italia" divennero la base ideologica e pseudo scientifica della politica razzista dell'Italia fascista. La pubblicazione uscì il 14 luglio 1938 e anticipò di qualche mese le leggi razziali. Sul quotidiano furono  elencate dieci "regole" in cui ad esempio si affermava che: "esistono grandi razze e piccole razze", oppure, "La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana" e ancora, "E' tempo che gli italiani si proclami francamente razzisti" e poi, "Gli ebrei non appartengono alla razza italiana". 
"Il manifesto della razza"
 luglio 38
"Questi manifesti ed altri ancora erano affissi come da regolamento per le vie del paese -dice Luigi da Barga- a me personalmente non ricordo che a scuola mi abbiano letto le leggi razziali, ma ricordo bene questi manifesti perchè alcuni invece che essere scritti erano illustrati. Ne ricordo uno che diceva: "Non vi possono essere ebrei..." e poi c'era il disegno di una banca con una croce sopra come segno di diniego, oppure anche una scuola, o sennò un comune. Secondo me questi cartelli illustrati avevano maggiore effetto perchè rimanevano impressi anche nella memoria dei bambini proprio come al tempo successe a me. Un altro cartello invece aveva degli omini ritratti e descriveva che gli ebrei non potevano fare il servizio militare o che non potevano avere domestici italiani e altre cose ancora.
Quando uscì il "manifesto della razza" molti dei compaesani e sopratutto i ragazzi più grandi si convinsero veramente di essere una razza superiore, qualcuno dava la caccia perfino all'ebreo che assolutamente non c'era nella nostra zona, però qualcuno incredibilmente cominciava anche a seminare sospetti fra le persone che magari vedeva o conosceva da anni perchè secondo le caratteristiche fisiche imposte dal regime un ebreo doveva avere un naso aquilino, occhi color azzurro scuri e le "borse" sotto gli occhi e quando questi giovani esaltati vedevano qualcuno con simili caratteristiche fiorivano mille illazioni e mille diffidenze. Pensare che tutte queste norme questo era supportate anche da importanti scienziati e professori
italiani mi da ancora i brividi".
Come abbiamo letto da queste testimonianze bastava veramente poco per insinuare nelle persone il dubbio, la paura del "diverso". Bastava una parola di un prete o una firma su una legge per sancire una verità assoluta, e' proprio vero l'ignoranza ha fatto più morti che dei fucili. Oggi niente è cambiato nonostante tutti i mezzi che abbiamo a disposizione per conoscere e sapere, ancora oggi ci fidiamo sempre e del solito "ho sentito dire...".



Fonte:

  • Testimonianze raccolte da me nei quaderni di scuola di Moni Albertina (mia mamma)
Bibliografia
  • "Il Tirreno" 3 settembre 2018 di Fabio Demui "5 settembre 1938: il re firma a San Rossore le leggi razziali, inizia il calvario degli ebrei"

mercoledì 16 gennaio 2019

Fuochi fatui: fra chimica e leggende garfagnine

Quello che sto per raccontarvi potrebbe realmente capitarvi...Se vi
fuochi fatui
dovesse succedere di fare una passeggiatina nei pressi di un cimitero nel buio della notte potrebbe accadere di vedervi all'interno fra una tomba e l'altra improvvise e fugaci fiammelle, mi immagino la paura e la fuga a gambe levate che prendereste...ecco, questo è quello che succedeva ai nostri nonni. Questa è stata una delle più grosse paure della Garfagnana che poco (anzi niente) aveva di esoterico ma tanto di chimico. A dire il vero adesso questo fenomeno conosciuto come fuoco fatuo perlomeno nei cimiteri non accade più, potrebbe succedere ancora nei pressi di fiumi, laghetti o acque stagnanti. Ma tutto questo al tempo non si sapeva, ed ecco allora un fiorire di leggende e credenze garfagnine su una paura questa volta vera e tangibile, qui non si parlava di streghi, buffardelli o esseri magici a cui volendo si poteva credere o non credere perchè esseri creati dall'immaginario popolare, a differenza il fuoco fatuo esisteva veramente, era presente, si poteva vedere, non era un mito, una favola o un sentito dire, c'era (e c'è), eccome!. Il fenomeno si manifesta sopratutto nelle sere estive in luoghi particolari, che

