mercoledì 27 ottobre 2021

I mille modi per cucinare farina di neccio e castagne. Storia e curiosità di ricette secolari

Fu lei la prima a capire tutto e fu sempre lei a comprendere l'importanza
fondamentale di quel frutto autunnale: la castagna. Matilde di Canossa la possiamo considerare senza dubbio alcuno un personaggio di assoluto rilievo, in un'epoca in cui le donne erano considerate di rango inferiore. Era lei la Grancontessa, la Vice Regina d'Italia, che nel 1076 entrò in possesso di uno dei più vasti feudi italiani che comprendeva la Lombardia, l'Emilia, la Romagna e la Toscana. In quei luoghi cominciò a governare con pugno fermo, saggezza e lungimiranza. Quella stessa lungimiranza che la portò ad intuire il valore che poteva avere la coltivazione del castagno, come base per la sopravvivenza alimentare di quelle popolazioni che vivevano sulla montagna, proprio com'era la nostra Garfagnana, terra sotto i suoi domini. A favore di questa coltivazione emanò una serie di regolamenti che portarono al disboscamento delle querce già esistenti, che vennero poi sostituite dai castagni e da veri e propri castagneti che fornirono agli abitanti dei suoi possedimenti una fonte di sostentamento certa. Ma non solo, la Grancontessa si affidò anche alla sapienza dei monaci che con il loro dotto sapere studiarono misure agronomiche per una maggior produttività del 
Matilde di Canossa
castagno stesso, un criterio che ancora oggi viene definito "sesto d'impianto matildico", dove le piante di castagno allevate in forma libera sono disposte a vertici di triangoli sfalsati ad una distanza di circa dieci metri. Con questo sistema si poteva anche sfruttare l'erba del sottobosco quale pascolo per i greggi, in questo modo le pecore avrebbero tenuto pulita la selva e la raccolta delle castagne sarebbe stato più agevole... come si suole dire due piccioni con una fava, ed eravamo nel XI secolo. Insomma, in questo caso Matilde di Canossa fu la spinta per altri politici e regnanti che nei secoli e nelle guerra a venire si insediarono al comando della Garfagnana. Difatti un altro sovrano (in tal senso) illuminato fu Paolo Guinigi, Signore di Lucca, che istituì nel 1487 "l'Offizio sopra le Selve", questo nuovo ente doveva vigilare sui castagneti e doveva far si che queste piante dovessero essere curate con ogni dovizia e sotto ogni aspetto, dato che, in questo modo il castagno avrebbe dato "
cultivazioni più idonee alla produzione di farina buona e serbevole", infatti si riteneva, a giusta ragione, che tale squisitezza avrebbe sfamato una famiglia per gran parte dell'anno. Tutto considerato, visto quello che abbiamo letto possiamo sgombrare il campo da ogni dubbio e dire che la moltitudine di ricette in cui viene impiegata la farina di castagne nacquero proprio in quel
Paolo Guinigi
lontano periodo storico. Le svariate maniere con cui veniva trattata la farina di neccio trovò il bisogno naturale nel garfagnino di diversificare il più possibile la dieta alimentare con i prodotti che la natura offriva, la base sarebbe sempre rimasta la castagna o la sua farina, ma le varianti culinarie diventarono un'infinità. Così, in questo modo, le tullore, i bollocciori, la vinata (e tante altre preparazioni ancora) sono arrivate sulle nostre tavole. Oggi queste bontà della nostra cucina le possiamo considerare senza dubbio un di più, uno sfizio, nonchè una vera e propria golosità, ma in quei tempi andati furono vero e proprio pane per la gente di Garfagnana. Guardiamo allora la storia e i mille modi in cui possiamo trasformare in vera prelibatezza la farina di neccio e le castagne. Innanzitutto andiamo ad indagare sul termine principe e guardiamo il significato della parola "Neccio", riferito proprio alla ghiotta farina. Dobbiamo dire che la derivazione è incerta, è credibile pensare che (così come dice il dizionario etimologico)il vocabolo abbia un etimo latino da "castanea" o da "castaneccio".
