mercoledì 30 dicembre 2020

Cronaca di feste natalizie garfagnine in tempo di pandemia...era il 1918...analogie e similitudini

Rosso, giallo, arancione, spostamenti, congiunti
"coprifuoco" e 
cenone. Tutta una serie di parole che possiamo condensare in una sola espressione: d.p.c.m Natale 2020, ovverosia (superfluo spiegarlo), tutte quelle buone norme che regolamentano i comportamenti da attuare con l'attuale pandemia in corso. D'altronde è ben comprensibile come non sia semplice, soprattutto per le festività natalizie rispettare certe regole. Tali festività significano (anche) unione, aggregazione, affetto, contatto. Purtroppo per quest'anno sono tutte realtà di difficile attuazione, però il mio animo e il mio cuore si risollevarono quando qualche giorno fa lessi questo appello: "Quest'anno- così vi era scritto- mostrerete più amore per vostro padre e vostra madre, per vostro fratello, vostra sorella e il resto della famiglia rimanendo a casa anzichè andandoli a visitare per Natale o tenendo feste o riunioni familiari". Quest'appello non era di un qualsiasi Presidente del Consiglio di turno, nemmeno del virologo di fama mondiale e nemmanco di un qualsivoglia ministro della salute. Sembrerà strano, ma ad onor del vero, non è nemmeno un appello del 2020... Queste parole hanno 102 anni e il 21 dicembre 1918 le scrisse sul quotidiano americano "Ohio State Journal" il Commissario della Sanità locale. Era infatti da poco tempo che una nuova pandemia aveva affetto tutto il mondo. Questa pandemia verrà conosciuta da tutti come influenza "Spagnola", un virus che causò cinquanta milioni di morti circa. Già
qualche tempo fa ebbi modo di scrivere della Spagnola, degli effetti che ebbe in Garfagnana, di come fu combattuta e quali accorgimenti presero i sindaci della valle per combatterla (se vuoi leggere quell'articolo clicca di seguito:http://paolomarzi.blogspot.com/2017/11/cent-fa-la-febbre-morte-e-malattia.html). A distanza di qualche anno sono voluto tornare sull'argomento e l'ho voluto affrontare da un altro punto di vista (più che mai attuale) e allora mi sono incuriosito, mi sono informato, ho letto e ricercato e ho tentato di fare un parallelo fra le feste natalazie che stiamo vivendo oggi sotto la minaccia del Covid 19 e il Natale dei nostri nonni garfagnini ai tempi dell' "influenza spagnola". Guardiamo allora come si arrivò a quel tragico Natale 1918. Nell'ottobre di quell'anno l'Italia era stremata, la
prima guerra mondiale però ormai era agli sgoccioli, giorni comunque sia difficili quelli. Ma non erano giorni difficili solo per chi era al fronte, erano
 giorni complicati anche per chi era rimasto a casa e nei paesi. Difatti era già dall'estate appena trascorsa che sulla Penisola si era abbattuta una seconda ondata di un'influenza detta "la spagnola"... e purtroppo stava anche facendo più morti della guerra... Il 4 novembre del medesimo anno la guerra finì, l'Italia usciva da questo conflitto con le ossa rotta, ma vittoriosa. Era anche arrivato il momento che i nostri soldati facessero ritorno alle proprie case. Molte famiglie in Garfagnana poterono così  riabbracciare i loro cari partiti per il fronte, un po' alla volta rientrarono anche i prigionieri dai campi di prigionia austriaci, la felicità di tutta la popolazione era alle stelle... Ma il vero dramma stava per cominciare e si scatenerà proprio con il ritorno di quei ragazzi nelle proprie case, difatti furono proprio quei soldati che rientravano nei propri paesi e nelle proprie città il veicolo