come abbiamo visto possono essere paludi, stagni e cimiteri, difatti la combustione del metano e del fosfano (gas che si liberano da materiale organico in decomposizione) crea queste fiammelle color bluastro che vagano in qua e la, appena al di sopra del suolo portate in giro dal movimento dell'aria. Nel caso dei cimiteri sarebbero ovviamente i corpi in decomposizione a creare questi gas e succedeva sopratutto al tempo dei nostri avi, quando le bare non venivano sigillate e zincate come oggi si fa. Al tempo la cassa chiusa a stagno faceva aumentare la pressione interna alla bara, a tal punto da far uscire i gas da saldature fatte in qualche maniera, questi una volta fuoriusciti raggiungevano l'aria sovrastante che a contatto con l'ossigeno si incendiava dando luogo ai misteriosi fuochi fatui. Per quanto riguarda le acque ferme ciò è dovuto dalla presenza di animali morti. Questa è la spiegazione scientifica, ma una volta la scienza non era di casa in Garfagnana, la gente non studiava e ciò che non si spiegava o era frutto di Dio, del diavolo o dell'ignoto. Le credenze e le leggende sui fuochi fatui sono molte, si pensava infatti che queste fiammelle fossero la prova
dell'esistenza dell'anima e si diceva che più una persona era stata buona in vita, tanto più la sua anima si illuminava dando origine appunto ad una fiamma, da qui anche il nome alternativo e più popolare di "corpi santi". Naturalmente tutti i racconti tradizionali non davano la solita spiegazione e c'era anche chi credeva che fossero si delle anime, ma anime perse che avevano bisogno di preghiere per uscire dal purgatorio, o anche che fossero gli spiriti dei bimbi morti prematuramente(che all'epoca erano moltissimi), deceduti senza aver ricevuto il battessimo. Ma c'era chi, in ciò trovava il male e credeva che fossero spiriti malvagi che sviassero i passanti in luoghi pericolosi, come le paludi o in genere corsi d'acqua. Una Leggenda di Vagli ricalca questa credenza. I fatti si svolgono nel dopoguerra e racconta di un fabbro che non voleva far credito a nessuno. La guerra aveva distrutto oltre che le case anche gli attrezzi da lavoro: zappe, vanghe, martelli, falci. I soldi la povera gente ne aveva pochi e a questo fabbro ciò non importava, o soldi o niente!. Ma arrivò anche per lui il momento della fine dei suoi giorni, quando era sul letto di morte gli comparve San Pietro e gli dette l'ultima opportunità di pentirsi della sua avidità, ma neanche in fin di vita volle redimersi e fu
condannato a vagare sulla terra con in mano un solo carbone ardente della sua fucina. Fedele alla sua cattiveria con questo carbone ardente si raccontava che aveva l'abitudine di attirare gli inconsapevoli viaggiatori conducendoli dal lago del paese nelle selve soprastanti dalle quali era impossibile uscire. Un'altra spiegazione che si da dell'esistenze di questi fuochi e del loro apparire sopratutto nelle acque è una credenza gallicanese, nata all'epoca del passaggio della strada romana Clodia Nova e diceva che alla confluenza della Turrite con il Serchio compariva spesso un fuoco fatuo che non era altro che l'anima delle persone non battezzate, che attirava i viandanti verso l'acqua nella speranza di ricevere il battesimo. Un altra leggenda invece ci porta a Palagnana e ci narra di un ricco proprietario terriero che oltre alla sue di terre voleva anche quelle dei modesti contadini e dei pastori vicini. Un bel giorno sul far del buio mentre si recava da un pover'uomo a riscuotere l'affitto giunse in prossimità di un fiumiciattolo dove vi trovò schierati sopra ad un
Santa Lucia Gallicano
sulla via Clodia Nova
ponticello una moltitudine di fuochi fatui. Lì per lì pensò ad uno scherzo di qualche buontempone, ma all'avvicinarsi si accorse che le fiamme stavano a mezz'aria. La paura lo prese e più camminava e più queste fiammelle lo seguivano, la sua fuga diventò incalzante e precipitosa, il panico era tanto poichè i fuochi erano sempre più vicini. L'uomo si rifugiò nel bosco, ma niente, queste fiammelle erano sempre li, la situazione poi peggiorò quando volle fuggire verso il torrente, infatti le fiammelle aumentarono. Allora decise di riprendere la strada di casa, ma queste entità non lo mollavano, gli turbinavano d'intorno fino a sbarrargli la porta della sua dimora. In qualche maniera l'ingordo uomo riuscì ad entrare in casa, ma fu preso da febbri altissime e ciò lo fece ripensare a tutte le sue cattiverie e alle sue angherie fatte nei confronti della povera gente del suo paese, decise così di chiamare un prete e di confessargli tutto, desiderò inoltre restituire i terreni maltolti, facendo tornare così la pace nelle
Alpi Apuane.