Fatto il doveroso preambolo sulla provenienza di tale nome esaminiamo la preparazione per eccellenza: i
l Castagnaccio. Questa assoluta bontà è una fra le più diffuse in tutta Italia, ma è bene sottolineare che la paternità è nostrale. Di solito queste appartenenze culinarie ce le concediamo con "motu proprio", ma questa volta, questa ricetta ci venne attribuita nel 1553 dal frate agostiniano Ortensio Landi di Piacenza nel "Commentario delle più notabile et mostruose cose d'Italia e altri luoghi", infatti ci narra che "Pilade da Lucca fu il primo che facesse castagnazzi e di questo ne riporto loda". Quel Pilade il castagnaccio lo faceva sicuramente con la farina di castagne della vicina Garfagnana: stacciava un mezzo chilo di farina dolce (per una dose-famiglia) e la metteva in una zuppiera, aggiungeva un paio di
Castagnaccio
cucchiaiate d'olio d'oliva, un pizzico di sale e ci versava quasi un litro d'acqua fredda rimescolando sempre, fino ad ottenere una composto piuttosto liquido. Prendeva una teglia, l'ungeva d'olio e ci versava il suddetto composto. Generosa dose di zibibbo, pinoli e noci spezzettate e quindi in forno. Quando il colore era diventato di un bel "marrone castagnaccio" e la crosta croccante, il castagnaccio di Pilade era cotto. Diciamo che questo, come si direbbe oggi fu uno dei primi "street food", ossia del cibo da strada e a conferma di ciò Vincenzo Tanara (agronomo)nel 1644 ci parlava dei "castagnazzi da strada" 
elencando anche varianti oggi impossibili, che prevedevano l’aggiunta di grana grattugiato o di cacio grasso e tenero. Inoltre leggenda dice che lo stesso castagnaccio sia un dolce legato all'amore; che si comporti come un filtro magico e qualunque ragazza che lo porti in dono all'innamorato si assicuri il suo affetto e la sua fedeltà in eterno. Invece "Il Neccio", la classica frittellona arrotolata ripiena di ricotta, era il pasto freddo dei 
Il neccio
carbonai e dei boscaioli garfagnini. La più antica ricetta dei necci racconta che venivano cotti fra testi di pietra arenaria. Stessa finalità aveva "la Pattona di Trassilico", questa preparazione era la classica "merendina" dei trassilichini che andavano a lavorare nel bosco, la sua preparazione però differiva da quella dei necci, 
vedeva sempre un'impasto di farina di castagne, mele a pezzetti, noci, nocciole e fichi secchi sminuzzati. Del tutto si facevano delle palline che venivano poste dentro delle formine e infornate. Il giorno dopo sarebbero state pronte per la veloce merenda del taglialegna. Curiosa invece l'origine del vocabolo "pattona", pare che il nome derivi dal latino "pactus", ossia "compatto", compatte come le palline di questa ricetta. Questa invece è una ricetta per
La pattona
stomaci forti. Il nome è già un preludio: la Vinata. La sua preparazione è antichissima, di solito veniva offerta dopo cena quando gli amici venivano "a veglio" intorno al caminetto, serviva anche per combattere il freddo pungente della Garfagnana quando nelle case contadine il riscaldamento era una lontana chimera, ma non solo, i vecchi dicevano che avesse anche proprietà terapeutiche: "polpava (n.d.r: ammorbidiva) la tosse". Comunque sia l'antica ricetta diceva che nel paiolo bisognava fare una polenta "scria, scria" (n.d.r: molle, molle)di farina di neccio e vino picciolo (un vino rosso ottenuto 
dopo una brevissima fermentazione, di colore molto chiaro). Si faceva cuocere per circa mezz'ora e si versava bella fumante nella scodella. Per capire meglio quando la vinata sarebbe stata pronta da servire ci si rifaceva ad un antico adagio:" quando fa plotta, plotta la vinata è bella e cotta". E se nella vinata l'ingrediente di spicco era ed è il vino, nei Manafregoli il componente principe è il latte. Questa preparazione assume svariati nomi (tutti d'incerta origine) nella Valle del Serchio e Garfagnana: manafregoli, brugiaioli o manufatoli, la ricetta tutta via è la solita in qualsiasi modo venga chiamata: si fa bollire l'acqua nel abituale paiolo, si aggiunge poi la farina di 
I manafregoli
castagne, si mescola in maniera continua fino ad ottenere anche qui un composto piuttosto morbido. Dopo circa mezz'ora si serve in una ciotola condita a piacere con latte, ricotta o panna liquida. Adesso guardiamo invece le ricette che riguardano la castagna vera e propria. Un altro antico processo che si faceva per mangiarle era quello di farle essiccare, ed ecco allora nascere la preparazione delle Tullore. Le tullore sono castagne secche ammollate nell'acqua per circa due ore (così perdono bene la pecchia), fatta questa operazione vanno fatte bollire sul fuoco lento con acqua, latte e foglia d'alloro per altre due ore ancora. Si servono calde, o anche fredde nel latte. Questo strano vocabolo (a quanto pare) prende fondamento da un'altra pianta: la canapa (presente in Garfagnana nei tempi antichi)e da una sua parte detta "tiglia", che altro non è che quell'elemento legnoso del fusto che veniva conciato per farne tela, è possibile quindi che per quanto riguarda le castagne tale vocabolo venga inteso come "acconciate", per far si, che poi in tal modo  diventino morbide. Il Balluccioro o
