mercoledì 14 febbraio 2018

"Il risotto romagnolesco". Una singolare ricetta (in versi) di Giovanni Pascoli del 1905

Mangiare piace un po' a tutti, è inutile negarlo. Ma da qualche
il risotto romagnolesco e il Pascoli
(foto tratta da leitv.it)

tempo, a quanto pare, ci piace più del solito. Per rendersene conto basta accendere la T.V, l'habitat naturale della nuova tendenza, il posto in cui il cibo ha mutato nome, assumendo il termine assai fashion di "food", dove i cuochi sono diventate delle vere e proprie stelle e la cultura del "mangiar bene" (a mio avviso) ha preso un'inclinazione un po' troppo sofisticata, tralasciando di fatto quella che è la consolidata tradizione dell'ottima cucina italiana, ciò ha creato quelli che oggi vengono chiamati "i gastrofighetti", cioè tutte quelle persone che sono diventate nel tempo dei radical chic del cibo, in pratica dei modaioli che seguono le tendenze del momento snobbando la cosiddetta cucina tipica, genuina, fatta come un tempo. 
"Il mio ingrediente segreto è la memoria. E' l'ingrediente che più di ogni altro caratterizza la mia concezione di cucina, non manca mai nei miei piatti. Ognuno dei miei piatti contiene sempre un pizzico di ricordi", così lo chef Pino Cuttai definisce la sua cucina, una cucina della memoria che vuole sempre raccontare una storia personale e collettiva allo stesso tempo. 
Proprio quello che cercò di fare Giovanni Pascoli dalla sua casa di Castelvecchio, scrivendo ad un caro amico una ricetta "romagnolesca", della sua terra, da provare e da far conoscere. La sua è una storia tutta particolare e fa riferimento ad un prelibato risotto: "...ecco il risotto romagnolesco che mi fa Mariù" (n.d.r: l'amata sorella). La
Mariù Pascoli
caratteristica principale di questa bontà è di essere stata scritta in versi, attraverso una curiosa sfida letteraria sui risotti, disputata contro l'amico Augusto. Augusto Guido Bianchi  era un cronista de "Il Corriere della Sera" con cui il Pascoli negli anni ebbe un lungo carteggio. Siamo nel 1905 e Bianchi racconta: "Una sera a Pisa, io gli parlai, durante un pranzo improvvisato in casa sua, del risotto alla milanese, che a lui pareva, con quel suo color di zafferano, una preparazione alchimistica. Gli promisi di inviargli la ricetta per farlo. E la promessa la mantenni. Dio me lo perdoni, come il Pascoli me lo perdonò, cercando di nobiltare la ricetta scritta da mia moglie con il tradurla nei seguenti versi...", e così il giornalista comincia a descrivere a mo' di poesia il delizioso risotto allo zafferano. La risposta del Pascoli non tardò  a venire e in una "singolar tenzone" a colpi di scodelle, cipolle e...versi, ecco la replica del poeta con una nuova ricetta, quasi inedita, in cui non manca lo zafferano ma che si arricchisce di nuovi sapori e profumi. Nelle prime righe della "poesia-ricetta" il Pascoli non manca di criticare bonariamente il giornalista milanese su delle mere questione di stile, "accusandolo" di aver utilizzato troppe volte il tempo futuro (tu farai, tu vorrai, tu saprai) per la sua poesia, e poi finalmente ecco declamare la sua ricetta:



Amico, ho letto il tuo risotto in …ai!
E’ buono assai, soltanto un po’ futuro,
con quei tuoi “tu farai, vorrai, saprai”!
Questo, del mio paese, è più sicuro
perché presente. Ella ha tritato un poco
di cipolline in un tegame puro.
V’ha messo il burro del color di croco
e zafferano (è di Milano!): a lungo
quindi ha lasciato il suo cibrèo sul fuoco.
Tu mi dirai:”Burro e cipolle?”. Aggiungo
Il risotto del Pascoli
(foto tratta da Massaie Moderne)
che v’era ancora qualche fegatino
di pollo, qualche buzzo, qualche fungo.
Che buon odor veniva dal camino!
Io già sentiva un poco di ristoro,
dopo il mio greco, dopo il mio latino!


Poi v’ha spremuto qualche  pomodoro;
ha lasciato covare chiotto chiotto
in fin c’ha preso un chiaro color d’oro.