principale della diffusione del virus in tutto il mondo. Da quel novembre ci fu per tutti la consapevolezza di essere sopravvissuti a un qualcosa di terribile come la guerra, ma un male ancor peggiore si era ormai insinuato in ogni dove. Nella prima ondata di quella primavera, come già accennato, il virus era passato quasi inosservato, il nuovo picco di settembre non poteva però essere ignorato. Quattro milioni e mezzo di contagi e seicentomila morti colpirono la Nazione, proprio in quelle tredici settimane da settembre a quel maledetto Natale. Lo Stato doveva reagire. Il prefetto di Massa su indicazione del governo centrale il 17 ottobre pubblicò un decalogo da affiggere nel Circondario di Castelnuovo Garfagnana e nei suoi mandamenti": "
Fare gargarismi con acque disinfettanti (dentifrici a base di acido fenico, acqua ossigenata), non sputare per terra, viaggiare in ferrovia il meno possibile, diffidare dei rimedi cosiddetti preventivi, evitare
contatti con persone, non frequentare luoghi dove il pubblico si affolla (osterie, caffè, teatri, chiese). Così facendo si mette in pratica l’unico mezzo veramente efficace contro l’influenza, l’isolamento
". In tutta la Garfagnana si diede il via ad una campagna di disinfezione dei luoghi pubblici. L'inizio della scuola (che al tempo cominciava il primo ottobre)venne posticipato a data da destinarsi, venne ridotto l'orario d'apertura dei negozi, con le sole farmacie a beneficiare di un allungamento dei turni. Cinema e teatri vennero chiusi. Il governo decise però di non chiudere le fabbriche, i mille operai della S.M.I di Fornaci di Barga si spostavano da tutta la valle, le occasioni di contagio così si moltiplicavano, la distanza non poteva essere rispettata, gli operai in questo modo si ammalarono, facendo crollare inesorabilmente la produttività. Insomma anche al tempo le regole da rispettare c'erano, eccome. A differenza di oggi però è bene sottolineare che una buona parte della popolazione garfagnina aveva un orizzonte esistenziale molto più ristretto che quello attuale. Per molti, in quel 1918 lo
Stato era ancora una realtà astratta, distante, che si presentava soltanto per le tasse e la leva militare, esisteva allora una certa diffidenza, una certa distanza dalla istituzioni ma nonostante tutto anche cent'anni fa ci s'interrogava di come si sarebbero passate le feste in quella situazione eccezionale. I garfagnini però non se ne facevano un cruccio eccessivo, anche perchè le occasioni per i raduni familiari erano molte, non era come oggi che ci si vede solamente(e malvolentieri) per le cosiddette feste comandate, al tempo oltre che alle canoniche feste, i parenti s'incontravano spesso per darsi una mano nei lavori quotidiani, per le donne invece non mancava occasione per incontrarsi nelle aie per infornare il pane, per di più  non c'era bisogno di spostarsi tanto, in molti casi diverse generazioni abitavano sotto lo stesso tetto (genitori, figli, nonni, zie zitelle...)e i congiunti (così come è di moda dire) magari abitavano nella casa accanto o poco più in là. Al tempo il Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando non dovette quindi invitare i garfagnini (e gli italiani in genere) a trascorrere un "Natale sobrio" come ha fatto il premier Conte, da noi quelle consumistiche feste non erano ancora arrivate, rimase il dispiacere per la nostra povera gente di non poter partecipare alle messe nel mese dell'avvento così come tradizione voleva, le chiese infatti furono chiuse. Insomma in quel dicembre del 1918 il grande protagonista
delle feste in Garfagnana fu la beneficienza, la carità e l'assistenza per gli orfani di guerra e per questi "nuovi" malati, di quel poco che già c'era il buon cuore dei garfagnini decise di donarne un po' al vicino bisognoso, ma naturalmente non furono feste natalizie come le altre, il dispiacere più grosso per quelle famiglie che si riunirono per il pranzo di Natale fu per quelle sedie vuote al tavolo...