Tutte le credenze come visto ruotano intorno alla paura e alla superstizione. La paura è la principale fonte di superstizione e la superstizione in fondo è la più tangibile delle fedi...



Bibliografia

  • "Dizionario dei simboli dei miti e delle credenze" di Corinne Murel, Giunti editore anno 2016
  • Cicap enciclopedia di Luigi Garlaschelli

mercoledì 9 gennaio 2019

Al cuor non si comanda...Ludovico Ariosto e "il mal di Garfagnana"

"L'amor che move il sole e l'altre stelle", così Dante chiude con
Ludovico Ariosto e Alessandra Benucci
quest'ultimo verso il Paradiso e la Divina Commedia, ma non ci occuperemo del Sommo Poeta, ma di un suo collega che verrà al mondo circa centosettanta anni dopo questo componimento. In effetti questa frase calza proprio a pennello all'illustrissimo Ludovico Ariosto, governatore della Garfagnana dal 1522 al 1525...e bando ai convenevoli, penso che lo possiamo dire chiaramente, lui in Garfagnana ci stava proprio male: "Ognuno dica quel che vuole, e pensi quello che gli pare: insomma ti confesso che qui ho perduto l'allegria, il divertimento e la felicità..." e (aggiungo io)l'amore, ma lui questo non lo poteva dire (e vedremo perchè).

Per il vero amore, quello con la A maiuscola si farebbe ogni cosa, quante cose strampalate abbiamo fatto per amore, quante volte il
nostro cuore batteva allo spasimo per amori lontani...e questo era proprio il caso di messer Ariosto e del suo mal di Garfagnana. Partiamo dall'inizio e analizziamo allora perchè decise di venire in Garfagnana e lasciare il cuore oltre Appennino a battere per una gentil donzella e vediamo allora che nella vita non è solo l'amore che fa muovere il sole e le stelle ma anche... il "vil denaro", è si proprio così, Ludovico Ariosto aveva bisogno di palanche. L'anno prima del suo arrivo nella valle a suo detto fatta da "gente inculta, simile al luogo ove ella è nata e avvezza" aveva pubblicato la seconda edizione de "L'Orlando Furioso" esponendosi finanziariamente e aveva bisogno di uno stipendio sicuro che gli poteva offrire solo la corte estense. Così il 20 febbraio 1522 con solo nove soldati al seguito partì per Castelnuovo Garfagnana. Alfonso I d'Este duca di Ferrara e uomo d'arme lo avvertì, la Garfagnana non era la corte estense fatta di salamelecchi e riverenze e li non c'era tempo "...di scrivere quelle vostre coglionerie", lo sapeva anche lui d'altronde, che così disse: "Mi fecero da poeta a uomo di governo". La situazione infatti non era proprio delle migliori per un'inesperto; da un punto di
Alfonso I d'Este
vista politico il quadro globale era esplosivo, Lucca stava vivendo la paura per l'espansionismo di Firenze, altri Stati ancora vedevano di cattivo occhio il problema del papato e della donazione della Garfagnana agli Estensi, da un punto di vista sociale poi non se ne parlava: liti, furti, omicidi erano all'ordine del giorno, il comportamento dei preti che avrebbero potuto mitigare il problema era invece tra i più riprovevoli, tanto da macchiarsi anche loro di crimini e fornire poi protezione ai banditi, inoltre se ci vogliamo mettere anche l'aspetto morfologico: strade dissestate, impervie montagne e neve in quantità...Insomma aveva proprio ragione il duca, comporre versi per l'Ariosto era l'ultimo dei problemi e il suo buon stipendio se lo doveva proprio guadagnare. Possiamo immaginare allora lo stato d'animo del Signor Governatore, i sentimenti sicuramente che prevalevano nel suo animo erano solitudine, angoscia, paura e prendeva sempre più coscienza di ciò che aveva lasciato a Ferrara, sentiva la mancanza di Alessandra, gentildonna da lui amata in gran segreto.