Soltanto allora ella v’ha dentro cotto
Il riso crudo, come dici tu.
Già suona mezzogiorno…ecco il risotto
romagnolesco che mi fa Mariù.
I provetti cuochi nostrani, oltre che avermi fatto una parafrasi di questa ricetta mi hanno anche cucinato questo risotto e garantisco sulla bontà, comunque sia bando ai versi questa è la
Giovanni Pascoli nel suo orto di Castelvecchio
preparazione. Il dosaggio degli ingredienti tanto per essere chiari è fatto ad occhio, la ricetta originale non contempla dosi, d'altronde poi questa era l'abitudine delle nostre nonne quando cucinavano, in ogni modo va fatto soffriggere un po' di cipolla con il burro, poi vanno aggiunti i fegatini di pollo, lo zafferano, qualche fungo (nel mio caso pioppini) e dopo qualche minuto la passata di pomodoro e la giusta presa di sale. Tutto poi deve cuocere per benino, dopodiché  "lo spirito pascoliano" ha sospinto il cuoco a buttarci dentro il riso, che ha diligentemente portato a cottura, aggiungendo del brodo caldo all'occorrenza.
E pensare che di questa eccentrica poesia era stata persa ogni
La pubblicazione del 1930 del risotto romagnolo
traccia, fino al giugno 1930 quando "L'Almanacco gastronomico di Jarro"(n.d.r: vecchio testo di gastronomia italiana) la ripropose al grande pubblico. In quell'anno infatti nella prima pagina della rivista si trovavano ogni mese delle ricette in forma di poesia, firmate da illustri poeti, così si poteva trovare il risotto patrio di Emilio Gadda o il risotto alle rose di Gabriele D'annunzio.
Sensazioni antiche e sapori della nostra terra, così come poi erano
La cucina di casa Pascoli a Castelvecchio
fatte le vecchie ricette. Se chiudo gli occhi mi sembra di vederla Mariù nella vecchia cucina di Castelvecchio Pascoli che prepara questa squisitezza, doveva essere una cuoca eccellente. Mi sembra di sentire il gradevole profumo del risotto sprigionarsi nelle stanze della sua casa. Immaginate che piacere per il poeta sentirlo nell'aria dopo una mattinata di lavoro sui libri. Un occasione unica per tuffarsi in un'atmosfera tutta pascoliana.

Bibliografia:
  • "La cucina italiana- Giornale di gastronomia per le famiglie e i buongustai" 15 giugno 1930
  • "Giovanni Pascoli: la poesia del suo amatissimo risotto" Massaie Moderne archeologia culinaria

mercoledì 7 febbraio 2018

Minatori e miniere. La loro storia e delle antiche miniere di ferro di Fornovolasco

Fino a un po' di tempo fa se si voleva minacciare un uomo
Minatori nelle miniere di ferro
di Monteleone Spoleto

sfaccendato, che non s'impegnava sul lavoro, o si comportava in modo poco onesto, partiva il grido: - In miniera !!!- . Che cosa significava questa perentoria e secca minaccia? Andare a lavorare in miniera significava infilarsi in un un buco ogni mattina e rimanerci per dieci, dodici ore al giorno, significava picchiare sulle pietre con picconi o martelli, respirare polvere fino ad ammalarsi, oppure rischiare di morire per i numerosi crolli delle gallerie, in più quando si tornava a casa ogni sera ci si ritrovava coperti di polvere e terra e di conseguenza bisognava strofinarsi per un ora in una tinozza d'acqua, per poi la mattina dopo ripartire e ricominciare tutto da capo. Questa era la vita del minatore, che non vedeva mai la luce del sole, faticava come un animale, ma che doveva portare a casa (un misero) stipendio. Anche i garfagnini affrontarono questa vita.
In Garfagnana abbiamo poca conoscenza dell'esistenza di miniere, conosciamo il durissimo lavoro dei cavatori di marmo, ma abbiamo dimenticato che anche nella nostra valle esistevano miniere, per la precisione miniere di ferro. Il primo centro siderurgico della Garfagnana ebbe la sua nascita a Fornovolasco, l'origine del paesino vide la luce verso la fine del 1200, grazie proprio a queste miniere e dai forni che servivano per fondere il ferro. Leggenda, o verità, bene non si sa, narra che un certo conte Volaschio, mastro fusore, proveniente dal bresciano fosse a capo di una squadra di uomini dediti a questo mestiere, che trovarono proprio in queste terre ampie aree boschive per alimentare i forni fusori, insieme alle
Fornovolasco
(foto tratta da Daniele Saisi blog)