giovedì 24 dicembre 2020

La Garfagnana del treno. L'interminabile ed epica storia della Lucca- Aulla

Sinceramente mi sento un po' in difficoltà a scrivere questo
articolo...Per scrivere di questo argomento mi servirebbero pagine e pagine... Come si fa a condensare una storia durata sessantanove anni in poche righe? Troppe cose accadono in un arco di tempo così lungo. Proverò, comunque sia, a raccontare questa epica ed interminabile storia. Ecco a voi i leggendari fatti che portarono alla costruzione della ferrovia della Garfagnana: la Lucca-Aulla. Nel 2021 ricorreranno i 110 anni di quando il treno raggiunse per la prima volta la Garfagnana. Ho già avuto modo di raccontare e scrivere molto della sua gloriosa nascita, ma ogni tanto trovo giusto ricordare a tutti i miei lettori l'importanza di quest'opera che si può definire in senso assoluto l'opera più importante e fondamentale mai costruita in Garfagnana e nella Valle del Serchio. La storia della Valle si sviluppò parallelamente a quella del treno, un'impresa quella della sua costruzione che ha saputo raccontare oltre un secolo della nostra storia e della vita quotidiana di centinaia di migliaia di persone. L'arrivo della ferrovia segnò in maniera profonda la storia della Garfagnana, dopo la sua prima corsa quel 25 luglio 1911, tutto verrà influenzato e a volte stravolto da quel "mostro di
ferro", portatore di progresso economico, sociale e tecnologico, inoltre il suo arrivo in Garfagnana rappresentò per la prima volta la presenza vera dello Stato Italiano nella valle, per una terra che era stata dimenticata da troppo tempo e che da decenni chiedeva attenzione per i propri figli. La Garfagnana non voleva essere dimenticata e ne tanto meno emarginata, con l'arrivo del treno si assistette infatti alla costruzione del futuro di questa zona. E' passato oltre un secolo da quel mondo e comunque sia ancora oggi l'importanza di quella linea non è diminuita: studenti, lavoratori, turisti e anche merci usufruiscono ancora di questo mezzo, che attraversa una valle ricca di scorci inusuali, di vedute improvvise e di apparizioni mozzafiato. Oltre a ciò, sulla Lucca- Aulla sono stati costruiti manufatti importantissimi, si sono adoperati uomini, mezzi, sono accaduti fatti curiosi e singolari. Insomma, oggi voglio narrare la sua straordinaria storia, raccontando fatti ed eventi che forse pochi sanno. 