I ballucciori
 Ballotta che dir si voglia è invece la castagna (buccia compresa) lessata nell'acqua con foglie d'alloro e un pizzico di sale. La bizzarra parola si presta a una interpretazione piuttosto esotica, infatti può darsi che il termine derivi dall'arabo "ballut", ossia ghianda. E delle Mondine cosa dire? Le mondine non hanno bisogno di presentazioni, in tutta Italia sono conosciute come caldarroste e in Garfagnana vengono cotte al fuoco dei camini nella classica padella bucherellata a manico lungo. Prima di essere messa al fuoco la castagna deve essere incisa per far si che poi una volta messa sulla fiamma non scoppi; verso la fine della cottura le castagne vanno bagnate con un bicchiere di vino rosso. L'origine del classico nome garfagnino "mondina" è facile a dirsi, difatti trova fonte dalla stessa parola dialettale "mondare", ovvero pelare, sbucciare, proprio quello che si fa una volta che sono cotte. D'altronde è presto detto nel capire perchè storicamente le castagne hanno fatto da vero e proprio pane per la nostra gente. Il valore calorico di questo frutto è difatti piuttosto elevato (165 Kcal/100g) a causa dell'alto contenuto di carboidrati (36,7 Kcal/100g). Il suo beneficio principale da tenere
in considerazione per il fisico è l'alta carica energetica che dà alla persona, per di più sono consigliate per anemia, apatia e stanchezza, inoltre l'alto contenuto di fibre può contribuire a migliorare la funzionalità intestinale. Non a caso Giovanni Pascoli nel 1908 sulle pagine di un quotidiano argentino dedicato ai nostri emigrati ebbe a dire: "Il castagno è il nostro albero del pane. Ci andrebbe messa, in ogni castagno, una croce, come si fa per gli alberi divenuti sacri". 


Bibliografia

  • "Commentario delle più notabili et mostruose cose d'Italia et altri luoghi" di Landi Ortensio, anno 1550
  • "L'economia del cittadino in villa" Vincenzo Tanara , anno 1665
  • "Dizionario garfagnino" di Aldo Bertozzi, edizioni L.I.R, anno 2017 

mercoledì 20 ottobre 2021

Il mistero del passaggio di Annibale e del suo elefante sugli Appennini: Garfagnana? Val di Luce? Passo della Porretta? O chissà dove...

 E' bene essere subito chiari, tutte le teorie che il mio caro
lettore leggerà in questo articolo saranno frutto di supposizioni, ipotesi e presupposizioni. Niente di quello che leggerete è avvalorato da fonti storiche certe o da documenti che convalidino le tesi in questione. Spieghiamo meglio però. In Italia e in tutto il mondo in genere esistono luoghi dove sono accaduti fatti storici di una certa rilevanza di cui però non si conosce l'esatta ubicazione, fattostà che di questi accadimenti, in mancanza di fonti certe, un po' tutti cercano di accaparrarsi la teoria di questo o quello studioso per determinare che lì, in quella precisa zona è accaduto questo o quel fatto. Di solito(quasi sempre direi) succede per avvenimenti storici antichissimi e nella Valle del Serchio di questi casi ne abbiamo addirittura due. Di uno ebbi già occasione di raccontare e narrava le vicende riguardanti la clamorosa sconfitta nel 186 a.C di Quinto Marcio Filippo e delle sue legioni romane contro gli indomiti Apuani. La scontro passò alla storia come la battaglia del "Saltus Marcius". Ma questo "Saltus Marcius" dov'era? Alcuni storici sostenevano che
si trovasse in Versilia nei pressi di Pontestazzemese, altri dicevano che in realtà poteva essere proprio a Marciaso (frazione del comune di Fosdinovo), altri ancora invece 
asserivano che il fattaccio accadde al "Marcione", località poco distante da Castiglione Garfagnana. Insomma, come vedete siamo proprio nel campo delle più svariate congetture, questo però non vuol dire che una delle teorie presupposte sia errata, ci mancherebbe altro, perciò anche le opinioni sull'impresa che andrò a raccontarvi meritano di essere esposte, poichè, anche se non certe, qualche studioso prima di me ha creduto che quella fosse la cosa giusta da asserire. La storia in questione tira in ballo nientepopodimeno che Annibale Barca, il condottiero cartaginese (definito da molti "il più grande generale dell'antichità") e l'ormai celeberrima spedizione di guerra che vide marciare verso Roma centomila soldati e trentasette elefanti. Ebbene, a tutti è noto il fatto dell'attraversamento delle Alpi da parte di Annibale, ma quando al valoroso, nonchè (sottolineerei) coraggioso condottiero gli toccò oltrepassare gli Appennini, da dove passò? Ecco qua che indirettamente, o forse direttamente, entrare in ballo la Valle del Serchio. Prima però di affrontare "il giallo" dell'attraversamento appenninico di Annibale e del suo elefante è doveroso illustrare brevemente l'antefatto che portò il cartaginese ad affrontare questa epica impresa. Quando (tanto tempo fa...) frequentavo la scuola, studiare le guerre puniche era di una noia unica, sarà stato perchè la voglia di applicarsi era poca e forse anche perchè tali vicende erano esposte in qualche maniera dal professore di turno, fattostà che rileggendo oggi quei fatti tutto assume un altro sapore e un