"Questa è una fossa, ove abito, profonda, donde non muovo piè senza salire, del silvoso appenin la fiera sponda. O stiami in Rocca o voglio all'aria uscire, accuse e liti sempre e gridi ascolto, furti, omicidii, odi, vendette et ire". Tant'è che in tre anni di sua permanenza furono solo sei  le uscite che il poeta fece fuori dalla
La Rocca ariostesca a Castelnuovo,
casa dell'Ariosto negli anni del governatorato
Rocca (oggi a lui dedicata)e poi saremmo stati anche gente rissosa, ma l'Ariosto la mette giù dura, più di quanto in effetti fosse, ma come detto il problema era un altro: "chercez la femme". E che femmina!!! Lei si chiamava appunto Alessandra di nome e Benucci di cognome. Benucci era infatti il cognome da signorina (ed ecco qui l'inghippo...), da signora invece faceva Strozzi, moglie del mercante fiorentino Tito Strozzi che frequentava la corte estense per affari...e così siamo alla solita storia...I due innamorati clandestini si conobbero in quel di Firenze il 24 giugno del 1513, nel giorno dedicato a San Giovanni Battista e si conobbero niente di meno che nella casa del Vespucci e subito, se non fu amore a prima vista poco ci mancò: "Dico che l giorno che di voi m'accesi, non fu che l primo viso pien di dolcezza e li real costumi vostri mirassi affabili e cortesi", del resto lo Strozzi era sempre via per lavoro... Fortuna (per l'Ariosto) volle
Alessandra Benucci
che due anni dopo il primo incontro, nel 1515, messer Strozzi se ne andò all'altro mondo. Strada spianata allora direte voi, niente di più falso. Ludovico Ariosto da un punto di vista sentimentale si ammantò sempre d'ambiguità e stretto riserbo, aveva tenuto sempre nascosto i suoi amori e n'aveva ben donde dato che ebbe due figli da donne diverse ma dal mestiere uguale: governanti presso casa Ariosto, rimane il fatto di un piccolo particolare, un bimbetto fu riconosciuto l'altro no. E lo stesso riserbo fu riservato per Alessandra, anche se ad onor del vero stavolta pareva amore vero. Per farla breve il mal di Garfagnana come abbiamo visto aveva un nome, un cognome e sopratutto una sottana. Non sarebbe però neanche giusto ridurre tutto ad una sottana è anche equo e doveroso aggiungere due o tre "cosette"che influirono pesantemente sulla sua insofferenza. Si può notare anche nelle 156 lettere inviate a tutte le Signorie toscane e non, dove si lamenta che ai pochi soldati che ha a disposizione la paga mensile era a discapito personale e che nonostante i forti valori di onore, giustizia ed equità a cui lui credeva, quello che ci credeva un po' meno era proprio Alfonso d'Este duca di Ferrara e mentre da una parte l'Ariosto svolgeva una dura repressione contro i briganti, dall'altra il duca si dimostrava accomodante se non addirittura compiacente, al che, preso dallo sconforto più totale gli scappò detto:" Io non sono omo da governare gli altri omini". Alla fine dei conti però "il buon" duca si prese il cuore in mano e decise finalmente di toglierlo dall'inferno garfagnino offrendogli un ruolo di tutto prestigio: ambasciatore a Roma! Cavolo, evviva avrà detto lui! Macchè... e parafrasando Garibaldi...o Ferrara o morte...dalla bella Alessandra che "tien del mio cor solo la briglia". Rinunciava
Briganti Garfagnini
così a qualsiasi carica governativa tornando a fare quello che più gli piaceva: il poeta, attività quasi del tutto abbandonata negli anni garfagnini per "aver sempre villani alle orecchie". Così nella primavera del 1525 prese armi e bagagli e tornò dalla sua amata. Storia finita allora, ma certo che no! Ci fu invece la coronazione di tanti patimenti:le giuste nozze con Alessandra Benucci nell'imprecisata data del 1528, imprecisata perchè  gli sposini non contenti di aver avuto dapprima una relazione segreta, adesso avevano avuto la brillante idea di fare un matrimonio segreto. Segreto, perchè ciò evitava che la nobildonna potesse perdere la tutela e sopratutto il patrimonio dei (cinque) figli avuti dal matrimonio con lo Strozzi, morto (quel "disgraziato") senza aver fatto testamento. Dall'altro canto a Ludovico Ariosto non pareva vero, dato che anche a lui il finto celibato gli consentiva di non perdere i benefici ecclesiastici acquisiti a suo tempo. Quindi i due continuarono a vivere separati (e allora tutta 'sta voglia di fuggire dalla Garfagnana?), anche se il poeta a casa della
La casa della Benucci a Ferrara
 quando era già signora Ariosto
moglie andava spesso...li teneva denari, preziosi e copie dell'Orlando Furioso. Finalmente poi, Dio volle, nel 1533 dopo cinque anni di matrimonio lo sposalizio fu reso pubblico...peccato che l'Ariosto era morto...pertanto la gentildonna Alessandra Benucci così facendo ereditò denari e mobili del vate. Al figlio di lui, Virginio, andarono duecento scudi e le...copie del poema.