ottime acque della Turrite fondamentali per forgiare il metallo e azionare i mantici che soffiavano aria nei forno. Già a quel tempo, figuriamoci un po', tale industria era già fiorente, infatti da un registro del 1308 si apprende da un certo Ser Filippo, notaio in Camaiore,  dell'esistenza di due prospere fabbriche appartenenti a un certo Coluccio di Giacomino e a Fulcerio, proprietario insieme al fratello Guido detto "il Passera", questo ci dice che era già passato il tempo in cui il lavoro era sostanzialmente artigianale e se si vuole anche un po' domestico e una certa tecnologia all'avanguardia era più che mai presente a Fornovolasco. Altro fattore determinante per il loro sviluppo era anche la posizione geografica di queste miniere, la vicina "strada" che collegava con la Versilia permetteva l'approvvigionamento di altro materiale proveniente dall'Isola d'Elba e lo smercio dei prodotti finiti verso diversi mercati. Ma un conto era la già dura attività lavorativa davanti ad un forno, ma un altra cosa era la vita di miniera. La prima miniera del luogo fu la miniera di "Monticello-Le
Quello che rimane oggi
della Miniera Monticello Le Pose
(Foto tratta da Speleoclub Garfagnana C.A.I)

Pose" e qui la vita era veramente al limite dell'umano. Si scavavano piccole gallerie, poco profonde che costringevano questi poveri uomini a lavorare in ginocchio o sdraiati, indicatissimi per questi lavori erano i bambini, spesso orfani o gli stessi figli dei minatori che già a sei-sette anni d'età erano mandati per gli stretti meandri delle grotte in esplorazione alla ricerca di vene di ferro, molti morivano a causa del freddo o per essersi persi durante queste spedizioni, per di più la luce fioca per mezzo di torce fatte con legni resinosi non durava molto e rendeva l'aria irrespirabile. Agli inizi del 1400 il primo giacimento di "Monticello-Le Pose" si dimostrava insufficiente a coprire il fabbisogno delle attività siderurgiche, si cercarono nuovi giacimenti nelle zone vicine, fino a che si scoprì un nuovo sito detto "Le Bugie" in località Trimpello, fu un vero colpo di fortuna , queste miniere alimentarono l'attività mineraria fin quasi ai giorni nostri. La spinta decisiva a questa industria si ebbe nel 1430 quando Fornovolasco passò dal dominio lucchese a quello modenese. Grandi progetti aveva per questi luoghi il duca estense Ercole I, che venne personalmente a visitare queste siti e in
Ercole I d'Este
colui che incentivò le miniere
di Fornovolasco
particolare il sito delle "Bugie". Le intenzioni del duca erano serie, voleva rompere il monopolio della lavorazione del ferro delle valli lombarde e cosa più importante voleva rinnovare completamente le munizioni dell'artiglieria modenese con l'intenzione di sostituire le pietre da bombarda con palle metalliche, per questo scopo furono chiamati (ecco quando la verità storica abbraccia la leggenda) mastri forgiatori dalle valli bresciane e bergamasche. L'incarico di portare nuove innovazioni nelle strutture e nelle tecniche estrattive fu dato a mastro Iacomo Tacchetti da Gerla di Valtellina, ambito dalle signorie di mezza Italia. L'aumento di lavoro in questa miniera, è bene dirlo, portò da una parte indubbi vantaggi economici, ma dall'altra aumentò maggiormente lo sfruttamento dei lavoratori. Le miniere infatti appartenevano al Ducato che comprava per pochi soldi il ferro estratto dai minatori di Fornovolasco e come se non bastasse, concedendo le licenze di scavo nei territori ducali, pretendeva nuovamente altri soldi per il pagamento dei diritti di escavazione. Questa situazione portò ad un periodo nefasto, per guadagnare ancora di più la gente cominciò a scavare in maniera disordinata, si aprivano cunicoli, gallerie, piccoli anfratti in ogni dove, provocando frane in tutto il sito, frane che causarono vittime su vittime, questo avrebbe compromesso anche lo stesso sito,  ma prima che la situazione sfuggisse di mano lo stesso duca corse ai ripari, chiamando ancora
Sito minerario delle "Bugie" oggi
(foto tratta Speleoclub Garfagnana C.A.I)
nuovi mastri che regolamentassero gli scavi e che mettessero in sicurezza le gallerie. Insomma a quanto pareva (industrialmente parlando) tutto andava a gonfie vele, nella zona agli inizi del 1500 si potevano già contare tre ferriere esistenti a Fornovolasco, alle quali si aggiunse un forno ducale e anche una fabbrica per la lavorazione del ferro a valle del paese. Oscuri presagi però si affacciavano all'orizzonte... Se da una parte si raggiunsero picchi produttivi che neanche le valli lombarde avevano mai raggiunto, dall'altra invece non si riusciva a dare una certa continuità alla produzione, per due motivi: la scarsità di materiale dentro le miniere e quello che preoccupava di più era la penuria di combustibile, i boschi nelle vicinanze che fornivano legna per i forni ormai erano tutti diradati, le montagne quasi tutte "pelate" e questo fu la causa maggiore che portò al progressivo declino di Fornovolasco. Ma intanto c'era ancora spazio per la gloria, al tempo rimase nella memoria di tutti la visita alle miniere di Sua Eccellenza Illustrissima il Governatore della Garfagnana messer Ludovico Ariosto, che di quella visita scrisse:


Lo scoglio, ove il sospetto fa soggiorno,
alto dal mare da seicento braccia, e ruinose balze cinte intorno,
Ludovico Ariosto
governatore di Garfagnana

e da ogni parte il cader moinaccia:
il più stretto sentier, che guida al Forno, 
la dove il Garfagnin il ferro caccia

Diciamo che la visita dell'Ariosto chiuse per sempre un periodo pieno di speranze e illusioni. Nei secoli a venire si alternarono periodi di fiducia e di altrettanto sconforto. Nel 1636 gli Estensi diedero il via ad un nuovo progetto in Trombacco(a tre km da Fornovolasco) attivando uno nuovo scavo per una nuova miniera che sembrava foriera di nuove prospettiva. In realtà il materiale era scarso e l'attività quindi durò circa dieci anni. Nel 1702 sul sito minerario delle "Bugie" venne usata una nuova tecnica di scavo: la polvere da sparo, questa innovazione che in un colpo solo faceva il lavoro di cento uomini portò alla riattivazione delle miniere(che già erano state chiuse negli anni precedenti) e dei forni di Trombacco e Fornovolasco, ma dopo pochi anni il filone si esaurì, bisognò ricorrere di nuovo al ferro dell'Isola d'Elba.
Il 1800 portò poi una sostanziale novità, cessarono tutte quelle licenze a persona che negli anni portarono alla morte di molte
Palazzo Roni a Vergemoli
La famiglia del monopolio
del ferro di Fornovolasco
persone, era cominciata l'epoca delle rivoluzioni industriali, sparirono così i piccoli cavatori "ad uso familiare" e subentrarono gli imprenditori. In questa ottica già negli anni precedenti la famiglia Roni di Vergemoli aveva capito da quale parte stava andando il mondo, riuscendo ad accaparrarsi il monopolio delle miniere di ferro, ma i tempi belli come detto erano passati. Oramai Fornovolasco per le insufficienti vie di comunicazione e l'affermarsi di nuove tecnologie non riuscì più a stare al passo con i tempi. Comunque non si volle "mollare l'osso" e altri tentativi furono ancora fatti. Si ritentò ancora di estrarre nel martoriato sito delle "Bugie". Insigni geologi ed esimi ingegneri elaborarono un piano a dir poco ambizioso che prevedeva la riapertura delle gallerie e il trasporto del minerale attraverso una funivia che portava direttamente a Gallicano, dove (nel progetto) sarebbe giunto un troncone della ferrovia...Le intenzioni erano ottime, ma i risultati però non furono all'altezza. Di li in poi fu un continuo "tentar di levare il sangue dalle rape". Negli anni si susseguirono industrie come la Calceramica insieme alla Montecatini (1913), poi nonostante un periodo di estrazione piuttosto intenso le miniere passarono nel 1950 alla Desideri e Severi di Colle Val d'Elsa, dal 1952 al 1972 subentrò l'IMSA di Roma e infine nel 1973 l'EDEM, anch'essa di Roma che dopo vari tentativi di convertire
Oggi le miniere di Fornovolasco
si presentano così
(Foto tratta da Speleoclub Garfagnana C.A.I)
produzioni e altri esperimenti similari decise di chiudere per sempre tutto e le miniere vennero definitivamente abbandonate.

Quello che rimane di questa storia non sono le miniere e nemmeno la loro interessante storia, quello che rimane di questo articolo sono quelli che Charles Dickens definiva "i perseguitati dell'inferno": i minatori. Una vita breve ed intensissima. La maggior parte di loro non raggiungeva i cinquant'anni d'età, morti di lavoro a causa dei crolli e di intossicazioni polmonari. La loro morte nella comunità non destava nemmeno stupore, era la
Bambini minatori
in Pennsilvanya (U.S.A)
normalità. Insieme a loro (come abbiamo letto) i bambini, usati come cavie da esplorazione, la maggior parte di loro si perdeva nei cunicoli delle grotte, non riusciva più a far ritorno alla luce, morti al buio, di freddo e di fame. A tutti loro va il nostro pensiero...





Bibliografia

  • "Le miniere di Fornovolasco" a cura dell'Associazione Buffarello Team
  • "Breve storia del lavoro in miniera" Mursia 1973