mercoledì 26 agosto 2015

Prima del calcio in Garfagnana, uno sport tutto nostro: "il gioco della palla di lana". Era il 1800.

"Il calcio oppio dei popoli", così almeno si dice di quanto questo sport sia tanto coinvolgente che riesce perfino a distrarre la gente comune dai problemi reali. Il calcio quindi anche in Garfagnana(come del resto in tutta Italia) è lo sport nazionale:fiorentini,juventini,milanisti, interisti e così via, tutte le domeniche (e non solo) i loro tifosi litigano, discutono, si arrabbiano sulle sorti della propria squadra del cuore.Ma prima di tutto questo, cosa c'era sportivamente parlando in Garfagnana di talmente avvincente e intrigante da paragonarsi al gioco del pallone? Il calcio fa la sua comparsa in Italia alla fine del 1800 e da quel momento in poi tutti i giochi tradizionalmente locali si vanno a far benedire, tutti giochi che fino a quell'attimo, diciamolo pure, in quanto a passione ed entusiasmo non erano meno che del calcio. Possiamo ricordare fra tutti il gioco della palla elastica a Barga, che si svolgeva sul Piazzale del Fosso, di cui oggi sono state fatte delle belle rievocazioni, ma però vorrei volgere la mia attenzione su un'altro gioco meno conosciuto del gioco di Barga, un gioco puramente garfagnino che si svolgeva a Castelnuovo e in altri paesi garfagnini, a patto che ci fosse uno spazio per lo svolgersi della gara.Il gioco in questione si chiamava "il gioco della palla di lana". Questo sport in piena regola si svolse figuriamoci un po' per tutto il 1800, aveva regole prettamente locali e abbiamo ancora memoria di questo gioco grazie a degli atti riportati e conservati nell'archivio di Castelnuovo Garfagnana.Le regole a dire il vero, da quello che si evince non sono chiarissime, (sopratutto perchè non esisteva un regolamento scritto) ma proviamo a fare un po' di luce. Si trattava di una sorta di gioco della palla con il tamburello:la palla, un gomitolo di lana strettamente avvolto per consentire il minor rimbalzo possibile, veniva lanciata grazie a un tamburello e in pratica si doveva segnare il punto in una specie di porta (n.d.r:naturalmente le porte erano molto più piccole di quelle che si usano oggi nel calcio).Questi tamburelli o "cembali" che dir si voglia,i vari atleti le facevano costruire (o li costruivano loro stessi)con materiali differenti a seconda sia della condizione sociale che dall'estro personale. Si andava dai tamburelli realizzati con pelle di bue conciata e tesa su un cerchio di legno per quei giocatori che avevano soldi per farli realizzare, per poi mano mano scendere di qualità e di prezzo per le persone un po' più poverelle, fino poi ad arrivare ad una tavoletta di legno raccolta per strada o addirittura, per quelli che non avevano l'ombra di una lira si dovevano accontentare di usare le mani al posto del tamburello stesso, anche se i regolamenti che tacitamente disciplinavano il gioco lo proibivano nella maniera più assoluta. Per capirsi era un po' come adesso per chi gioca a calcio, si va dalle scarpette da gioco più costose della Nike o dell'Adidas, tutte colorate e 
il tipico tamburello che si usava
per questo sport
fluorescenti, fino ad arrivare alla "misera" e classica scarpetta nera da "due soldi". L'entusiasmo dei garfagnini per questo gioco però era talmente tanto che l'importante era giocare, con tamburello o mani era lo stesso,questo sport veniva praticato a tutte le ore del giorno, senza distinzione di sesso o di età, è ampiamente testimoniato dalle notifiche che il Comune emetteva per vietarlo. Infatti succedeva proprio come quando eravamo bimbetti e giocavamo a pallone in piazza e il rompiscatole di turno si lamentava per gli schiamazzi, così accadeva in questi casi che qualche cittadino si lamentasse perchè pesantemente disturbato dalla confusione cui i partecipanti si abbandonavano, per non parlare poi dei danni subiti quando il palloncino veniva lanciato con forza contro vetrine e finestre delle vicine abitazioni. Le autorità locali arrivarono perfino a proibire il gioco per le frequenti lamentele, fu così deciso di vietare qualsiasi partita, sia amichevole che agonistica che si svolgessero sia all'interno che nella periferia di Castelnuovo, a conferma di questo c'è un decreto datato 14 giugno 1797 dove i municipalisti Azzi e Vittoni
"a nome della Repubblica Cisalpina non consentono di praticare il gioco del palloncino di lana in nessuna delle vie della Città, ma sopratutto nella contrada dell'Aiottola, al Forno, in Piazza e nella Barchetta". Ma come spesso succede in questi casi, da prima le persone si uniformarono a queste amare decisioni, non senza aver prima dimostrato con vari tipi di proteste (alcune clamorose) il loro disappunto, ma poi trascorso un po' di tempo le sorveglianze cominciavano ad allentarsi sopratutto da parte dei Reali Dragoni e di conseguenza la situazione ritornava quella precedente al regolamento imposto. In molti casi però fioccavano multe salatissime che raggiungevano certe volte la considerevole cifra di tre lire, raddoppiata poi per i recidivi ed eventualmente commutabile in tre giorni di prigione dura, altra cosa in confronto a quando si giocava da ragazzetti e la palla andava nell'orto del contadino, che puntualmente ce la sequestrava. Ma questo sport era talmente viscerale per i garfagnini che le proteste dei giocatori e dei tifosi che affollavano le partite non si fecero attendere.Ormai era una lotta senza confine fra i passionisti di questa disciplina e il comune. I tifosi giustificarono il loro comportamento ricordando ormai come il palloncino di lana rappresentasse una tradizione consolidata, un vero e proprio fenomeno di costume e come tale doveva essere legalizzato e non solo ma dotato anche di appositi spazi dove poterlo praticare senza suscitare l'ira di nessuno.
Finalmente per  risolvere ogni controversia nel 1827 tale Governatore Torello emanò una sorta di regolamento:
"E' proibito ovunque il gioco del pallone, rimane permesso quello nella Contrada dell' Aiottola, osservare però le discipline e condizioni aggiunte:
  • Il gioco della palla può tenersi nella contrada dell'Aiottola, tutti i dì dal mezzogiorno in avanti, eccettuato i tempi dei Divini Uffizi (n.d.r: la messa che si svolgeva nel vicino duomo)
  • Il gioco stesso si permette a chi userà soltanto il così detto tamburino o cimbalo
  • Non potrà stare in gioco più di una partita alla volta
  • A risanar i danni che possono venire causati da detto gioco saranno solidali tutti i componenti della partita
  • I contravventori oltre alla rifusione dei danni  come sopra,incorreranno anche nella multa di Lire 3 italiane                                                                                                                     è poi da lagnarsi che i giovani, i quali vorranno profittare della permessa concessione, si faranno dovere di procurare la quiete,contenendosi in modo da suscitare questioni a scanso ancora di quelle misure di forza che in caso diverso si prenderebbero contro di loro"      
La piazza dell'Aiottola fine 800 oggi Olinto Dini
dove si svolgeva il gioco della palla di lana
(Foto collezione Silvio Fioravanti)