altro interesse. Eravamo infatti nel maggio dell'anno 218 a.C quando proprio agli inizi della seconda guerra punica Annibale lasciò la penisola iberica per puntare direttamente su Roma con 90.000 fanti, 12.000 cavalieri e 37 elefanti. Le cause belliche che spinsero a questa ardita guerra furono essenzialmente tre: 
lo spirito di rivalsa del padre di Annibale, che da bambino gli aveva fatto giurare di fronte agli Dei odio eterno a Roma, l'onta subita dai cartaginesi per la perdita della Sardegna e della Corsica e l'esaltazione per i numerosi successi in terra iberica delle armate africaneIn ogni caso l'attraversamento delle Alpi avvenne verso la fine del 218 a.C; il freddo e la fatica però si fecero sentire penalizzando fortemente uomini e animali, nonostante tutto e con mille sforzi gli indomiti guerrieri raggiunsero la Pianura Padana prima che le nevi bloccassero i passi. Annibale arrivò così in Italia dopo una ventina di giorni di aspri combattimenti con le popolazioni montanare, il risultato di tutto questo tribolo fu pagato a caro prezzo, dato che gli rimasero a sua disposizione "solo" 20.000 fanti e 6.000 cavalieri, con questi uomini nella primavera del 217 a.C il condottiero cartaginese decise malgrado ciò di continuare la spedizione. Oramai però di quei 37 elefanti da guerra il rigido inverno ne aveva uccisi 36 e quando fu deciso di valicare gli Appennini un solo elefante era rimasto vivo, l'animale si chiamava "Surus" ed era l'elefante personale di
Annibale rappresentato
sopra il suo elefante
 Annibale, il povero bestione anch'esso provato morì (come ricordò lo storico greco Polibio) proprio nel discendere queste montagne. In conclusione le perdite subite furono molte per l'esercito cartaginese, bisognava quindi oltrepassare l'Appennino nella maniera più indolore possibile. La scelta del luogo diventava quindi fondamentale per le sorti belliche. Questo fantomatico posto nei millenni e nei secoli che trascorrevano ha colpito molto l'immaginario collettivo, basta vedere solamente la toponomastica italiana, la penisola italiana è piena di ponti di Annibale, passi di Annibale e strade di Annibale, quasi come se ognuno volesse far parte di quella leggendaria impresa, rimane il fatto che sapere da dove i cartaginesi oltrepassarono l'Appennino (e anche le Alpi) rimane un mistero. Di ipotesi accreditabili ce ne sono alcune: una vuole che questo esercito fosse sceso dal Mugello e che avesse attraversato il fiume Sieve, un'altra dice che il passo di Collina presso Porretta fosse il posto giusto, di li raggiungere la piana pistoiese sarebbe stato piuttosto agevole, le altre due tirano in ballo anche le nostre terre. Ci sono infatti studiosi che indicano Foce a Giovo come luogo esatto, di li l'esercito sarebbe sceso nel fondovalle della Valle del Serchio e avrebbe raggiunto Lucca. La più accredita fra queste eventualità rimane però la località oggi propriamente conosciuta come "Passo D'Annibale", il valico a quei tempi era un passaggio già conosciuto e rodato dalle popolazioni
Il passo di Annibale
presso Val di Luce
locali, in più questo cammino offriva alternative viarie diverse e di difficile individuazione da parte di eventuali nemici e in effetti ancora oggi è così, questo passaggio ai giorni nostri è meta di escursionisti e amanti della montagna, si trova a 1798 metri d'altezza e collega le provincie di Modena e Pistoia, da li si domina tutta la Val di Luce, la vista è mozzafiato, si può ammirare il Monte Rondinaio e il Monte Giovo, da qui si diramano una moltitudine di sentieri e uno di questi porta proprio a Foce a Giovo, chissà forse fu da quel punto che Annibale raggiunse Foce a Giovo per scendere poi fino Lucca, o magari è possibile anche che di lì abbia raggiunto altresì la Val di Lima, o come è stato ribadito è probabile che si fossero scelte altre strade alternative. Quello che è certo che l