Bibliografia


  • "Ariosto l'amore nascosto" Corriere Fiorentino 3 maggio 2016 di Chiara Dino
  • "Lettere di Ludovico Ariosto con prefazione storico-critica, documenti e note" per cura di Antonio Cappelli editore Hoepli 1887
  • "E tien del mio cor solo la briglia. l'amore clandestino dell'Ariosto" di Pierluigi Panza, Corriere della Sera, 1 luglio 2018

mercoledì 2 gennaio 2019

Quando i garfagnini andavano nelle case chiuse...

Ci sono mille modi per definirlo, nomi talvolta ricercati come
postribolo o lupanare, altre parole un po' più eleganti e distinte come casa di tolleranza, casa chiusa o casa di piacere, altre ancora invece non lasciano spazio a dubbi: casino, bordello o peggio ancora puttanaio...Rimane il fatto che questo luogo ha segnato la vita di molti italiani, vocabolo inteso proprio nel genere maschile del termine, era infatti un rito iniziatico quasi inevitabile per buona parte di quei giovani che raggiungevano la maggiore età, o sennò per molti altri uomini era una semplice abitudine come quella di prendere un caffè al bar, d'altronde i numeri parlano chiaro, negli anni del ventennio fascista,l'epoca proprio che andremo ad analizzare, coloro che frequentavano le case chiuse erano circa 10 milioni su una popolazione di 40 milioni di italiani, leviamoci da questa cifra donne e bambini e possiamo immaginare la proporzione del fenomeno. Fra questi naturalmente c'erano molti garfagnini che di buona lena prendevano il treno dai nostri sperduti paeselli e frequentavano le case chiuse di Lucca, dal momento che in Garfagnana non ne esistevano. Dalle nostre parti tale "emancipazione" non arrivò mai perchè da sempre attaccati a valori culturali contadini  e fortemente cattolici che non permettevano una Sodomma e Gomorra
simile. I valori di casa, chiesa, lavoro e famiglia erano ben radicati, naturalmente sotto sotto la storia era un'altra, non mancavano neanche al tempo amanti varie e scandali sotto le lenzuola e non mancavano nemmeno donnine di paese di facili costumi, ma quello che non si vedeva, non esisteva...l'importante era l'apparenza e bando alla morale sessuale anche dalla Garfagnana come detto si partiva in comitiva, proprio come si fa in una gita, in quel di Lucca verso quelle case chiuse che faranno epoca dall'unità d'Italia, quando il governo Cavour nel 1861 sancì la loro legale esistenza con il "Regolamento del servizio di sorveglianza della prostituzione" con tanto di ottenimento obbligatorio di "patente" (art.24,26 e 27) per esercitare la professione, fino al fatidico 1958 quando la senatrice Merlin le case chiuse, le chiuse per davvero...Ovviamente quale poteva essere il momento storico in cui i bordelli ebbero il loro apice? Logicamente il ventennio fascista. All'epoca non ci poteva permettere di battere la fiacca,
la parola d'ordine era virilità e allora osserviamo attraverso testimonianze e racconti di (anonimi e anziani) garfagnini come erano le case di piacere. Tutto era regolamentato da severe leggi, per aprire un esercizio bisognava dotarsi di regolare licenza, inoltre bisognava pagare le tasse e istituti medici per i controlli sulla salute delle prostitute, per di più era severamente vietato all'interno vendere cibo e bevande, fare feste, balli e canti. Non si potevano aprire case di tolleranza nelle vicinanze di chiese, scuole e ospedali, oltre a ciò le persiane dovevano sempre rimanere chiuse, da qui il nome "case chiuse".
 -Non si poteva fare diverso- dice il nostro testimone- ci dovevano essere per forza delle regole precise talmente era tanta l'affluenza nei casini, era una questione di ordine pubblico, c'è poco da fare, anche perchè questi luoghi non erano frequentati solo dal popolo ma da ogni sorta di persona: gerarchi, ufficiali dell'esercito, mariti
, bimbetti alle prime esperienze e da una categoria di persone che noi chiamavamo "i flanellisti" cioè quei tipi che bighellonavano per lustrarsi gli occhi senza nemmeno spendere un soldo, a quel punto interveniva la maitresse: "Su, su...o commercio o liberare la sala"-. 
Le prostitute iscritte al partito fascista avevano maggiore facilità di lavorare, ma dal 1938 diventò obbligatoria l'iscrizione per fare qualsiasi attività...anche quella, per esercitare bisognava fare gli esami "e aver superato l'abilitazione al regolare meretricio", dopo aver passato le prove c'era un severissimo tirocinio in un locale di meretricio di Stato...in cui si cimentavano gli aspiranti al ruolo. Ma se il corpo della povera donna era perso bisognava però salvare l'anima; ogni venerdì il prete faceva visita al casino per fare confessione e dare la comunione alle donnine e chi si sottraeva "all'obbligo di brava cristiana" il suo comportamento veniva segnalato alla maitresse per atteggiamento "non retto". 

