mercoledì 26 aprile 2017

Gli I.M.I, una tragedia poco conosciuta. Storia di un deportato garfagnino.

Erano questi i giorni in cui finiva la seconda guerra mondiale.
Passarono sei lunghi anni da quel primo settembre 1939 quando la Germania invase la Polonia, sei lunghi anni pieni di orrori, morte e fame. Con il trascorrere del tempo e con la scoperta di tutte le nefandezze perpetrate questa guerra fu considerata fra le più cruente di tutta la storia dell'umanità. Ma finalmente arrivarono anche i giorni dell'aprile 1945 e con la fine di queste barbarie cominciava la speranza di una vita nuova. Era comunque difficile ripartire, la memoria delle persone era ancora invasa dalle brutte immagini e sensazioni di quegli anni e nel frattempo si veniva anche a conoscenza della tragica fine di sei milioni di ebrei, di Auschwitz, dei campi di sterminio e le prime raccapriccianti immagini di quell'inferno erano ormai negli occhi di tutti. L'annientamento degli ebrei da parte dei nazisti con gli anni oscurò altre vicende della guerra che meritavano di essere approfondite e che solamente negli ultimi tempi abbiamo cominciato timidamente a riscoprire, infatti non si può dimenticare la tragedia in Russia dell'8A armata italiana(meglio conosciuta come ARMIR), delle Foibe, degli esuli istriani e della fine di circa ottocentomila I.M.I, una sigla questa ai più sconosciuta ma dal significato inequivocabile: "Italienische-Militar-Internierten" ovverosia "internati militari italiani", fu il nome ufficiale dato dalle autorità tedesche ai soldati italiani catturati, rastrellati e deportati nei territori
del Terzo Reich nei giorni immediatamente successivi all'armistizio dell'8 settembre 1943. Dopo il disarmo, soldati e ufficiali italiani vennero posti davanti alla scelta di continuare a combattere nelle file della Repubblica Sociale e quindi a fianco dell'esercito tedesco o, in caso contrario, essere inviati in campi di detenzione in Germania. Solo il 10% delle forze armate italiane accettò l'arruolamento, gli altri vennero considerati prigionieri di guerra. In seguito cambiarono "status" divenendo "internati militari" per non riconoscere loro le garanzie della Convenzione di Ginevra, e infine nell'autunno del 1944 furono considerati "lavoratori civili" in modo da essere sottoposti a tutti i lavori pesanti senza godere delle tutele della Croce Rossa Internazionale. I numeri di questa immane tragedia sono spaventosi e purtroppo non sono a conoscenza di tutti. Si parla appunto di circa ottocentomila soldati italiani internati, di questa moltitudine si presume (senza nessun dato ufficiale alla mano) da recenti studi fatti che siano morti in un anno e mezzo tra i 37.000 e 50.000 uomini per svariate cause: malnutrizione, lavoro duro e continuo, esecuzioni capitali e bombardamenti alleati sulle installazioni dove gli internati lavoravano. Una volta liberati però le tribolazioni non finirono, anzi, il ritorno a casa si presentò a loro come una vera e propria odissea. La maggior parte di essi ritornò in patria tra l'estate del 1945 e il 1946. Furono le stazioni ferroviarie e i centri d'accoglienza del centro Italia a smistare la gran massa dei rientranti. Il rientro avvenne su treni merci sovraccarichi. Il 6 giugno fu riaperta la ferrovia del Brennero da cui cominciarono a defluire tremila italiani al giorno, numero che aumentò a 4500 a partire da agosto, fu un vero e proprio esodo biblico che continuò nei mesi successivi quando le autorità considerarono completo il rimpatrio di massa degli internati
Militari italiani rastrelati
italiani. Nel settembre 1945 l'80% degli I.M.I sopravvissuti erano rientrati in patria, ma per alcuni il dramma continuava. Migliaia di ex I.M.I finirono nelle mani dell'esercito russo e jugoslavo e, anziché essere liberati continuarono la prigionia per alcuni mesi dopo la fine della guerra. Le autorità sovietiche in particolare cominciarono a rilasciare i prigionieri solamente alla fine del 1945. In quel periodo ritornarono in Italia diecimila italiani, cui si aggiunsero altri 52.000 che partirono a inizio 1946. Anche la Garfagnana pagò il suo tributo, molti garfagnini furono deportati nei campi di concentramento in Germania, molti di loro morirono ma ci fu anche chi fece ritorno a casa e oggi ci può raccontare in prima persona quello che fu questa orribile esperienza che poco si discosta da quello che patirono gli ebrei nei campi di sterminio sparsi per tutta Europa. La testimonianza è di Lunardi Sestilio classe 1923 e tale testimonianza è stata trascritta dalla nipote Beatrice Lunardi e la si può trovare nel bellissimo libro di Tommaso Teora "Storie di guerra vissuta. Garfagnana 1940-1945". Così si apre letteralmente la testimonianza di Sestilio:     - Capisco chi mette in dubbio che queste atrocità siano realmente accadute, perchè chi non le ha vissute non le può credere-