Così  si ebbe un regolamento, che in seguito venne disatteso da ben più gravi infrazioni come scazzottate e risse violentissime e di conseguenza il gioco venne nuovamente vietato anche in quella parte di paese.
Con il tempo e la nascita del Football proveniente dall'Inghilterra, il grande attaccamento per i garfagnini a questo sport cadde nel dimenticatoio, oramai i nuovi eroi indossavano delle corte braghe e invece dei tamburelli usavano i piedi,una vera e propria rivoluzione nelle abitudini sportive dei garfagnini. Il calcio prese così definitivamente il sopravvento, dapprima se ne interessarono le classi sociali più ricche, che cominciarono a leggere di questo nuovo sport sui giornali, ma poi prese campo in tutte le persone ricche e povere, perchè per giocarlo bastava semplicemente una palla. Questo così fu il motivo di questo progressivo allontanamento da quello che era considerato "il gioco simbolo di questa Città". Oggi non rimane quasi niente nella memoria di questo passatempo se non documenti d'archivio che registrano quasi esclusivamente proteste e relativi provvedimenti delle autorità,tralasciando come è normale qualsiasi implicazione sociale o di costume.Chissà, sarebbe bello un giorno riproporlo...


L'articolo trae notizie da uno studio della Signora Lorenza Rossi in collaborazione con la Banca dell'Identità e della Memoria

mercoledì 19 agosto 2015

Il Moro del Sillico:le gesta di uno dei più spietati briganti che la Garfagnana ricordi

Il Sillico
In estate di feste e sagre in Garfagnana ce ne sono molte, tutte feste coinvolgenti, simpatiche e originali, dove si mangia bene e in ottima compagnia. Ma c'è una festa fra tutte che riporta ad antiche lotte cinquecentesche fra il governatore della Garfagnana Ludovico Ariosto e i briganti locali, questa festa si svolge al Sillico ed è dedicata al leggendario bandito detto "Il Moro" diventato famoso in epoca recente proprio grazie a questa tradizionale festa estiva. Molti persone infatti nell'approssimarsi di questo percorso enogastronomico ambientato nel 1500 mi chiedono lumi su questi briganti locali e infatti per soddisfare queste richieste mi sono dato da fare per cercare proprio notizie sul Moro del Sillico. Questi briganti spesso rimangono avvolti da un alone di leggenda e le loro gesta e malefatte hanno dato origine a storie e racconti rimasti a lungo nella memoria della gente.
Molte notizie su questo brigante che andrò a narrare sono tratte dalle lettere che (anche) l'Ariosto stesso inviava al duca di Modena, oltre che ad amici e conoscenti.
Il Moro del Sillico è indubbiamente il sillichino più famoso di tutti i tempi, sebbene la sua fama sia frutto di attività non sempre lecite...anzi, fu infatti uno dei banditi più temuti della zona e la sua origine sillichina gli valse la libertà più volte. Giuliano così si chiamava "il Moro" faceva parte come ben si sa della banda del Sillico, che da come si legge era così composta:

" I figli del Peregrin del Sillico, in primo luogo il Moro, poi Giugliano (che abita Ceserana in casa della moglie, che è sorella della moglie del Moro), Baldone".