a primavera di quell’anno fu particolarmente fredda e piovosa e la traversata dell’Appennino fu drammatica, quasi quanto quella alpina. Come narra Tito Livio (n.d.r: storico romano), ci fu un primo tentativo fallito per le terribili condizioni atmosferiche che costrinsero il condottiero a ritornare indietro con il suo esercito.  Il fatto incontestabile è anche un altro e ce lo descrive ancora Tito Livio e dice che una volta discesi gli Appennini "il punico" si trovò davanti a sè un altro ostacolo: il fiume Arno ("fluvius Arnus per eos dies solito magis inundaverat"), il fiume tanto caro a Firenze era straripato, bloccando così la strada da percorrere, malgrado ciò il suo esercito non potè invertire la marcia, dato che il cammino in quel tratto d'Arno era troppo stretto per far mutare "rotta" a ventimila soldati. Anche su questo particolare evento rimane però un alone di mistero, capire in quale punto fosse esondato l'Arno avrebbe potuto aiutare a comprendere da quale zona delle montagne 
Il percorso del Fiume Arno
 appenniniche i cartaginesi sarebbero eventualmente discesi, ma purtroppo anche questo non c'è dato da sapere. 
Tuttavia in tutto questo bisogna considerare che le varianti possibili per individuare il luogo esatto sono molte, conoscendo le indubbie qualità strategiche di Annibale che analizzava ogni cosa c'è da chiedersi quali strategie poteva aver adottato per valicare in tutta sicurezza l'Appennino? Sicuramente nell'ozio dei campi invernali dell'Emilia nell'attesa della primavera Annibale inviò in Toscana delle pattuglie a cercare le vie migliori per scegliere l'opzione più consona al suo cammino verso sud. Quello che è certo che furono scartate come possibilità di attraversamento i passi appenninici nei pressi di Arezzo e Rimini, più facili da attraversare vista la conformazione del territorio, ma per questo ben vigilati dalle legioni romane. Si può comunque dire che Annibale prima di partire per l'impresa, conosceva già perfettamente la situazione viaria per valicare il nostro Appennino. Certamente sapeva anche quali fossero le vie presidiate dai Romani e quali no. E in base anche a questa certezza l'attraversamento della Garfagnana dai suoi passi appenninici fu presa in considerazione? Io direi proprio di si, con ogni probabilità la Garfagnana fu presa in considerazione per questa ardimentosa operazione militare, il perchè è presto detto. Sappiamo che in questa seconda guerra punica i Galli e altre popolazioni del nord aderirono quasi in massa all'esercito cartaginese e fra loro c'erano anche i nostri lontani avi: i Liguri Apuani. Ad onor del vero molti di loro parteciparono come mercenari e altri ancora proprio come guide, assunte specificatamente per attraversare l'impervie montagne, è
Liguri Apuani
 plausibile poi che queste guide abbiano proposto ad Annibale la sua discesa nell'attuale Garfagnana. Gli Apuani vista la loro alleanza con i cartaginesi gli avrebbero garantito di passare nei propri territori in maniera indenne, visto che queste zone (in quel momento) erano libere da infiltrazioni romane, da lì raggiungere l'Arno (forse) presso Pisa sarebbe stato poi un gioco da ragazzi. Allora dove fu l'inghippo? Probabilmente l'inghippo fu puramente strategico, bisognava che questa marcia di valico fosse la più rapida possibile, appena fosse stata svelata la direzione da intraprendere bisognava fare questo viaggio in maniera velocissima, in tale modo il nemico non avrebbe avuto il tempo di organizzarsi e muovere contro lo stesso Annibale, per fare questo il tempo concesso era al massimo quattro giorni, in quei termini la missione doveva essere compiuta, infatti Tito Livio ricorda che i militari cartaginesi per attraversare l'Appennino marciarono di notte e in maniera celere: "le veglie sopportate quattro giorni e tre notti". La struttura del territorio garfagnino però non lo avrebbe permesso, considerando che quella stessa struttura territoriale che faceva da difesa per gli Apuani, per i cartaginesi sarebbe diventato un ostacolo insormontabile: le aspre montagne, le gole, i dirupi e l'assenza di strade ben marcate avrebbe fatto si che passare con un tale esercito ed un elefante in quelle zone sarebbe stato un compito praticamente impossibile da affrontare. Come poi andò a finire la storia lo sappiamo tutti. La seconda guerra punica durò ben 15 anni (218 a.C- 202 a.C), Annibale non raggiunse mai Roma, in quegli anni le sue scorribande colpirono in tutto il centro e sud Italia e nell'autunno del 203 a.C il senato cartaginese, sotto la pressione dell'invasione di Scipione, diede ordine ad
Scipione l'Africano
Annibale d'imbarcarsi e tornare in Africa, il condottiero apprese con amarezza queste decisioni e lo storico Howard Scullard scrisse che: "egli abbandonò l'Italia invitto, con più tristezza di un esule che la lascia la terra natale. Era fallita l'impresa a cui aveva dedicato una vita".