Il nostro protagonista al tempo abitava con la sua famiglia nel piccolo borgo di Valbona nel comune di Castiglione Garfagnana, fino a quel momento si era occupato solo delle sue pecore, di portarle al pascolo e di fare il formaggio. Arrivò però quel maledetto giorno di Befana, era il 6 gennaio 1943,  quando a vent'anni fu chiamato alle armi per andare prima a Cuneo e poi a Dronero per un addestramento militare da gennaio a luglio. Quando partì per il nord Italia Sestilio non sapeva a ciò che andava incontro, non si rendeva conto a quello che stava per partecipare e non immaginava certo la grandezza di questo conflitto mondiale, d'altronde non era mai uscito dal paese e la sua ingenuità gli metteva un velo davanti ai suoi occhi. Rimane il fatto che poi a luglio il suo battaglione fu trasferito a Bolzano per presidiare il confine, fino alla fatidica data dell'armistizio (8 settembre 1943), da quel giorno fu il caos più totale, non arrivava nessun ordine su come comportarsi e nessuna istruzione veniva data ai militari, le truppe italiane erano
praticamente allo sbando. Rimarrà sempre nella mente di Sestilio la vicenda di quel suo commilitone, quando nei monti sopra Bolzano fu morso da una vipera e fu portato d'urgenza in ospedale, quella che fino a quel momento era stata considerata una disdetta fu una vera e propria fortuna per quel militare, infatti di li a poco tre soli carri armati tedeschi circondarono la caserma trentina e fecero prigionieri 300 soldati italiani fra cui Sestilio. Una volta catturati ci fu l'umiliazione di essere portati in corteo per le vie di Bolzano, e qui in mezzo alla molta gente il pastore garfagnino riuscì a consegnare un biglietto ad una ragazza del posto che era in mezzo alla folla, in questo biglietto era riportato l'indirizzo di casa e l'uomo si raccomandò alla giovane di avvisare la sua famiglia del suo destino. Il gesto di solidarietà fu bellissimo, solo con il ritorno in Garfagnana si scoprì che questa giovane donna non se ne era fregata di uno sconosciuto soldato, ma bensì aveva scritto una lunga lettera in cui informava la famiglia sulla sorte del figlio. Dopo quattro giorni di detenzione ci fu la partenza per Innsbruck, successivamente le tradotte condussero i prigionieri in Germania a Mannheim, durante il viaggio alcuni fra i soldati più esperti riuscirono a fuggire, altri piangevano disperatamente immaginando cosa gli aspettava, altri come il militare garfagnino erano tranquilli convinti nella loro candida innocenza che da li a poco la guerra sarebbe terminata. Ma non era così. Una volta arrivati a Mannheim scesero dai treni e venero messi immediatamente in fila e divisi in due gruppi destinati a lavori
Trasferimento in Germania
 di soldati italiani
diversi, dopodichè furono fatti denudare e vestiti con un paio di zoccoli, un paio di pantaloni e una casacca con la scritta KGF:Kriegsgefangen (prigionieri di guerra). Sestilio fu diviso dai compagni che conosceva e fu adibito allo sgombero dalle macerie nelle strade. La sera, dopo i durissimi lavori tornava in un capannone dove dormiva insieme agli altri detenuti in un misero pagliericcio. Le razioni di cibo erano scarsissime, tant'è che i prigionieri riuscirono a scoprire in una vicina cantina delle botti con delle bucce di arancia immerse nell'alcool di cui ben presto si cibarono di nascosto. Nei successivi mesi il lavoro cambiò e il nostro protagonista fu mandato insieme ad altri venti compagni a lavorare in una fonderia di ferro per molte ore al giorno. All'interno del campo di lavoro i carcerati erano suddivisi per nazionalità: italiani, francesi, russi e altri. I francesi erano coloro a cui era concessa più libertà, perchè considerati diversi dagli italiani traditori. Non mancava però l'occasione di fare amicizia e Sestilio diventò amico di un russo, la lingua non era un problema, in queste esperienze il rapporto umano è quello che conta. Il russo non mancava di portare al garfagnino qualcosa da mangiare in un pentolino tutto arrugginito e di volta in volta entrambi si davano una mano nella fonderia per alleviare i carichi di lavoro. Certe volte la fame e il freddo prendevano il sopravvento e rischiando la vita più volte ci si andava a riscaldare in una cabina di una gru. Gli inverni tedeschi come si sa sono molto rigidi, i vestiti erano inadeguati,  ma la cosa più tremenda da sopportare era la fame. A ogni prigioniero erano dato in dotazione un cartellino che veniva bucato ad ogni pasto che consisteva in pezzo di pane secco da condividere con gli altri, in una zuppa di verdure cotte e in una indefinibile pappa acida. Un giorno a proposito di questo, un altro garfagnino detenuto che dormiva nella solita baracca di Sestilio di nome Pioli Silvio, preso da indicibili morsi della fame decise di avventurarsi presso la vicina rete che faceva da confine con il