La cosa perlopiù si svolgeva in famiglia.Il Peregrin era il babbo del Moro, mentre Baldone e Giugliano erano i due fratelli. Il Moro e il Giugliano avevano sposato due sorelle di Cigerana (Ceserana) ed essi soggiornavano spesso in quel luogo. Pare che entrambi ci vivessero quasi abitualmente, ma essi erano banditi ed era espressamente vietato per le comunità ospitare un bandito. Così l'Ariosto, quando accadde che il Moro e i suoi fratelli in combutta con altri manigoldi del luogo "assassinarono un prete pisano" proprio in quei luoghi, dovette infliggere al Comune di Cigerana una multa di 300 ducati. Ma se ne angustiava, perchè era consapevole che quel comune era vittima di quei ribaldi e non era certo in grado di arrestarli o di cacciarli perchè costoro " ...con li banditi loro seguaci, si son fatti tiranni e signori di quel luogo". D'altra
La casa natale del Moro del Sillico
parte, bene o male bisognava risarcire il prete assassinato per "l'onore di vostra eccellenzia", per cui non potendo catturare i colpevoli, si era penalizzato il povero comune di ben 300 ducati per aver tollerato la presenza del Moro, più altri 100 di risarcimento per il prete pisano

Per l'Ariosto quindi fu molto difficile dare del filo da torcere al Moro proprio perchè la banda godeva protezione dal duca in persona Alfonso I d'Este, tutto ciò perchè il Sillico e i suoi abitanti godevano di particolari attenzioni presso il duca in quanto prima comunità della Garfagnana a chiedere di passare nel ducato e sopratutto perchè oltre ad essere dei malfattori il Moro e compagnia bella erano mercenari al soldo di sua eccellenza Alfonso I, e più di una volta senza problemi non esitarono a difendere le effigia ducali, come nel caso nella campagna che consentì alla morte di Papa di Adriano VI (n.d.r: 19 settemmbre 1523) di riappropriarsi della città di Reggio Emilia o perchè no, non ricordare quando i briganti difesero la Fortezza della Verrucole dagli attacchi delle truppe di Papa Leone X (n.d.r:1520) quando volle togliere la provincia della Garfagnana agli Estensi. Figurarsi il povero Ludovico Ariosto in questi casi come era felice, più questi delinquenti erano lontani dalla Garfagnana impegnati nelle battaglie e meno problemi creavano in giro per la valle e alla povera gente nella speranza poi che il duca li tenesse il più a lungo possibile al di fuori dei confini nostrali, addirittura in una lettera del 20 novembre 1523 in cui si fa riferimento proprio al Moro e ai suoi fratelli, l'Ariosto in persona invita lo stesso duca ad assoldarli nel suo esercito e si scusa poi con lo stesso duca per il ritardo con cui l'ultima volta si sono presentati al cospetto di sua altezza, ma purtroppo (come si legge fra il serio e il faceto) sono poveri e non avevano i soldi per il viaggio e solo dopo aver raccolto le castagne sono stati in grado di farlo, "comunque stia tranquillo che avrà buon servizio, perchè credo che sieno valenti e fidelissimi a chi servono".
Alla fine della storia, che che se ne dica, L'Ariosto riuscì a catturare il Moro e nonostante che si pensi il contrario, il povero Ludovico non fece la fine di Willy il coyote che non riesce mai a catturare Beep-Beep, infatti nel 1523 il Moro è in carcere in attesa dell'estremo giudizio che non può essere altro che la pena di morte in pubblica piazza, ma già corre voce che gli amici del Moro abbiano chiesto la grazia al duca, ma lo stesso duca di fronte alle evidenze e come si suol dire "per non farla troppo sporca" difficilmente concederà la grazia, ma in qualche maniera la pelle al Moro bisognava salvarla, così notte tempo il figlio di Bastian Coiaio (n.d.r: signorotto, capofazione di Trassilico nonchè protettore politico della banda del Sillico) senza colpo ferire entra in
Briganti in azione
carcere con la scusa di visitare l'amico Moro, lasciandogli però un coltello con il quale indisturbato potè scassinare l'uscio della cella e fuggire, in barba alle "distratte" guardie. Ludovico Ariosto appresa la notizia va su tutte le furie e in una lettera al duca del 29 agosto 1523 lo informa fra l'altro del contegno sprezzante di Bastian Coiaio il quale "con la sua solita insolentia ha detto parole assai altiere"
, dicendo che lui è perfettamente informato di ciò che l'Ariosto scrive al duca, cercando di intimorirlo affinchè la smetta di scrivere cose negative sul Moro e sui suoi fratelli.
Insomma erano tempi difficili per la Garfagnana, il Moro e la sua banda ( ma non solo loro) mettevano a ferro e fuoco la valle. Non si può dimenticare allora quando due figli di Ser Evangelista del Sillico (n.d.r: noto personaggio di rilievo e colluso con la banda del Moro) erano scesi a Castelnuovo tentando di violentare una donna, che fra l'altro era l'amante di un altro importante personaggio tale Acconcio, che si salvò solamente per l'intervento del Capitano di Ragione di Castelnuovo, per tutta risposta uno zio dei due violentatori tale prete Iob (sottolineo prete) spaccò la testa alla madre della povera ragazza che denunciò al vescovo il prete, ma senza risultato. Si, perchè altra categoria di personaggi che turbavano e disturbavano con i loro discutibili comportamenti erano proprio i preti, avevano comportamenti assolutamente delinquenziali (è giusto dirlo) e in più erano fra i grossi protettori del Moro (e di altri briganti). Erano i preti stessi che nascondevano i furfanti all'interno dei campanili delle chiese, essi infatti approfittavano della legge che diceva che i prelati non potevano essere condannati dalle autorità civili, ma solo da quelle ecclesiastiche, ma il fatto grave (come poi succede oggi...) che i vescovi punivano i preti in maniera molto blanda o non li punivano
Il Duca Alfonso d' Este, un duca
dalla manica larga
affatto. L'Ariosto voleva (giustamente) che anche i preti cadessero sotto il rigore della legge come qualunque cittadino e aveva scritto ai vescovi perchè "li dessino autorità sopra li preti"... ci possiamo immaginare la risposta. Rimane il fatto che
 la fine che fece il Moro e la sua banda a me non è dato sapere, comunque nel tempo la figura del Moro è stata variamente romanzata nei racconti popolari, ed oggi è visto come una sorta di Robin Hood, un bandito più vicino alla povera gente di quanto non lo fossero le autorità, ma non era così, ed è giusto che la storia lo ricollochi al posto che merita: come uno dei più terribili e spietati briganti che la Garfagnana abbia mai conosciuto.