- Erano altri tempi a raccontare queste cose adesso non ci si crede- riprende il nostro testimone garfagnino- per noi era la normalità  frequentare i casini, come andare al cinema o al bar. Con gli amici si prendeva il treno in Mologno tutti insieme, naturalmente alla mamma non si diceva dove si andava, l'importante era andare alla messa delle 11...il babbo penso che si immaginasse lo scopo delle nostre gite domenicali, comunque una volta arrivati a Lucca si prendeva il carrozzino che ci portava nella "cittadella dei casini". Per noi giovanotti il nostro mondo era in quel pezzetto di città fra via del Mulinetto, Corso Garibaldi e via della Dogana, da poco ci
sono passato da quelle parti li, adesso i casini si sono trasformati
in alberghi. Nel periodo delle feste come questo ci facevamo un regalo, quando al lavoro ci davano la gratifica natalizia ci potevamo permettere per solo una volta l'anno "Il Primavera" un casino a tre stelle, che era proprio in Via della Dogana-. 
In effetti vigeva lo stesso sistema che oggi esiste per gli hotel, più stelle aveva una casa chiusa e più alto era il suo livello, si andava dalle pregiatissime quattro stelle al servizio "low cost", più diminuivano le stelle più aumentava "la stazza" delle signorine. Tutto però era organizzato alla perfezione, era una macchina ben collaudata:
- Praticamente funzionava così: una volta scelta la ragazza pagavi anticipatamente la prestazione alla tenutaria che in cambio ti dava
"la marchetta"
"una marchetta". A fine serata il numero di marchette in possesso alla prostituta definiva il suo compenso-.
 

Di solito questi luoghi erano strutturati tutti alla solita maniera, appena entravi trovavi lo studio della "direttrice" e il locale di polizia, messa li dal partito per mantenere l'ordine pubblico e per verificare l'età dei clienti, che per legge dovevano essere maggiorenni, al solito piano o a quello inferiore si trovava  la cucina,la lavanderia e la sala da pranzo, ai piani superiori c'era la sala d'aspetto, li venivi accolto dalle ragazze vestite con veli o abiti scollati che mostravano il seno, appena ti vedevano ti si sedavano accanto e cominciavano a toccarti nei "punti strategici". Nei bordelli con più stelle c'erano anche salottini privati con ingresso riservato che accoglievano persone che non desideravano esser viste, le camere poi potevano essere più o meno eleganti ma tutte avevano affisse le regole di prevenzione sanitaria, si potevano trovare anche cartoline osè per stimolare la fantasia dei
cartoline osè
in uso nei casini
clienti, l'arredo era comunque spartano, composto naturalmente da un letto, un lavandino, un bidet e in un armadietto si custodivano profilattici e creme varie per gli usi più disparati. Il regime impose regole dure per quanto riguardava la sanità, tutte le signorine due volte a settimana venivano sottoposte a visite mediche e possedevano un kit per verificare la presenza di malattie veneree.