Le prime notizie su una ferrovia in Garfagnana si hanno ben prima dell'Unità d'Italia. Era il lontano 1840 quando da Castelnuovo si alzò una voce che chiedeva al regnante estense di allora, Francesco IV, la concessione di costruire una ferrovia per la Valle del Serchio, in quell'antico progetto non si faceva riferimento all'attuale linea ferroviaria Lucca- Aulla, ma bensì ad una Lucca-Modena, il duca (senza esitazione) non approvò il progetto. Si ritentò con la medesima fortuna nel 1851 per una eventuale Lucca- Reggio Emilia. La situazione cambiò con l'Italia unita. Tutti gli "staterelli" filo austriaci erano caduti e una delle priorità della nuova nazione italiana era la difesa del territorio nazionale in caso di una eventuale guerra. Così fu, che nel 1870 si mise sul tavolo dei nuovi governanti il progetto di costruire una ferrovia che collegasse Parma con La Spezia, quest'opera era considerata di strategica importanza poichè avrebbe creato un passaggio nell'Appennino, mettendo di fatto in comunicazione l'Arsenale Militare di La Spezia con la Pianura Padana. In questo caso sarebbe tornato comodo avere eventuali sbocchi anche verso sud, per approvvigionare l'Arsenale Militare di mezzi e uomini in un eventuale conflitto bellico. L'ideale sarebbe stato creare una ferrovia protetta, quasi invisibile ai nemici, riparata da possibili attacchi dal mare in caso di occupazione nemica. Ecco allora nascere per la prima volta l'idea di una possibile Lucca- Aulla, una ferrovia inespugnabile, riparata da due catene di monti, una ferrovia (come è bene sottolineare) ideata per ragioni puramente militari. Nel 1890 cominciò così l'epopea della Lucca- Aulla. I lavori partirono dalla già esistente stazione di Lucca, dopo due anni furono solamente 

Stazione di Lucca primi 900
messi in opera appena nove chilometri di ferrovia... Due lunghi anni per una tratta completamente pianeggiante, che partiva da Lucca e arrivava a Ponte a Moriano. Cosa sarebbe successo allora quando ci si sarebbe inoltrati per l'impervia Garfagnana? Infatti questo non era altro che il preludio a una storia infinita. Fattostà che il 15 febbraio 1892 si inaugurarono questi miseri nove chilometri di ferrovia. E' giusto dire che tali ritardi furono giustificati dal fatto che casualmente durante gli scavi per la posa a terra dei binari furono ritrovati alcuni cinerari e un cippo sepolcrale etrusco databili fra il IV e il II secolo a.C. Tale attenzione alla storia e ai suoi manufatti non fu riservata dagli ingegneri della ferrovia al magnifico Ponte del Diavolo. Prima di affrontare il problema inerente Ponte del Diavolo c'era però da raggiungere Borgo a Mozzano. La ditta dei fratelli Sandrini si accaparrò l'appalto (per sei milioni di lire) e l'onere di portare a termine il tratto Ponte a Moriano- Borgo a Mozzano che fu inaugurato il 15 luglio 1898. La patata bollente del tratto Borgo a Mozzano- Bagni di Lucca andò invece nelle mani della ditta Barozzi. Questo tratto se si vuole era di facile realizzazione, ma il problema vero era un altro: per arrivare alla stazione di Bagni di Lucca c'era da oltrepassare il Ponte del Diavolo. Per transitare da lì non ci sarebbe stata altra 