Bibliografia

  • "Ab Urbe condita CXLII". La storia di Roma dalla sua fondazione, Tito Livio, 1a edizione tra il 27 e il 14 a.C

mercoledì 13 ottobre 2021

Garfagnana: terra di lupi, briganti e... di preti. Vescovi, cardinali, esimi letterati e un quasi Papa

Una volta si diceva che la Garfagnana era terra di lupi e di
briganti e io aggiungerei anche di preti... A questa affermazione corrisponde una ragione storica che non ha nulla a che vedere con un qualcosa di divino, non siamo stati e mai lo saremo una sorta di "terra promessa" scelta da Dio, da dove pescare anime pure e candide per diffondere la parola del Vangelo al mondo... Tutt'altro... Nei secoli scorsi in Garfagnana si sceglieva di fare il prete non solo per vocazione, ma per mestiere, avere un prete in famiglia era un risollevarsi dalla miseria quotidiana, avrebbe portato denaro e prestigio all'interno del proprio focolare domestico. Succedeva infatti che anche le famiglie garfagnine più povere spesso investivano tutti i propri averi sul figlio maschio dotato (fra tutti gli altri fratelli)di un intelletto un po' più spiccato. Si decideva allora di farlo studiare nei seminari di Massa e Castelnuovo nella speranza di vederlo tornare a capo di qualche parrocchia locale. Lo sappiamo bene che nei tempi andati le esimie personalità dei nostri paesetti erano il sindaco, il maresciallo dei carabinieri, il dottore e il prete... Difatti da censimenti fatti
nei tempi passati risulta che la maggioranza dei sacerdoti locali non veniva dalle famiglie abbienti, da li uscivano avvocati, medici e professionisti vari, dalle famiglie povere si generavano contadini e se quei figli non diventavano contadini sarebbero divenuti con buona probabilità dei preti. Questo fenomeno non fu un fenomeno temporaneo ma nacque secoli e secoli fa, fra tutti questi ci fu una moltitudine di preti locali che lasciarono il segno 
"solamente" nelle proprie parrocchie e di cui purtroppo talvolta non sono giunte notizie, ai posteri infatti sono arrivate informazioni su quegli illustri garfagnini diventate personalità all'interno della chiesa cattolica romana: vescovi, cardinali, dotti sacerdoti letterati e perfino un quasi... Papa. Guardiamo allora chi erano e partiamo dal lontano XV secolo. Se non il primo (in ordine di tempo) Nicola Sandonnini fu tra i primi prelati d'alto rango di marca garfagnina. L'illuminato (futuro) principe della chiesa nacque a Piazza al Serchio nel 1422, le sue prime notizie lo danno a Roma nella figura di segretario di Papa Paolo II. Riconosciute le sue doti il Papa lo nominò a soli 39 anni vescovo di Modena. La sua nomina però fu osteggiata dal duca modenese Borso d'Este che si oppose all'ingresso nell'arcivescovato per i pessimi rapporti fra Modena e la Repubblica di Lucca. Le minacce papali d'interdire Modena dai divini uffici fecero cambiare idea al regnante estense e 
Borso d'Este
dopo cinque anni di dissidi il Sandonnini prese possesso della diocesi. Abilissimo nell'arte della diplomazia svolse delicati incarichi per svariati papi. Non si dimenticò nemmeno della sua terra natia,  dove fece costruire la chiesa parrocchiale  nella quale si trova la lapide che lo ricorda. Alla sua morte nel 1499, al suo funerale erano presenti principi e re venuti da ogni dove, fra i presenti Ferdinando Re di Napoli. Non solo il Sandonnini, Modena fra le sue braccia accolse anche Pellegrino Bertacchi nato a Camporgiano nel 1567. Nominato prete giovanissimo nel 1610 divenne vescovo di Modena. Innamorato della sua terra, prima dell'insediamento nella citta emiliana ottenne il permesso dal Papa di celebrare la sua prima funzione da vescovo nel duomo di Castelnuovo. In quei due giorni che rimase nella cittadina garfagnina prima di raggiungere Modena amministrò il sacramento della Cresima a cinquemila fanciulli. A Modena venne accolto con altrettanto entusiasmo. Prese possesso così del suo alto mandato e si fece subito notare per le sue severe regole riguardanti il clero: si proibiva ai prelati il gioco delle carte e il possesso di qualsiasi arma. Unico suo neo, così si diceva, il canto ecclesiale, si racconta che fosse stonato come una campana . Mori nel 1627, le sue spoglie sono sepolte nella cattedrale di Modena. Questa invece è la storia del quasi Papa. 