settore francese nella speranza di rimediare alcune bucce di patate gettate nell'immondizia, destino volle che fu scoperto dalle guardie tedesche, fu picchiato barbaramente, poco dopo morì. Il cartellino che dava diritto ad una razione di cibo fu preso allora dal pastore garfagnino che rischiando anche qui la vita faceva due volte la fila per prendere la doppia porzione. Insomma, tutti i giorni il confine fra vita e morte era sottilissimo. A conferma di questo il testimone racconta delle baracche- dormitorio, composte da letti a castello, normalmente da otto persone, con al centro una grande stufa, in questa stufa venivano cotte le bucce di patate trovate per terra, inoltre quando non vi erano i turni di lavoro c'era il compito di mantenere pulita la baracca, in caso di ispezione negativa da parte dei nazisti gli otto componenti venivano puniti con delle frustate. Non tutti però i nazisti erano malvagi e in effetti Sestilio ricorda bene quando la fonderia fu bombardata dagli americani e i carcerati lui compreso furono trasferiti a gruppi da tre al ripristino delle linee telefoniche, sorvegliati da un soldato tedesco, a loro era stato assegnato un tale di nome Irrigh che nel corso di una di queste uscite catturò un'anatra che portò a casa sua, la cucinò e la divise con i prigionieri. Indimenticabile rimarrà anche quella volta che in un giorno di brutto tempo furono addetti anche alla pulizia della macelleria, dove riuscirono a sottrarre ben due salami. C'era poco da fare, la sopravvivenza era l'obiettivo principale in attesa che la guerra prima o poi finisse e detto fatto una mattina tutti i detenuti furono portati in fila indiana in una pineta, in lontananza già si sentivano le cannonate degli americani, di li a poco fu il fuggi fuggi generale, tedeschi e italiani scapparono in ogni dove. Il primo rifugio di Sestilio fu (insieme ad altri tre compagni) sotto un ponte dove rimasero per qualche giorno, trovarono poi aiuto presso una famiglia di contadini che offrì loro da mangiare. Nell'aprile 1945 finalmente gli alleati presero pieno possesso delle zone occupate e Sestilio si consegnò agli americani stessi che lo portarono in un campo-ospedale fino al luglio del medesimo anno, qui fu rimesso in sesto fisicamente e moralmente, c'erano altri commilitoni che (dice lui) erano arrivati a pesare 38 miseri chili. Una volta tornato in salute cominciò il lungo viaggio per tornare a casa, molti furono i chilometri fatti a piedi dalla Germania, infine con mezzi di fortuna e le tradotte messe a disposizione dalla Croce Rossa, Sestilio insieme ad un compaesano di nome Agostino riuscì a raggiungere Lucca, di li in autobus fino a Castelnuovo e da li a piedi fino al paese di Valbona. La famiglia aveva ormai perso le speranze di vederlo ritornare, ormai non aveva più notizie da moltissimo tempo, immaginatevi voi l'emozione e dopo le lacrime della madre e gli abbracci dei parenti tutti e i festeggiamenti di rito, la prima cosa che fece il nostro garfagnino fu quella di
Gli alleati entrano in una
Germania rasa al suolo
andarsi a mettere all'ombra del suo fico preferito dove rimase per ben tre giorni a riposare, cercando di non pensare alla brutta esperienza passata. Ma prima o poi bisogna fare i conti con la propria coscienza e solamente negli anni che seguirono Sestilio si volle informare completamente di ciò che era accaduto durante la guerra, egli non aveva idea, dato che la sua esperienza di guerra si era "limitata" al campo d prigionia e al lavoro in fonderia. Ignaro fino a quel momento delle atrocità che l'uomo aveva compiuto. 