Prima
soluzione se non quella di aprire un nuovo arco nel ponte, che permettesse al treno di passarvi sotto, per fare questo fu anche alterata l'originale rampa d'ingresso al ponte stesso sul versante destro del fiume Serchio. Naturalmente non mancarono le proteste per lo scempio che avrebbe subito l'opera, ma nonostante ciò nel periodo agosto novembre 1898 venne apportata la modifica, si raggiunse così anche la stazione di Bagni di Lucca. Passarono poi altri dodici anni, nel 1910 la ferrovia giunse a Piano di Coreglia e un anno dopo (25 luglio 1911) raggiunse Castelnuovo. Il 
Dopo
nuovo tratto fu di difficile realizzazione, in appena venti chilometri furono costruiti ben tre trafori e tredici ponti sul Serchio, ma il "bello" doveva ancora arrivare. Erano difatti serviti ventuno anni per arrivare a
 Castelnuovo Garfagnana, in quel lasso di tempo si calcolò che tutta la ferrovia Lucca- Aulla doveva essere completata... ma c'era poco da pretendere se si costruiva al ritmo di poco più di un chilometro l'anno. Alla meta (Aulla) mancavano ancora 68 chilometri e le opere più impegnative e importanti erano ancora da affrontare e avrebbero avuto costi esorbitanti, si stimò che quel pezzo mancante di ferrovia sarebbe costato qualcosa come quattro milioni e duecentomila lire a chilometro. Quel pezzo mancante di ferrovia diventò infatti
L'arrivo del treno a Castelnuovo
 25 luglio 1911
foto in possesso
 di Silvio Fioravanti
una vera e propria chimera, venti di guerra stavano soffiando su tutta Europa, la prima guerra mondiale era alle porte e la Lucca- Aulla era l'ultimo pensiero dei governanti. Difatti fu l'ultimo pensiero per svariati anni ancora, tant'è che della Lucca- Aulla si tornerà a parlare (e a lavorare) nel 1940. Ma il destino beffardo ci volle mettere ancora lo zampino...una guerra mondiale era già passata e una nuova stava per cominciare. 
Tuttavia una ferrovia esisteva già da molto tempo in Garfagnana, lo Stato impiegava anni a costruire, ma la Società Marmifera di Minucciano no... Undici chilometri di ferrovia per il trasporto dei blocchi di marmo furono costruiti in due anni e collegavano le cave con il paese di Gramolazzo, funzionò ininterrottamente dal 1901 al 1947. Infatti l'idea degli ingegneri della Lucca-Aulla sarebbe stata quella di sfruttare questo difficile tratto, ma così non fu mai, 
La ferrovia del marmo
Silvio Fioravanti
perchè quando la ferrovia arrivò da quelli parti i blocchi di marmo venivano già trasportati via strada fino alla stazione di Castelnuovo, che divenne il terminal dei marmi. Poveri ingegneri allora, ogni momento dovevano cambiare i loro progetti e i loro programmi. Quei poveri ingegneri che per ragioni naturali non fecero in tempo a cambiare le loro progettazioni furono
due padri di questa via ferrata che nel frattempo (visti gli anni che erano passati) erano morti: Raffaele Righetto ex garibaldino, riuscì nella famigerata impresa dei Mille, ma non in quella più ardua della realizzazione completa della Lucca-Aulla. Stessa fine toccò pure a Jean Luis Protche, ingegnere di fama mondiale, che applicò i suoi studi anche su questa ferrovia. Comunque sia tanto si deve a questi ingegneri, furono loro a progettare le due più grandi opere della linea, opere che a quel tempo sapevano di leggendario. I mezzi non erano quelli di oggi, si andava avanti "a picco e pala"... figuratevi voi quello che fu la realizzazione della galleria del Lupacino. La galleria collegò le stazioni di Piazza al Serchio e
Minucciano, quasi otto chilometri di tunnel (7515 metri) che costarono la vita a sette persone. Il suo progetto fu autorizzato dal governo di sua Maestà il re Vittorio Emanuele III il 27 aprile 1916, i lavori cominciarono nel 1922 con il governo Mussolini e il loro completamento vide la presenza del  Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 21 marzo 1959. Insomma, dal suo progetto iniziale, alla sua inaugurazione ci vollero 42 anni,11 mesi e 6 giorni. Tempi molto più rapidi per l'altra ciclopica opera della Lucca-Aulla: il Ponte della Villetta. Il ponte venne costruito in tre anni (1926-1929), costò allo Stato poco più di cinque milioni di lire (5.100.000 milia lire per l'esattezza), per la
foto Aldo Innocenti
 sua messa in funzione si attese però il 21 agosto 1940, quando fu inaugurato il tratto Castelnuovo- Piazza al Serchio. Se si vuole, ancora oggi i numeri di questo ponte della ferrovia sono strabilianti: 410 metri di lunghezza, per oltre 50 metri d'altezza, si staglia nella valle esibendo di fatto le sue 13 arcate a tutto sesto da 25 metri, più una da 12 metri. Insomma, finalmente ormai tutto pareva procedere in maniera spedita, il regime fascista aveva fatto rientrare la Lucca- Aulla fra le cosiddette "grandi opere" da completare, i soldi c'erano, ormai mancava poco per raggiungere Aulla... Ma come la vita insegna "mai dire mai" e come già anticipato qualche riga sopra la seconda guerra mondiale piombò come una mannaia sui sogni di gloria. I lavori si fermarono in maniera inesorabile, ma andò anche peggio, perchè molto di quello costruito fino a quel periodo fu miserevolmente distrutto. Proprio il Ponte della Villetta fu preso di mira, prima ci provarono gli americani a farlo saltare in aria, era il 18 maggio 1944 il bombardamento non centrò però l'obiettivo, altri successivi attacchi andarono a vuoto e quando il pericolo sembrava scampato, nell'aprile 1945 ci pensarono i tedeschi in ritirata a farlo esplodere. Dopo aver posizionato le mine una raffica di mitra
Ponte della Villeta distrutto
annunciò ai paesi vicini l'imminente esplosione, il boato riecheggiò in tutta la valle. Ma i danni non finirono qui, il 30 giugno 1944 a Piazza al Serchio gli aerei americani mitragliarono il ponte ferroviario. Inoltre all'inizio del luglio del medesimo anno la stazione di Castelnuovo venne pesantemente bombardata dagli anglo americani e messa fuori servizio, stessa sorte per la stazione di Fornaci di Barga. La guerra grazie a Dio finì, ma la Lucca- Aulla no... Il tempo di riprendersi e di riorganizzarsi dallo shock della guerra e finalmente nel 1953 i lavori ripresero. Stavolta niente e nessuno avrebbe fermato la conclusione di quest'opera. Nel giro di cinque anni Aulla fu raggiunta e in "pompa magna" il 21 marzo 1959 il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi inaugurò ufficialmente tutta la tratta. Il treno
Il presidente Gronchi il
giorno dell'inaugurazione
presidenziale partì da Aulla. La cerimonia si svolse invece nelle stazioni di Minucciano e Piazza al Serchio, dove il Presidente dette omaggio ai caduti per la costruzione della galleria del Lupacino. Nella notte 
sui monti circostanti della valle al passare del treno si accesero grandi falò per festeggiare il grandioso evento, così come tradizione benaugurante voleva. In definitiva per fare 89 chilometri di ferrovia, 33 fra ponti e viadotti e 31 gallerie ci vollero due re, due guerre mondiali e tre Presidenti della Repubblica, per complessivi 69 lunghi anni. Un amaro primato nella storia delle ferrovie, che con tutta probabilità non trova eguali al mondo.