Lui era Pietro Campori nato a Castelnuovo Garfagnana nel 1553.Pietro era un passo avanti a tutti i suoi coetanei, tant'è che si credette utile mandarlo a studiare a Lucca gli studi classici  e poi successivamente a Pisa dove ottenne la laurea in utroque (n.d.r: laurea che veniva conferita nelle prime università europee che indica i dottori laureati in diritto civile e in diritto canonico). Per uno con le sue capacità intellettive all'epoca una delle poche strade percorribili era dedicarsi al sacerdozio e così vocazione fu. Infatti fu una mirabolante escalation la sua, salì in maniera veloce tutti i gradini ecclesiastici, fino a sfiorare alla morte di Papa Paolo V, nel 1621, l'elezione a Sommo Pontefice. Ma andiamo per gradi
Pietro Campori
e cerchiamo di raccontare in maniera piuttosto breve come andarono le cose. Pietro giunto a Roma assunse una posizione influente nella potentissima famiglia Borghese, che già al soglio pontificio aveva un proprio componente, Paolo V (al secolo Camillo Borghese).Alla corte dei Borghese, il Campori assunse in un primo tempo la segreteria personale del cardinal 
Scipione Borghese, poi divenne  maggiordomo e con tale qualifica non solo ebbe conoscenza di tutti gli affari dei Borghese, ma addirittura assunse la gestione dei loro traffici. Era diventato il personaggio più importante di tutto l'entourage della famiglia. Le onorificenze per Pietro Campori si sprecavano, compreso il giorno in cui Papa Paolo V, il 19 settembre 1616, lo elevò alla porpora cardinalizia (si riferisce di ricchi omaggi al nuovo cardinale da Modena, Castelnuovo e Lucca).Arrivò poi il giorno (28 gennaio 1621) che Paolo V morì e qui si aprì una lotta fra famiglie per portare Papa un proprio rappresentante. Già il defunto Papa aveva fatto capire che il Campori doveva (e sottolineo doveva) essere eletto Papa, addirittura si credette che inizialmente il cardinale garfagnino avesse forze sufficienti per essere eletto per adorazione (n.d.r: senza votazioni) ma l'altrettanto influente famiglia Orsini mise il bastone fra le ruote. Il cardinale Orsini procedette energicamente a radunare un partito per l'esclusione di Campori, poteva contare su alcuni cardinali importanti e sull'appoggio dei rappresentanti di Francia e Venezia. Mentre Pietro poteva contare sugli ambasciatori di Spagna e Toscana. La cosa poi degenerò, si rincorsero voci gravissime contro il Campori che lo dipingevano uomo indegno, macchiato di gravi peccati giovanili e si disse addirittura che avrebbe comprato i voti dei cardinali d'Este, dandogli in cambio, una volta Papa, la restituzione del ducato di Ferrara. Comunque sia alla chiusura della porta del conclave la situazione era totalmente incerta. Per soli tre voti Pietro Campori non diventò Papa e così solo dopo un giorno di conclave Alessandro Ludovisi con il nome di Gregorio XV salì sulla cattedra di Pietro con buona pace di tutti. Ci furono poi quei prelati che dedicarono la loro carriera ecclesiale non alla scalata al potere, ma bensì all'intelletto e alla cultura, Don Domenico Pacchi ne è il classico esempio. Nacque a Villa Collemandina il 16 dicembre 1733. Rimasto da bambino orfano di padre, fu affidato alle cure dello zio Michelangelo Pacchi parroco a Molazzana, sotto la sua ala protettrice lo zio insegnò al piccolo il latino (a otto anni lo scriveva già correttamente). Insomma il piccolo Domenico era dotato di