Bibliografia:


  • Alessandro Natta "L'altra resistenza. I militari italiani internati in Germania" Einaudi 1996
  • Tommaso Teora "Storie di guerra vissuta. Garfagnana 1940-1945" Garfagnana editrice 2016. A sua volta il brano è tratto da una tesina di Beatrice Lunardi

mercoledì 19 aprile 2017

Le malattie e le cure di una volta in Garfagnana

Facciamoci questa domanda. Qual'è la cosa più importante della vita?

"Sutura di una ferita minore presso un barbiere"
un quadro di Gerrit Ludens
Credo che la stragrande maggioranza di voi mi risponderà la salute e così infatti è. La vita senza salute diventa un inferno e solo quando questa viene a mancare ci si accorge del suo valore. Si può essere le persone più facoltose della Terra, si può avere un lavoro gratificante, si può essere al vertice delle più grandi industrie, si può essere capi di stato o di governo, ma se non si è in buona salute si diventa deboli, fragili e bisognosi di tutto. Nei secoli la medicina ha fatto passi da gigante, molto ancora c'è da fare ma pensiamo solo che fino a poco tempo fa si moriva anche solo per una futile febbre, mentre adesso si continua (naturalmente) ancora a morire ma di ben poche malattie. La Garfagnana nel corso dei secoli in fatto di salute  non è stata tanto fortunata, ricordiamo fra tutte le due catastrofiche pandemie che hanno colpito la nostra valle: la peste bubbonica del 1630 e più recentemente la febbre spagnola nel 1918, che portò un tasso di mortalità altissimo, in Italia fummo secondi in Europa solamente alla Russia. Oggi però quest'analisi scenderà più nel dettaglio e guarderà appunto di cosa ci si ammalava in Garfagnana in tempi lontani. Guarderemo quali erano le malattie più comuni, approfondiremo le cause di decesso consuete e "normali" e indagheremo anche sulle cure dell'epoca. Per studiare le malattie che anticamente colpivano una popolazione la fonte più comunemente usata sono i certificati medici redatti dai dottori stessi per finalità di diagnosi e cura e per esigenze amministrative della struttura che le prendeva in carico, spesso queste strutture erano le nostre care misericordie locali e qui in questi archivi possiamo in tal senso trovare dei veri e propri tesori. I medici di allora non avrebbero mai immaginato un utilizzo dei loro certificati come fonte di dati utili, pensiamo poi che in alcuni casi la medicina era ancora molto vicina alla stregoneria. Da dei certificati di malati garfagnini che vanno dal 1702 al 1818 salta subito all'occhio come in cento e più anni la scienza medica è rimasta ferma, impotente a risolvere qualsiasi malattia, si parla sempre di "aria corrotta", insidiata da fermenti putridi e corpi maligni, le patologie erano sempre le stesse, mentre l'elenco delle cure non finisce più di decantare le virtù delle sostanze vegetali, erano però rimedi dati senza sperimentazione e molto spesso si fa anche riferimento ai dettami di un famoso medico dell'epoca un certo Pietro Andrea Mattioli da Siena, dettami tratti dal suo libro "Alcuni rimedi del Gran Mattioli", si trattava appunto di
Alcuni rimedi del Gran Mattioli
preparazioni artigianali costituite in gran parte da erbe, cortecce e minerali vari, quali piombo,argento e mercurio che poi si sarebbero trasformati in unguenti, pozioni, sciroppi e clisteri. Le malattie che colpivano di più i nostri antenati erano quelle che riguardavano l'apparato respiratorio e la pelle. Ecco ad esempio una ricetta da me sommariamente "italianizzata" scritta nel 1705 per curare la pleurite:

"Per la pleurite dobbiamo prendere una manciata di ortica in polvere e bollirla in un bicchiere di vino rosso e otto once di olio d'oliva, aspettare quindi che tutto il vino si sia consumato, dopodichè bere il succo avanzato".
Fra le altre cause di cattiva salute non dimentichiamoci nemmeno delle fratture e delle molteplici ossa rotte dei contadini garfagnini, spesso queste fratture erano dovute a motivi di lavoro: chi cadeva da un tetto, chi veniva colpito dal mulo e qui si doveva passare sotto le cure dei chirurghi o dei "barbieri" aggiusta-ossa che molto spesso facevano dei disastri irrimediabili, lasciando il più delle volte persone storpie e menomate. Non parliamo poi delle malattie dovute alla sporcizia e al sudicio. Una buona parte della popolazione era colpita da scabbia, rogna, pustole e porcherie del genere. La sporcizia conviveva come un vestito di tutti i giorni ed è bene dire che questo lerciume non era un esclusiva della gente semplice e comune, non era difficile nemmeno trovare delle pulci sotto il vestito di una gran dama. Una conseguenza di questa schifezza portava alle malattie dell'intestino, causate dallo sporco e dalla cattiva alimentazione. Naturalmente è bene sottolineare che al tempo i garfagnini e gli italiani in genere campavano poco, mediamente quarantacinque o cinquant'anni...A conferma di ciò l'uomo cinquantenne di oltre un secolo fa era effettivamente un vecchio e tale Pietrin da Corfino così scrive agli amministratori della Confraternita di Misericordia di Castelnuovo Garfagnana:
"Ho 53 anni di età, gravato da malattie frutto di fatiche, privazioni, miseria e dalla mia vecchiaia. Non potrei più malgrado tutti i miei sforzi, procurarmi quel pane che mi è costato sempre molto caro, mi vedrei ridotto alla più straziante situazione se non mi restasse una speranza nei soccorsi così generosamente elargiti dalla pubblica carità"
Con il tempo nella valle sorsero anche gli ospedali di Castelnuovo Garfagnana e Barga, andare in ospedale diventò un evento ritenuto necessario per ristabilire una condizione di salute o un miglioramento ed era sopratutto una possibilità concessa a tutti, ma prima di questi ospedali vi erano come strutture di sussistenza gli antichissimi hospitali disseminati in tutta la valle che formavano una catena di solidarietà, nati per assistere pellegrini e viandanti destinati nei luoghi santi. Questi ospizi gestiti dai frati accoglievano tutti, anche gli ammalati e i bisognosi e non era come oggi che i ricchi vanno nelle cliniche a farsi curare, chi aveva
Gli ospedali di una volta
soldi si curava in casa, dove aveva il suo letto per coricarsi e dove poteva chiamare a domicilio il medico ducale, godendo così del privilegio di guarire o morire in casa propria. Il povero e il ramingo come detto, poteva trovare conforto e ricovero presso questi hospitali, dove almeno a sostegno dell'anima l'estrema unzione gli sarebbe stata concessa...