Sitografia

  • Ferrovia Lucca-Aulla.com  

mercoledì 16 dicembre 2020

C'era una volta il pranzo di Natale in Garfagnana...

C'è poco da fare, sfido chiunque a negarlo... Quanto sarà
forzosamente allegro e fastidiosamente trito quel cenone di capodanno? Lenticchie inquinate di coriandoli e stelle filanti, trenini danzanti e chiassosi al ritmo del "Mio amico Charlie Brown", tappi che saltano per un bere smodato e senza freni, sono sinceramente diventati dei rituali obbligati e tediosi. Non vuoi mica mettere quel lungo pranzo natalizio, prolungato nei ritmi antichi di una digestione che non avrà mai fine !? E poi perchè solo pranzo? La cena della vigilia dove la mettiamo? Quella ha dei tempi un po' più accelerati, perchè (di solito) parte tardi e finisce un attimo prima della Messa di mezzanotte, alla quale si arriva frettolosamente e rigorosamente a piedi
(se si sta vicini alla chiesa), giusto giusto perchè il freddo della Santa Notte permetta ai "tordelli" ingeriti qualche ora prima di congelarsi nello stomaco.
Nonostante ciò, tutto questo sa tanto di tradizione, di familiare, una qualità in più che ha il Natale e che le altre feste non sanno dare. Si, perchè il Natale in Garfagnana vuol dire anche mangiare. Non accusatemi di blasfemia se vi dico che questi luculliani pranzi sono parte integrante della sacra celebrazione, anch'essi scandiscono ritmi e abitudini al pari della liturgia religiosa, per di più rientrano in quella sfera sacra che trova la sua apoteosi negli affetti della Casa, nel gusto di ritrovarsi, nel bicchiere portato in alto per riaffermare nuovamente un affetto, un'amicizia, un legame. Magari senza esagerare e ne tanto meno ostentare... difatti mi viene alla mente il pantagruelico pranzo di Natale del re inglese Giovanni Senzaterra, era il 1210: "... 24 barilotti di vino, 200 teste di maiale, 1000 galline, 100 libbre di cera, 50 libbre di pepe, 2 libbre di zafferano, 100 libbre di mandorle e diecimila
anguille salate..."
. La parsimonia non fu dalla sua nemmeno per il vescovo cattolico Riccardo di Swinfield e nel Natale del 1289 alla faccia della povera gente e della carità cristiana fece servire ai suoi quarantuno commensali tre pasti al giorno, nei giorni del 24, 25 e 26 dicembre che comprendevano due manzi, due vitelli, quattro cervi, quattro maiali, sessanta polli, otto pernici, due oche, pane e formaggio in quantità. Ma in Garfagnana non era così, purtroppo la povertà ci contraddistingueva anche in questo senso qui, rimaneva però il fatto che era proprio per questi giorni che si mangiavano le cose migliori, le cibarie che avevamo conservato e preparato proprio per le feste natalizie, insomma anche il più povero garfagnino per il giorno del Natale qualcosa di speciale avrebbe messo in tavola. Il concetto del pranzo di Natale in Garfagnana trova radici lontanissime. Tutto nacque nel lontano medioevo, in quel periodo storico i grandi teologi e gli intellettuali disquisivano profondamente sul mistero della nascita di Cristo, non certo il garfagnino privo d'istruzione che festeggiava
eventi più concreti e propiziatori come ad esempio la conclusione delle attività agricole. Natale arrivava infatti dopo l'ultimo raccolto dell'anno, nei campi allora non rimaneva un granchè da fare e, se non era necessario mantenere gli animali tutto l'inverno, era allora conveniente macellarli. La festività del Natale si unì così ad un bisogno utile e concreto che aveva il miserabile contadino e difatti con ogni probabilità il concetto di "cenone" di Natale proviene dall'associazione di queste due necessità. Anche i primi regali natalizi di cui si ha notizia rientravano nella sfera mangereccia. Quindi niente sciarpe chilometriche, niente guanti di lana e nemmeno variopinti maglioni con renne di Babbo Natale, si regalava del cibo. Difatti dai registri dell' Annona 
 di Lucca nel 1324 si ordinava ai funzionari statali di distribuire nel giorno di Natale una pagnotta e un piatto di carne ai contadini del castello di Castelnuovo, in più vi era la facoltà di concedersi un giorno di riposo... Ma gli anni e i secoli passano e si arriva ai Natali dei nostri nonni, quelli che
anche noi abbiamo vissuto, quelli in cui la mattina di quel santo giorno ci svegliava tardi e giù, ai piani bassi della casa si sentivano i tacchi frettolosi degli ospiti che arrivavano, in cucina c'era già qualcuno che lavorava da ore, il rumore della cappa accesa accompagnava il gorgoglio delle pentole al fuoco, insieme al tic tic dell'accensione del fornello e il chiedere -com'è di sale?-. Tutto questo faceva parte di un mondo magico e fatato e  che dire di poi di quei prelibati piatti? La nonna intanto ricordava i suoi pranzi di Natale ancora più lontani: 
"Mi ricordo che da piccola quando si avvicinava il Natale mia madre incominciava un po' di tempo prima a preparare qualcosa. Comprava lo zucchero e diceva -Questo lo useremo per il vino bollito- Poi preparava qualche bottiglia di liquore comprando gli estratti, poi la tradizionale bottiglia di rum non mancava mai, quella serviva per fare il ponce. Quelli erano tempi duri, non c'era niente, c'era solo miseria, però