mercoledì 12 agosto 2015

1891,un'invenzione tutta garfagnina: la prima auto elettrica italiana.La sua storia e del suo inventore:il Conte Giuseppe Carli

La prima auto elettrica italiana
 inventata dal castelnuovese
Conte Giuseppe Carli
Sentiamo parlare sempre più spesso di auto elettriche, sentiamo dire che prima o poi il petrolio finirà e che quindi l'auto elettrica prenderà definitivamente il sopravvento, sentiamo parlare di un mondo sempre più inquinato da tutte queste emissioni di gas malefici che "sputano" il (quasi) miliardo di automobili che circolano nel mondo e sopratutto pensiamo che l'invenzione dell'auto elettrica sia una cosa recentissima, ma non è così. La prima auto elettrica italiana fu inventata nel 1891 e come molti non sapranno l'auto vide la luce in Garfagnana, ideata da un garfagnino D.O.C: il conte Giuseppe Carli di Castelnuovo. Sembrerà strano che nella dimenticata terra di Garfagnana, fatta di contadini,pastori e monti sia nata un'idea talmente innovativa e all'avanguardia anche per il nostro tempo,ma è proprio così. Già nel 1853 la provincia di Lucca (in questo caso proprio Lucca) con Barsanti e Matteucci aveva già dato il suo ottimo contributo all'industria automobilistica (e non solo) con l'invenzione del motore a scoppio, ma anche la Garfagnana volle dire la sua nella persona del Conte Carli che aveva già intuito in questa idea molte cose positive. 
Si è spesso portati a pensare che l'auto elettrica sia frutto delle preoccupazioni ecologiche dei giorni nostri, ma invece la storia del motore combustibile e di quello elettrico corrono di pari passo sin dagli albori. Infatti i motori delle prime auto erano rumorosi e di difficile funzionamento e il combustibile ricavato dal petrolio puzzava e imbrattava le strade a tal punto da spingere gli inventori a cercare qualcosa di meno inquinante, ed ecco così entrare in scena Giuseppe Carli nato a Castelnuovo Garfagnana il 27 febbraio del 1854, quarto figlio del conte Luigi ( n.d.r:il titolo nobiliare gli fu elevato dal duca Francesco IV di Modena nel 1815) e di Paolina Vittoni, unico maschio, conseguì gli studi classici e si laureò a Pisa in Giurisprudenza. Giuseppe si sposò poi con Elmira Bacci di Livorno appartenete ad una ricca famiglia ed ebbe tre figli. 
Prima di essere inventore fu un vero precursore nei vari campi della vita, fu uno dei fondatori del C.A.I (club alpino italiano) della Garfagnana, fu fra l'altro ancora co-fondatore del giornale "Il Corriere della Garfagnana", ma sopratutto il suo contributo fu
Il Conte Giuseppe Carli
fondamentale per lo sviluppo industriale della valle, fra le molte altre intuizioni (una teleferica lunga 5 km per trasportare legname in Versilia e l'elettrificazione della cittadina garfagnina) fu grazie al suo intervento e ai suoi capitali che fu creato in Castelnuovo la Fabbrica dei Tessuti (che con gli anni sarà poi conosciuta come "Manifattura Tessile Valserchio") e proprio in questi stabilimenti vide la luce la prima auto elettrica italiana se non anche una delle prime al mondo, in collaborazione con l'ingegner Boggio (direttore dello stabilimento tessile). Non si trattava proprio di un'auto ma bensì di un triciclo biposto,simile a quello dei bimbetti, solo che carico di batterie pesava ben 140 Kg e il suo motore sviluppava un cavallo di potenza. Il veicolo venne realizzato fra il 1890 e il 1891 coronando il sogno di un mezzo automatizzato da anteporre al vapore e al petrolio. Tale veicolo aveva la prerogativa di essere totalmente elettrico.Il conte Carli brevettò così questo prodotto con lo scopo di produrre in breve tempo la sua realizzazione in serie. Come detto era su tre ruote,fatto con tubi d'acciaio,piccolo,lunghezza 1,80 m e largo 1 metro e 20 centimetri, per 140 chili di peso,la sua batteria era custodita da dieci piccoli accumulatori per avere 10 ore di autonomia,un dispositivo di inversione della rotazione consentiva addirittura la marcia indietro. A scopo di promozione, tale meraviglia fu iscritta nientepopodimeno che alla prima vera gara automobilistica del mondo, la Parigi- Rouen del 22 luglio 1894,si iscrissero 102 partecipanti,tra di essi un solo italiano, un garfagnino, il conte Giuseppe, che credeva tanto nel suo progetto che volle presentare al mondo nel modo più eclatante possibile...ma il diavolo ci mise maledettamente le corna. L'auto fu fermata clamorosamente alla frontiera francese e a causa di una montagna di scartoffie varie da mettere insieme, la dogana bloccò la macchina...fino all'indomani dell'eliminatoria. Non ci fu niente da fare il garbuglio di cartacce doganali non si sciolse nemmeno quando Carli telegrafò ad amici influenti di Roma, né gli furono d'aiuto le autorità consolari. Doveva rodersi il fegato a vedere il suo cavallo elettrico impantanato nella palude della burocrazia.A guidarla sarebbe stato il conte Giuseppe in persona, che avrebbe avuto come tecnico il suo fido Francesco Boggio. I francesi ci sbeffeggiarono è bene dirlo senza mezzi termini e tale Gilbert Lecat in un articolo dell'epoca apparso su "Le distrebuteur automobile" accenna alle disavventure del nostro concittadino con'ironia e direi con un pizzico di
La Parigi Rouen del 1894

cattiveria:

"Carli fu salvato dalla nostra ineffabile amministrazione francese e infatti può ringraziare la Francia se sia il pilota (Carli) che la macchina hanno evitato sicuramente una pessima figura davanti a tutta Europa".

Eppure all'epoca il veicolo del conte garfagnino era stato accolto con entusiasmo, tanto che il giornale milanese "L'elettricità", nel 1895, esprimeva così la sua delusione per l'esclusione dalla gara del triciclo di Carli:

"Tutti coloro che hanno preso interesse al concorso di vetture automotrici promosso l'anno passato dal 'Le petit journal' e che si ripeterà anche in quest'anno, ricorderanno parimenti con qual disappunto si sia appreso che la sola vettura elettrica inscritta, quella costruita a Castelnuovo Garfagnana, fosse alla dogana proprio al momento in cui essa avrebbe dovuto percorrere le vie di Parigi. Il grido fu unanime... Come, l'elettricità non avrà in tal modo rappresentanti da opporre al petrolio e al vapore?".

Sulla stessa linea era anche la rivista inglese "Locomotion" che pubblicava in copertina il disegno "del veicolo Carli" così chiamato, definendolo "migliore dei veicoli a vapore e a petrolio".
Il "Corriere della Garfagnana" del 1891 fornisce una descrizione dettagliata del mezzo brevettato in quell'anno dal Ministero d'Agricoltura e Commercio dicendo che:

"...è un veicolo elettrico leggerissimo. Con questo mezzo di trazione si possono percorrere le strade con una velocità straordinaria per parecchie ore di marcia secondo lo stato di esse".