A proposito di medici ducali. In Garfagnana nel XVI secolo agiva per la corte estense (e solo per la nobiltà e i notabili locali) il famosissimo Antonio Musa Brasavola che a quanto pare fu il primo ad eseguire una tracheotomia. In Garfagnana venne più volte per intervenire sui signori nostrali, portandosi sempre dietro i suoi ferri chirurgici artigianali. Oggi i ferri chirurgici sono chiamati "serie chirurgica", avvolti in trousse come se fossero collane di perle. In quei tempi, compreso Brasavola, la chirurgia aggiustava, riparava e come anestetico usava la "spugna sonnifera", ottenuta facendo
vecchi ferri chirurgici

bollire questa spugna in succhi di erbe particolari, tipo la mandragola (che la si poteva trovare sulla cima del Monte Procinto), oppio, cicuta,il tutto sapientemente manipolato dal farmacista- speziale. Fra gli interventi fatti da Brasavola in terra garfagnina rimangono agli atti una lussazione alla spalla di una donna con due grandi e profonde ferite al cranio ed inoltre si parla di un giovane guarito e curato in dieci giorni...da un tumore al piede. Chissà quali cure avranno somministrato a questo povero giovane per curarlo da un così brutto male!? Si, perchè in fatto di cure, queste erano al quanto originali. Difatti per problemi "evacuatori" si prendeva un gallo di cinque anni, di penne rosse, agile, non troppo grasso ne troppo gracile, si legava una zampa ad una cordicella, dopodichè si picchiava il pennuto  con un rametto in modo da farlo arrabbiare. Allo stremo delle sue forze il galletto veniva decapitato, spennato e lavato nel vino, sventrato e riempito di droghe, quindi lo si metteva a bollire, ne usciva un brodo- gelatina che garantiva un sicuro risultato. Per il mal di denti era indicatissimo introdurre dentro la carie un chicco di sale o di pepe, sciacquarsi poi la bocca con acqua salatissima e molto calda. Per le febbri intestinali la panacea del male era una polentina di farina di granoturco, condita con olio, da ripetere per tre volte al giorno. Quando capitava di contrarre il morbillo o la scarlattina la soluzione era di avvolgere l'ammalato in panni rossi di lana, far
vecchi rimedi medici
sudare e far "covare" bene.

I tempi cambiamo e per quanto riguarda il campo della medicina e delle cure questo è uno dei pochi casi in cui è impossibile dire "si stava meglio quando si stava peggio"...





Bibliografia:

  •  Archivio di Stato di Modena
  • Misericordie locali
  • "Stasera venite a vejo Terè" Gruppo vegliatori di Gallicano. Banca dell'identità e della mnemoria