per Natale non volevamo farci mancare niente. 
Io e miei fratelli non vedevamo l'ora di mangiare, quella sera la cena era costituita da piatti speciali: polenta e baccalà, cavolo nero e fagioli bianchi. Dopo cena era il momento più bello quando il babbo tirava fuori il torrone e tutti battevamo le mani per la gioia". Dall'altra parte allora subentrava la vecchia zia che non voleva essere da meno della nonna e allora anche lei si lasciava trasportare nei suoi ricordi di lontane cene della vigilia: "Arrivava la sera della vigilia di Natale, eravamo in tanti: i nonni, genitori, fratelli, zii e cugini e ci riunivamo festosi intorno alla tavola per la misera cena. A quel tempo non avevamo disponibilità economiche, e ciononostante in quella sera della vigilia i visi di tutti i familiari segnati dalla sofferenza e dagli stenti, si distendevano in gioiosi sorrisi e allegria, anche se a quel tempo la fame era tanta. In questa occasione la cucina era modesta, ma allo stesso tempo genuina. In quella sera si mangiavano verdure lessate, come cavolfiori e finocchi, poi pastellate e fritte, e per secondo l'immancabile baccalà con patate. Finita la cena la casa si riempiva di persone che abitavano nelle vicinanze, così da far diventare la serata festosa, chiassosa e gioiosa". Diciamo che storicamente parlando gli anni 50 del 1900 furono lo spartiacque fra questi vecchi natali della nonna e quelli dei moderni pranzi di
Natale, più opulenti e ricchi; da quegli anni in poi presero piede dei cenoni nel segno del consumismo odierno
, anche se ad onor del vero in Garfagnana siamo rimasti sempre legati alle tradizioni, alle ricette casalinghe a quei segreti della cucina che ogni massaia costudisce gelosamente. Cercare quindi un tipico pranzo di Natale garfagnino è difficilissimo, ogni famiglia cercava e cerca di portare in tavola qualcosa di speciale: crostini con fegatini di pollo, tordelli, lasagne, succulenti brodi di cappone come tradizione vuole accompagnati da tortellini fatti in casa, arrosti vari con patate insaporite con salvia e rosmarino, ed infine "dulcis in fundo", com'è proprio il caso di dire, i dolci, a chiudere l'interminabile pranzo: panettoni, pandori, torroni, ricciarelli, tutte leccornie che una volta erano lontane chimere, eventi eccezionalissimi sarebbero stati se fossero stati presenti sulle tavole garfagnine. Di solito, infatti, si preparavano dolci fatti in casa e di questi dolci casalinghi tre fanno parte della tradizione delle feste natalizie della valle. Era per Santa Lucia quando nel rione omonimo di Castelnuovo si preparava (e si prepara ancora) "la Mandolata", un dolce simile al croccante, ma guai a chiamarlo così,
fatto con miele di castagno o millefiori e noci. La particolarità di questo dolce sta nella lavorazione del miele che viene prima bollito poi versato su lastre di marmo unte d’olio e lavorato ancora bollente, con le mani, tirato a fargli prendere aria fino a che da molto scuro diventa color oro. Si aggiungono le noci scaldate, si distribuisce su dei fogli di ostie e si taglia. 
La storia della mandolata è avvolta nel mistero, non ci sono notizie negli archivi comunali. Dalla fine del 1800, ogni anno si fa riferimento alla festa di Santa Lucia come a una tradizionale fiera dei maiali.  La mandolata viene menzionata solo nel 1965 ricordando il “profumato dolce a dose di miele mandorle e noci”, il resto è tradizione orale che comunque la fa risalire a molto prima. Pare che in origine fosse fatta dai frati del convento dei Cappuccini e poi che la tradizione sia stata ripresa dai fedeli, variando la ricetta da mandorle e noci alle sole noci che nella valle si trovano in abbondanza. Che dire poi di quegli squisiti biscotti chiamati "befanini", è vero che si preparano il giorno della Befana, ma ormai possiamo dire che sono i biscotti per eccellenza delle feste
natalizie, fatti di svariate forme: stelle, alberi di Natale, animali, ingentiliti poi con guarnizioni colorate. Però è a Barga dove trovano la loro glorificazione, li dove la tradizione della festa della Befane ha origine lontanissime, infatti se ne parla già negli Statuti del 1366. Qui, questo biscotto viene lavorato senza lievito e al posto dei "chicchini" colorati viene messo del marzapane. Se si parla di Natale poi, non possono mancare i cialdoni con la panna: friabili, non troppo dolci, croccanti , una ricetta semplice e antica, il loro profumo nell'aria significa festa. Acqua, farina, zucchero, latte e burro, questi i soli e semplici ingredienti. Semplici e genuini, così come sono rimasti i piatti della cucina garfagnina, in barba a tutti quelli che si stanno reinventando cenoni festaioli moderni: happy
hour, finger food e buffet vari. Al tempo delle nonne sarebbero state bollate come vere e proprie eresie. In Garfagnana non è pranzo di Natale se non dura almeno sei ore...