La velocità straordinaria a cui si fa riferimento sfiorava i 15 chilometri orari, una prestazione di tutto rispetto se si pensa che l'auto del vincitore della Parigi- Rouen del 1894 (n.d.r: il conte Jules de Dion) faceva al massimo 22 chilometri all'ora.
Dopo la brutta esperienza in terra di Francia la vita del Conte Carli prese una brutta piega.Si presentò dapprima alle elezioni politiche del 1892 alla Camera dei deputati dove venne eletto, ma ad un anno e sette mesi dalla elezione (1894) le votazioni furono dichiarate nulle per sospetto di brogli ed egli decaduto come deputato. Di lì cominciò una rovinosa discesa, dovuta si dice a quella funesta entrata in politica.L'istituto bancario di cui era proprietario (n.d.r:il Banco di Sconto, poi Banco Carli) fu coinvolto in una grave crisi, i cittadini che avevano depositato i risparmi dentro la banca, ritirarono i loro soldi. Subissato da creditori e da procedimenti giudiziari fu aperta una procedura fallimentare che si concluse con la bancarotta totale nell'11 febbraio 1895 con tutti i beni del Carli venduti all'asta. 
L'auto elettrica del Conte Carli realizzata
nel 2009 dall'IPSIA Simoni di Castelnuovo
funzionante in ogni suo aspetto

Finì così anche il sogno della macchina elettrica che sparì in un cassetto. Di tale veicolo rimase solamente una documentazione fotografica, il mezzo andò perduto per le varie vicissitudini del disgraziato Conte, ma il suo progetto è bene sottolinearlo è stato poi ripreso e realizzato nuovamente e fedelmente nel 2009 dagli studenti dell'Istituto I.P.S.I.A Simoni di Castelnuovo.
Tornando al conte Giuseppe Carli o meglio al "signor Conte" come era chiamato, morì a Livorno nel 1913. Aveva 59 anni e con tutto merito va ricordato fra i coloro che portarono in alto il nome della Garfagnana.

Fonte: Articolo tratto da studi fatti 
da Lorenza Rossi e Guido Rossi:"Iconti Carli di Castelnuovo di Garfagnana. Nobiltà e progresso nell'Italia XIX secolo" 