mercoledì 12 aprile 2017

La pasimata: la sua storia, i suoi segreti e il significato del suo nome

Non tutto si può comprare al supermercato. Ci sono qualità della
La pasimata
vita, come la pazienza e l'aver tempo per se stessi che non si trovano nel bancone dei surgelati. La pazienza può essere un pregio innato e l'aver tempo sicuramente non è una virtù che ci possiamo permettere in quest'epoca dove tutto corre veloce, ed è per questo che oggi viviamo in un mondo che si fonda sui sughi pronti, ricette di torte veloci e cene surgelate e proprio la cucina è un campo che richiede principalmente queste preziose qualità ed è in particolar modo una ricetta garfagnina su tutte, figlia di questo periodo che per la sua buona riuscita non può prescindere da questi due valori. Ecco allora a voi la storia della Pasimata. La pasimata per chi non lo sa e per chi legge questo articolo fuori dai confini garfagnini è un dolce tradizionale del periodo pasquale è una ricetta antichissima e naturalmente viene prima di uova e colombe varie, è un dolce fatto con ingredienti semplici, realizzato solo con farina, uova, lievito, zucchero, uvetta e tanto tempo, quello necessario per le cinque lievitazioni alle quali l'impasto è sottoposto. Parlare di pasimata richiama inevitabilmente ad un passo della Bibbia: "...e fu sera e fu mattina primo giorno...e fu sera e fu mattina secondo giorno...", questo brano della Genesi rievoca la lentezza dello scorrere del tempo, chi preparava questo dolce calcolava il tempo per iniziare l'impasto nel momento giusto per arrivare a sfornare tale bontà al sabato santo. Testimonianze di anziane massaie ancora oggi raccontano della laboriosa e antica preparazione, si narra di vere e proprie sfide con la pasimata stessa, perchè la riuscita di questa leccornia non è sempre scontata, anche per le mani più esperte una piccola variazione climatica ad esempio può compromettere la sua riuscita. Le massaie ricordano che nelle fasi più delicate della lavorazione tutti in casa dovevano stare attenti a non favorire correnti d'aria o ad abbassare troppo la temperatura dell'abitazione, lasciando
l'impasto della pasimata
porte e finestre aperte, addirittura si racconta che una volta nel giorno dell'ultima lievitazione i familiari di casa venivano "buttati giù" dal letto di buon ora e nei letti caldi appena lasciati venivano messe le pasimate per la fondamentale lievitazione prima di essere portate nel forno a legna. Nemmeno quando il dolce era nel forno le nostre nonne potevano tirare un sospiro di sollievo, poichè rimaneva la paura che la pasimata una volta uscita, dopo il conseguente raffreddamento non rimasse gonfia come doveva, se cedeva miseramente creando zone concave nel centro la delusione era grande e palpabile, in compenso il profumo che si sprigionava era unico, inebriante, un'odore avvolgente e ricco come oggi non si sentono più. Anticamente queste massaie preparavo questo dolce anche dietro compenso per le famiglie più ricche, e non era nemmeno difficile per queste donne scendere in competizione per chi faceva la pasimata più buona e morbida del paese, tale ricetta e varianti di essa si custodivano infatti segretamente nel grembo familiare, tanto da venire tramandati (questi piccoli accorgimenti) da madre in figlia. Riporto quindi qui di seguito la ricetta che Ivo Poli (esperto di tradizioni locali) conosce e che abitualmente si usa fare nei dintorni di Gallicano. Si noti comunque in maniera particolare la laboriosissima lavorazione...


Ingredienti:

  •  1 kg di farina bianca tipo 0
  • 6 uova
  • 400 gr di zucchero
  • 200 gr di burro
  • 250 gr di uvetta
  • un cubetto di lievito di birra (una volta si usava il lievito madre)
  • un pizzico di sale, un cucchiaio di semi di anice, un bicchierino di vin santo, acqua o latte quanto ne richiede l'impasto.
Mattino del primo giorno: preparare il lievito unendo 100 gr di farina e il cubetto del lievito di birra sciolto in acqua tiepida e tenerlo a temperatura ambiente 

Sera del primo giorno:aggiungere al lievito 170 gr di farina, un uovo, 30 gr di burro, 65 gr di zucchero, acqua o latte quanto basta, impastare e lasciare lievitare
Mattina del secondo giorno: aggiungere all'impasto 330 gr di farina, 2 uova, 70 gr di zucchero, 135 gr di zucchero, acqua o latte quanto basta, impastare e lasciare lievitare
Sera del secondo giorno: aggiungere all'impasto 500 gr di farina, 3 uova, 100 gr di burro, 200 gr di zucchero, acqua o latte quanto basta
Mattina del terzo giorno: aggiungere all'impasto 250 gr di uvetta fatta rinvenire nel vin santo la sera prima, il vin santo, il cucchiaio di semi di anice e una bustina di lievito per dolci. Mettere il composto in un contenitore di circa dieci centimetri e larga 25-26 e lasciarla lievitare al caldo. Nel pomeriggio quando la lievitazione supera il bordo del contenitore stesso , scaldare il forno fino a 180° circa, infornare e cuocere per 50-60 minuti.