un'intelligenza acutissima, tant'è che dapprima (a soli 15 anni) fu mandato a Firenze per approfondire gli studi e poi a Bologna dove si perfezionò in teologia e in filosofia. A 24 anni era già di ritorno in Garfagnana, venne ordinato sacerdote nel duomo di Castelnuovo. Numerose le opere da lui scritte fra tutte rimarrà la più famosa: "Ricerche historiche sulla provincia di Garfagnana", pietra miliare per chiunque s'interessi di storia locale. L'ultima sua ultima opera delle già 600 scritte la pubblicò ormai ottantanovenne. Mori a 92 anni nel 1825. E, se così come abbiamo letto, il Pacchi eccelleva nella scrittura, Monsignor Bartolomeo Grassi spiccava nella musica. Bartolomeo nacque nel 1846 alla Villetta (San Romano) i titoli a lui conferiti nel corso della sua carriera ecclesiale furono molteplici: Cameriere d'Onore di Sua Santità, Canonico di Santa Maria Maggiore ad Martyires, socio dell'Accademia Pontificia dei nuovi lincei, ablegato apostolico del cardinale Place arcivescovo di Rennes, decorato della Legion d'Onore in Francia e dell'Ordine di Leopoldo del Belgio. Ma la sua vera passione era la musica, anche questa passione venne nobilitata da altrettanti riconoscimenti, conquistando nel 1881 il Gran Premio di Milano, nel 1885 ad Anversa durante l'esposizione universale gli venne conferita la massima riconoscenza per l'insegnamento musicale. Ma il fiore all'occhiello fu una sua invenzione di una nuova tastiera cromatica e di un nuovo sistema di scrittura degli spartiti. Morì nel 1904 a soli 58 anni in un drammatico incidente durante i lavori di restauro della chiesa della Villetta. C'è anche chi fu amico di poeti, e che poeti! Di lui scrisse Giovanni Pascoli: "Mi ha scritto monsignor Sarti, dicendomi che, quando morirò, Gesù mi verrà incontro a braccia aperte". Andrea Sarti vescovo di Guastalla nacque a Rontano e morì durante la prima guerra mondiale. Molte persone invece si ricorderanno ancora del Cardinal Paolo Bertoli, nato a Poggio di Garfagnana nel 1908, l'alto prelato fu un vero giramondo, un vero e proprio globe trotters della chiesa cattolica. A ventitrè anni fu ordinato sacerdote e tre anni dopo lo troviamo già segretario della Nunziatura apostolica di Belgrado. Sarà l'inizio di un lungo peregrinare per tutti i paesi del mondo. Nel 1942 arrivò a Parigi dove strinse importanti conoscenze, alcuni anni dopo trovò incarico come addetto agli Affari Esteri ad Haiti, poi messaggero di Pace in Svizzera. Nel 1952
Cardinale 
Paolo Bertoli
 delegato pontificio in Turchia, l'anno seguente si insediò in Colombia per seguire da vicino lo sviluppo religioso della nazione. Lì rimase sei anni, lo ritroviamo nel 1959 in Libia come Nunzio Apostolico, dopodichè gli fu conferita la prestigiosa Nunziatura di Parigi. Il 1969 fu l'anno della nomina a cardinale, concessa da Paolo VI, successivamente fu investito del mandato di Prefetto della Congregazione dei Santi e Camerlengo di Santa Romana Chiesa. Alla morte di Paolo VI si parlò anche di una sua probabile elezione a Sommo Pontefice. Morì a 93 anni nel 2001. Per ultimo ecco Don Antonio Fiorani, il classico prete di campagna, portato d'esempio per tutti quei sacerdoti che rinunciarono a qualsiasi carriera per rimanere legati alla propria terra e alla propria gente. Antonio Fiorani nacque a Casatico nel 1876, poeta, commediografo, un personaggio celebre, le cui opere hanno interessato i maggiori intellettuali e critici nazionali. Nato da genitori contadini fu ordinato sacerdote agli inizi del secolo e inviato a Vergemoli dove rimase per per ben 40 anni. La sua fu una sorta di missione in quel piccolo paese che era privo di conoscenza delle più elementari cognizioni di cultura, dovute in buona parte all'isolamento geografico. Negli anni successivi fu chiamato come insegnante di latino e italiano nel seminario di Castelnuovo, rifiutò di trasferirsi in sede preferendo compiere per tre volte alla settimana, per ben 19 anni, una ventina di chilometri a piedi pur di rimanere a Vergemoli. Il destino lasciò un segno indelebile nella storia del piccolo borgo: Don Antonio arrivò nel paese il 17 giugno 1900 e lì vi morì il 17 giugno 1940. L'articolo poi potrebbe continuare ancora, molti altri preti locali lasciarono il segno del loro passaggio e non esiste un paese in Garfagnana che qualcuno non ricordi il prete di una volta...

Bibliografia

  • "Profili di uomini illustri della Valle del Serchio e della Garfagnana" di Giulio Simonini, Comunità Montana della Garfagnan, Banca dell'Identità e della Memoria, anno 2009