mercoledì 5 agosto 2015

La storia del Gruppo Valanga. Battaglie, sacrifici e tradimenti

Partigiani garfagnini in azione
Ci sono delle cose  che il tempo avvolge in un aura di leggenda, sempre, fin dalle scuole elementari ho sempre sentito parlare quando si studiava la II guerra mondiale in Garfagnana delle memorabili e sfortunate imprese del Gruppo Valanga, una delle formazioni partigiane più celebri in tutta la valle, attiva nella zona dell'Alpe di Sant'Antonio e in genere in tutta la bassa Garfagnana. Già il nome "Valanga" di per se nella fantasia di bambino contribuiva ad alimentare ancora di più la mia curiosità sulla storia di questa formazione di cui feci una ricerca scolastica ben 30 anni fa circa e che oggi ho deciso di riportare a galla corretta e riveduta, ricordo che a narrarci i fatti a scuola venne il maestro Silvano Valiensi (amico del mio babbo) che aveva fatto parte attivamente di questo gruppo partigiano. Basta quindi con i discorsi retorici e nostalgici e andiamo al nocciolo.
Tutto, come per tante altre formazioni partigiane, cominciò con l'8 settembre 1943, ormai tutti sappiamo i fatti di quel giorno che non starò qui a narrare, ma l'evidente situazione di sbando totale del Paese era evidente a tutti, molti soldati con l'inizio dell'anno 1944 disertarono piuttosto che aderire alla neo Repubblica Sociale di Mussolini, molti prigionieri alleati nella confusione generale di quel periodo fuggirono dai campi di prigionia nascondendosi nell'impervia Garfagnana.
I tedeschi si preoccuparono presto del problema ed emanarono bandi per cercare di ricatturarli, fin dal 14 settembre 1943 il comandante del presidio tedesco di Castelnuovo Garfagnana diffidava dall'aiutare i prigionieri fuggiti e i renitenti e prometteva di ricompensare con 5000 mila lire, viveri e tabacchi chi avesse aiutato a catturarli. Ma la nostra gente, per quell'innato senso di ospitalità e solidarietà umana accolse e aiutò tutti, in molti casi senza neppure pensare di commettere qualcosa di illecito e questo in pratica fu il primo vero atto di ribellione e di ostilità nei confronti dei tedeschi, infatti molti garfagnini che non si erano presentati alle armi per la Repubblica Sociale, rimanevano nascosti nelle capanne e nei metati,aiutati dai familiari, molti di questi decisero però di uscire da questo "impasse" e salirono sui monti e formarono di fatto le prime bande partigiane che, in origine, erano costituite quasi esclusivamente da persone che si nascondevano e basta e in questo quadro nacque così il Gruppo Valanga.
Siamo negli ultimi mesi del 1943 quando il ventiduenne Leandro Puccetti studente universitario di Gallicano iscritto alla facoltà di medicina e chirurgia decide di rompere ogni indugio, l'ardore
Leandro Puccetti
comandante del Valanga
patriottico e combattivo nel suo animo era superiore ad ogni cosa e il futuro comandante del Gruppo Valanga in quel tempo già svolgeva una certa attività che tendeva ad aggregare conoscenti per formare una banda partigiana,ma il bello doveva ancora venire. Arriviamo così al giugno '44, ormai il Valanga è una formazione partigiana a tutti gli effetti. I partigiani sono organizzati sempre meglio,sono sempre più armati grazie ai lanci americani e ai saccheggi dei magazzini della TODT. Nella bassa Garfagnana (Gallicano,Molazzana,Fabbriche di Vallico,Vergemoli) agisce proprio il Gruppo Valanga che il 6 giugno (secondo testimonianze dirette) riesce a recuperare (almeno in parte) un lancio di bidoni con armi e altro, effettuato da aerei americani nei pressi di Cerretoli, infatti da un simil-inventario della formazione partigiana 10 giorni dopo risultano: 30 uomini armati con due fucili mitragliatori tipo BREN, 20 STEN e altri vecchi fucili. Della formazione fanno parte fra gli altri, Mario De Maria vice-comandante, Silvano Valiensi, Aldo Sarti, Pasquale Cipriani (cognato di De Maria), Pietro Petrocchi e i tre fratelli Vangioni, Pietro, Luigi e Lorenzo, il loro accampamento si trova nel bellissimo prato di Pianiza sotto la Pania a due passi dall'Alpe di Sant'Antonio (comune di Molazzana). De Maria era un sottufficiale della Marina Militare Italiana nato nel sud Italia e sposato a Vergemoli, che dopo il famoso 8 settembre si era ripresentato alla costituzione della R.S.I militando addirittura nella Xa  MAS (n.d.r: unità speciale della Regia Marina Italiana),poi aveva disertato ed era entrato a far parte del
Pianiza oggi, dove era l'accampamento
del Gruppo Vlanga