Oggi come allora la pasimata viene consumata durante la Quaresima, fino ad arrivare alla sera sabato santo quando viene portata a benedire in chiesa. Nella sua versione originale a quanto pare sembra che fosse un normale pane, non dolce, che con il trascorrere del tempo è stato ingentilito dalla presenza dell'uvetta e dello zucchero. In termini religiosi questo dolce una volta aveva un particolare significato, infatti era considerato un cosiddetto "pane rituale", in tutte le parrocchie garfagnine la pasimata veniva benedetta e distribuita in chiesa, un pane da dividere fra tutti, ad ognuno la sua parte, nel significato di unione e fratellanza. Antiche testimonianze ci rimangono ancora oggi, che certificano la presenza di questa ghiottoneria nella nostra valle da (come minino) ben 400 anni. La ricetta originale a quanto pare risale al 1621, quando la Confraternita del Santissimo Sacramento di Castiglione Garfagnana ne stabilì la distribuzione a tutti i confratelli: 
" Archivio Arcivescovile di Lucca. Libro delle visite pastorali del Vescovo di Lucca vol 39. La compagnia ha di entrata staiuole 9 di
Castiglione Garfagnana
dove si dice abbia origine
la ricetta originale
grano, con obligo di distribuire 6 in tanto pane il Giovedi Santo, dandone uno per famiglia: et le altre 3 le consuma in dare pasimata et fare altro a loro beneplacito"

Sempre secondo Ivo Poli ci sarebbe un documento attestante la presenza della pasimata ancor prima di quello castiglionese e sarebbe presente nell'archivio parrocchiale di San Jacopo a Gallicano risalente al 1603 e riporta i vari pagamenti fatti dalla chiesa con grano ricavato dalle rendite dei suoi terreni:
"per i campanari, il maestro, il sacrestano, gli operai e per la pasimata ai poveri"
Rimane però ancora un grosso dubbio su questo dolce nostrale. Qual'è il significato del suo curioso nome? Guardiamo un po'. Intanto cominciamo con il dire che non in tutti i paesi garfagnini si chiama con il solito termine. Ad esempio in Alta Garfagnana viene chiamata "fogaccia pasquale", dalle parti di Piazza al Serchio invece è
vecchie cartoline pasquali
denominata "crescenta", nella zona di Barga "schiaccia" da probabili reminiscenze del periodo fiorentino, ma comunque sia se dici "pasimata" questo appellativo viene riconosciuto da tutti. Il nome ha un origine incerta e il suo significato non corrisponde nemmeno alle caratteristiche del suo impasto, difatti il "Dizionario etimologico" del 1907 ci dice che il vocabolo potrebbe derivare dal latino "passamatum" che troverebbe addirittura nel termine greco "paxiadi" un suo omologo che significherebbe "pane cotto sotto la cenere", alcuni esperti letterati attribuiscono invece il suo perchè alla parola bizantina "pasimet", vocabolo che significa "pane non lievitato", tutto ciò come detto non corrisponde però in ogni caso alle caratteristiche proprie della sua laboriosa lavorazione, il mistero dunque rimane, anche se permane un'ultima teoria sull'etimologia di questo bizzarro sostantivo, poichè si dice che dato che è una squisitezza tipicamente pasquale, la nascita del suo nome vada ricercata nel vocabolo "passio" derivante appunto dalla passione di Cristo.

pazienza e tempo per la lievitazione
Sapori e tradizioni di un tempo che fu...Bisognerebbe andare a chiedere ai nostri vecchi, staccarli dai loro acciacchi e domandare a loro: - Ma com'era la pasimata ai tuoi tempi? Che ricordi ti riporta alla mente?...-
C'è poco da fare...è un dolce per riflettere sul tempo...




Bibliografia
  • L'Aringo- il giornale di Gallicano n 1 anno 2015. "412 anni di pasimata" di Ivo Poli
  • "Dizionario etimologico" 1907
  • "Castiglionegarfa.it" Pasimata della Garfagnana