- Mi ricordo sempre- continua Mario (nome di fantasia)- che il personaggio più particolare era la tenutaria, era una "macchina da guerra", il suo era un vero e proprio commercio e faceva montagne di soldi, spesso come secondo lavoro facevano "le strozzine", prestavano soldi contanti a interessi elevatissimi. Io me ne ricordo una, urlava sempre: "In camera, in camera, siete tutti finocchi?"-. 
A quanto si dice il duce non vide mai di buon occhio le cosiddette case di tolleranza, erano una contraddizione che andava contro le politiche di crescita demografica a cui aspirava il governo, ma non se la senti di privare il popolo maschile di uno dei suoi passatempi preferiti, però fece si che non fossero più concesse licenze per l'apertura di nuovi esercizi, tuttavia il regime impose a queste povere donne la reclusione, per meglio capirsi non potevano lasciare le strutture perchè considerate "donne che attentavano alla debolezza dell'uomo italiano", rischiavano sonore manganellate se fossero uscite dalla "casa" senza una valida giustificazione, di solito quando uscivano andavano a prestare "servizio" a domicilio ad invalidi di guerra o
ai disabili. La condizione di queste donne era di una prostrazione assoluta, molte di loro costrette dalla vita "al mestiere", abbandonate dai mariti o afflitte dalla povertà, molte risultavano vedove anche se vedove non lo erano. Il partito facendo "un favore" alle prostitute aveva fatto si che la persona non più reperibile, il marito, venisse dichiarata morta dopo cinque anni, di modo che le mogli potessero esercitare la loro professione dal momento che le donne sposate non potevano praticare la prostituzione. Eventuali figli venivano affidati agli orfanotrofi e una parte della retta veniva pagata dal comune. In pratica un vero e proprio mercimonio, una tratta di esseri umani, a confermarlo è sempre Mario, quello che per i ragazzi del tempo era una vera e propria festa è la conferma del traffico legale che subivano queste donne:
- Ogni quindici giorni le puttane cambiavano, ne venivano di nuove in città, allora si che quel giorno era una festa, le corriere e i treni che partivano dalla Garfagnana erano pieni. Uomini di tutte le età salivano su ogni mezzo, dal vecchietto, al signore distinto che faceva finta di niente, c'era anche chi partiva in camicia nera e
fez, per non parlare di compagnie di chiassosi ragazzi (come eravamo noi). Insomma, una volta arrivati a Lucca il rituale era sempre il solito, quando scendevamo dal treno si andava in Piazza Grande e li aspettavamo le ragazze nuove. Le maitresse infatti noleggiavano sempre una carrozza dove facevano salire tutte le prostitute appena arrivate e gli facevano fare il giro completo della città per mostrare le loro bellezze. Ricordo gli applausi scroscianti dei maschi al passare di queste sfilate e le facce stizzite delle signore di Lucca. Il fine corsa era in Via della Dogana, assalita da frotte di uomini che volevano andare con la novità del momento-.
Il fascismo cadde, la monarchia fu abolita e la Repubblica si instaurò. Anche con la nuova forma di governo la prostituzione rimase legale fino a quando la socialista Lina Merlin (prima
La senatrice Lina Merlin
senatrice italiana)con la legge n°75 del 20 febbraio 1958 dette il "de profundis" alle case di tolleranza, introducendo anche i reati di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione. C
hiusero così per sempre i battenti oltre settecento casini, lasciando senza "lavoro" oltre tremila signorine. Per difendere la sua legge (che fu molto osteggiata) la Merlin ebbe a dire:" Non chiamatele prostitute; sono donne che amano male, perchè furono male amate". 


Fonte:

  • Testimonianze dirette, da me raccolte

    • Bibliografia:
      • "Le case chiuse durante il fascismo" Focus storia dicembre 2018
      • "La legge e l'alcova. La prostituzione nella legislazione italiana fra l'800 e il 900"