Valanga, Pietro Petrocchi era invece appartenuto alla G.N.R (Guardia Nazionale Repubblicana) prima di salire nel maggio 1944 in montagna, Silvano Valiensi, pure lui si era presentato alla chiamata della R.S.I, ed aveva lavorato alle fortificazione della linea Gustav (n.d.r: linea militare che si estendeva dal fiume Garigliano,al confine fra Lazio e Campania, fino ad Ortona (Chieti) passando per Cassino),poi aveva disertato e si era aggregato al gruppo di Puccetti di cui era amico.Del gruppo facevano parte altri abitanti dei paraggi, però secondo alcuni non c'era da fidarsi, infatti nacquero dei contrasti, alla fine furono costretti ad abbandonare la formazione. Fra tutti questi c'era però la più amata dal gruppo, la famosa "Mamma Viola" ovvero Viola Bertoni Mori che accudì nella sua casa dell'Alpe gli uomini del Valanga avendone cura come propri figli, cucinando per loro, tant'è che alla fine della guerra fu insignita della medaglia d'oro al valore civile.Il tempo passa ma le prime azione repressive e i primi scontri non si faranno attendere.Il 13 luglio 1944 ci fu il primo significativo scontro contro i tedeschi nel magnifico scenario del Rifugio Rossi alla Pania, infatti i partigiani si erano ritirati da Pianiza e si erano trasferiti verso la Pania della Croce, accampandosi al Rifugio Rossi,qui vennero assaliti da una pattuglia di 15 soldati nazisti, fu una strage. La banda partigiana si era arricchita ancora di uomini provenienti da Gallicano, ormai il Valanga sfiorava la cinquantina di unità, ma ai primi colpi di mitraglia nemica molti si dileguarono, i rimasti tentarono di resistere alcuni cercarono riparo nei pressi del "naso" dell'Omo Morto, si racconta che Donati (partigiano del Valanga) colpito da una raffica di mitra alla testa,fosse caduto facendo esplodere una bomba a mano che stava lanciando uccidendo anche uno dei fratelli Vangioni (20 anni). Dopo una mezz'ora di fuoco i tedeschi si
Rifugio Rossi alla Pania.
Luogo di una tragica battaglia del Valanga
ritirarono non subendo alcuna perdita. Le tre salme dei partigiani uccisi furono sistemate velocemente nelle cuccette all'interno del Rifugio Rossi, ma purtroppo non era finita li, si venne a sapere che il solito giorno (probabilmente fu un azione combinata) un distaccamento del Valanga si trovava a Focchia, anche loro furono colti di sorpresa da un attacco tedesco e furono catturati prigionieri in cinque.La cattura con le armi in mano (per i tedeschi) comportava la pena di morte e così i cinque furono trasferiti a Bagni di Lucca e picchiati a sangue, furono poi riportati sul luogo dello scontro e fucilati. Liliano Paolinelli (uno dei catturati) fu fucilato a Fabbriche di Vallico davanti alla sua casa e davanti alla sua mamma. Fu un colpo psicologico durissimo per il Valanga, Puccetti (che non era presente allo scontro perchè in missione presso altre bande) riuscì a riorganizzarsi faticosamente radunando solo 13 uomini,intanto gli scontri continuavano senza tregua in tutto l'arco apuano ma a dar man forte al Gruppo Valanga vennero 36 partigiani emiliani appartenuti alla distrutta Repubblica Partigiana di Montefiorino (n.d.r: fu un territorio fra le province di Modena e Reggio Emilia che durante la resistenza si autoproclamò indipendente).Si trattava di uomini ben armati e con esperienza di combattimento, per cui furono sostanzialmente bene accolti, anche se delle divergenze politiche saltarono subito fuori. Il Valanga politicamente non era inquadrato in nessuna fazione e così voleva rimanere, mentre gli emiliani di "Stella Rossa", comunisti, ritenevano che dovesse prendere una connotazione precisa e poi di dover condurre un'attività di attacco continuo, mentre i partigiani garfagnini erano più attendisti e prudenti in attesa dell'avanzata alleata, comunque sia gli uomini del Valanga erano tornati ad essere una sessantina e gli emiliani avevano abbassato la testa su ogni loro richiesta, quest'ultimi accettarono che il comandante rimanesse il Puccetti e il vice comandante De Maria. Altri problemi però sopraggiunsero si vociferava che per i paesi garfagnini ci fosse un tale che depredava la povera gente a nome del Gruppo Valanga, terrorizzandola con ingiunzioni di pagamento, finalmente le ricerche sul colpevole dettero i suoi frutti e i partigiani riuscirono a catturare il colpevole, tale Ernesto di Nuzzo di 21 anni campano, studente universitario ex appartenente del Gruppo Valanga. I membri del Valanga per dissipare ogni dubbio sulla loro onestà presero la più grave delle decisioni: la condanna a morte per il malcapitato,la sentenza di morte fu decisa a maggioranza e fu inesorabilmente eseguita nonostante l'intervento di Don Bertozzi parroco del luogo. 

Arrivò poi il fatidico 29 agosto 1944,la battaglia del Monte Rovaio, una fra le più famose battaglie della II guerra mondiale in Garfagnana, se non la più famosa sicuramente la più controversa.Più versioni sono state dette e scritte su questa battaglia e vi rimando caldamente ad un mio vecchio articolo poichè tale battaglia non merita sicuramente due righe per cui se interessa cliccate qui http://paolomarzi.blogspot.it/2014/09/29-agosto-1944settantanni-fa-la.html . Intanto verso settembre il Gruppo Valanga si era ricomposto. De Maria dopo la battaglia del Rovaio e la tragica morte del comandante Puccetti aveva le redini del comando del gruppo partigiano. Oltre ad elementi del posto e agli emiliani,si precisa in una lettera  di De Maria ad Oldhman (n.d.r:comandante della
La cappella in ricordo
dei partigiani morti sul
Monte Rovaio
formazione partigiana Lunense) che la consistenza del gruppo è di 40 persone di cui 11 russi (disertori dall'esercito tedesco).Ormai il Gruppo Valanga si limita ad azioni di concerto con gli alleati e presiede molti punti strategici della valle, oltre a questo i partigiani forniscono agli americani notizie sui posizionamenti nemici. Ormai l'avanzata alleata si fa inesorabile gli uomini del Valanga vanno incontro ai brasiliani della F.E.B (n.d.r: Forza di Spedizione Brasiliana) a Valpromaro invitandoli ad avanzare, gli uomini del Valanga entrarono ormai tranquillamente nei paesi liberi della Garfagnana. Rimase però ancora l'ultima sacca di resistenza, i partigiani una volta giunti nella libera Trassilico furono accolti da sventagliate di mitragliatori tedeschi provenienti dal dirimpettaio paese di Calomini, un altro dei fratelli Vangioni fu colpito in pieno ed ucciso. 

Fu questo l'ultimo atto della storia del Valanga che il 6 ottobre del 1945 fu sciolto. De Maria lasciò liberi tutti quelli che lo desideravano.Il comandante prosegui la sua avventura con altri componenti dell'ormai disgiunto Gruppo Valanga che non vollero far ritorno a casa e si unirono di fatto agli alleati per combattere insieme.Per questi nuovi soldati gli americani costituirono una compagnia speciale la "Compagnia C". Questi uomini rimasero sul fronte fino alla fine del conflitto, ma alcuni seguirono l'avanzata degli alleati fino a Milano. 
Una vecchia foto di
Silvano Valiensi
Oggi di questi  giovanissimi uomini (gli appartenenti del Valanga avevano un'età media di 23 anni) a ricordare i loro sacrifici rimangono alcune vie e alcune piazze e anche scuole dedicate (una via di Lucca e l'ex scuola media di Gallicano e il piazzale antistante sono dedicati a Leandro Puccetti e al gruppo stesso) ma nella memoria dei loro attuali coetanei non rimane quasi niente, se non che un anonimo nome su una fredda lapide.
Per questo voglio ancora ricordarli con una strofa di una bellissima poesia intitolata "Il nemico" sui fatti del Monte Rovaio di Silvano Valiensi, maestro, poeta e partigiano del Gruppo Valanga:

Avete pagato voi soli,compagni,
caduti nel sole d'Agosto sul monte
Neppure una stilla di sangue
per voi fu versata,ragazzi inesperti,
pagaste,felici e coscienti, il tributo:
moriste voi soli per tutti