Bibliografia

"Stasera venite a vejo Terè. Le veglie della Garfagnana". Gruppo Vegliatori di Gallicano. Banca dell'identità e della memoria 

giovedì 10 dicembre 2020

La Cascata del Pendolino: natura, leggenda e scienza

foto tratte da riprese 
di Abramo Rossi per Noi Tv
Ode alla cascata: "Di tutto quello che esiste sopra la terra, pietre, edifici, garofani, di tutto quello che vola nell’aria, nubi, uccelli, di tutto quello che esiste sotto la terra, minerali, morti, non esiste niente tanto fuggitivo, niente che canti come una cascata". Tanto è ammaliante il suo fascino che Pablo Neruda dedicò ad essa questi versi sublimi. Ma il suo magnetismo non incantò solo Neruda ma chiunque si fosse trovato di fronte a cotanta bellezza. Le cascate sono spumeggianti, imponenti, la loro bellezza lascia tutti a bocca aperta. Conosciute come "le danzatrici della natura" questi fenomeni naturali ci regalano sensazioni uniche, immerse nel verde più rigoglioso, simboleggiano la forza e l'irrefrenabile lavoro del creato e grazie a Dio queste sublimi bellezze ci sono anche nella Valle del Serchio, difatti qui esiste una fra le più belle cascate della Toscana, che non avrà la grandiosità della cascata delle Marmore e nemmeno la storia di quelle di Iguazu o la maestosità di quelle del Niagara, ma rimane il fatto che anche lei ha il suo degno passato e una magnificenza di cui tener conto. Questa cascata si può visitare risalendo la strada che porta nella Val di Turrite, nel comune di Fabbriche di Vergemoli. A un certo punto, infatti, andando in direzione del paese di Fabbriche di Vallico ci si imbatte nell'antico mulino, ecco, di lì inizia il sentiero che porta ad una delle meraviglie della Garfagnana: la Cascata del Pendolino. E'
foto tratte da riprese 
di Abramo Rossi per Noi Tv
proprio dopo queste noiose giornate di pioggia che il torrente che alimenta la cascata si riempie d'acqua precipitando fragorosamente nel fiume sottostante  per quasi cento metri. Un fenomeno stupendo che suscita una forte ammirazione in colui che assiste a questo spettacolo, d'altronde il contesto naturale in cui è questa cascata è molto suggestivo: natura incontaminata, verde, nude rocce. Un chiaro segnale della natura stessa, una dimostrazione della sua potenza, infatti davanti a ciò il visitatore viene assalito da quella strana sensazione che ti fa sentire piccolo piccolo davanti a quell'incredibile salto dell'acqua. Questi incanti non trovano spiegazione solo nella grazia della natura stessa, andando a disturbare la scienza vediamo che tecnicamente una cascata non è altro che una variazione del letto di un fiume o di un torrente dove, a causa di un dislivello, l'acqua cade anzichè scorrere. Indagando ancor di più nello specifico, proprio per quello che riguarda la
foto tratta da Gulliver.it
formazione di questa cascata, fra le varie ipotesi si dice che possa essere avvenuta per la bassa resistenza del terreno all'erosione. Un'altra probabile ipotesi afferma che la sua origine può essere stata causata da antichissimi terremoti, possibilità cui tener conto vista l'alta sismicità della zona. La scienza però non ha l'incanto e l'attrattiva che può dare una leggenda e a noi ci piace credere che la cascata del Pendolino sia nata grazie a un magico dono di due fate:" 
Sui fianchi del monte Gragno, si aprono grotte buie e profonde che la gente chiama Buche delle Fate. Ce ne sono un po’ ovunque sparse qua e là, suggestive e misteriose. La tradizione ha infatti conservato nella memoria la leggenda di due fratelli, che un giorno salirono sulla montagna a far legna. Erano forti, ma poveri; coraggiosi, ma stremati da una vita difficile. Quel giorno si trovavano nei pressi di una di queste buche, quando cominciò a piovere, quindi si ripararono all’interno della grotta. Videro arrivare due donnine, avvolte in un panno grigio con un grosso cesto pieno della cenere che i carbonai ammucchiano in una parte della
foto tratta da canyoning.it
carbonaia. I due giovani le salutarono e le due signore, due fate del bosco, li guardarono incuriosite, poi aprirono i loro mantelli e ognuna di loro regalò a ciascuno dei due ragazzi una tazza di legno dicendo: -Se riuscirete a riempirla d’acqua e a farvi specchiare la luna piena del mese di maggio, un sentiero d’argento vi guiderà ad una sorgente dove troverete il vostro tesoro-. Poi le due donne entrarono nella grotta e scomparvero nel buio. La sera i due giovani raccontarono ai loro genitori quanto avevano visto e udito nel bosco e mostrarono loro le due tazze di legno, ma i genitori non ci fecero molto caso. Passarono i mesi e una notte di maggio la luna piena splendeva alta sopra il monte Gragno. I due giovani si inerpicarono sulle pendici del monte con un fiasco d’acqua e riempirono le due tazze proprio di fronte all’entrata della grotta. Fu molto difficile inseguire la luna fra rami, foglie fitte, speroni di roccia, mentre la notte correva via. Mancava ormai un’ora al sorgere del sole, quando i due giovani arrivarono sulla vetta. Lassù il cielo era libero e la luna entrò nelle loro tazze. Subito mille riflessi
d’argento ribalzarono giù dalla montagna e andarono a moltiplicarsi nel letto del torrente che scorreva fragoroso giù fra alte rocce. I due giovani correvano dietro quello sfavillio che pareva un serpente argentato,  scendeva rapidamente giù, lungo il torrente finché non finiva la sua corsa su di una cascata d'incommensurabile bellezza. Una volta caduta di li, l'acqua
 proseguiva e si concentrava su un enorme pietra. I fratelli si guardarono e capirono che lì stava il loro tesoro, di qualsiasi natura fosse. Cominciarono quindi a portare massi, a squadrarli e a disporli una sopra l’altro su quell’enorme pietra piatta e liscia. Dopo qualche mese, un bel mulino (che ancora oggi si può vedere) con la sua ruota macinava da mattina a sera. E non vi fu mai stagione che vide quella ruota fermarsi. I campi vennero coltivati e i boschi seppero dare i loro frutti generosamente. Quel mulino lavorò per molti anni. Nel mese di maggio le fate scendono dalla montagna, trasportate dai raggi delle luna piena, per attingere l’acqua da quella cascata che in quella notte acquista poteri magici. E se si ascolta bene, sembra di sentire da lontano la ruota di un mulino mossa dall’acqua". D'altra parte tutto ciò che riguarda questa cascata è ammantato da pura poesia, anche lo stesso nome che gli è stato attribuito segue questo percorso, difatti il nome Pendolino (o Pendolo) deriva dal fatto che quando spira il vento, l'acqua della cascata oscilla proprio come un
"il gorilla"foto tratte da riprese
di Abramo Rossi per Noi Tv
 pendolo, simulando di fatto una sinuosa danza. Ma attenzione il portento non finisce qui, se si fa attenzione ai suoi piedi si può vedere il suo austero guardiano affiorare dalle acque: un gigantesco masso forma infatti la figura di un severo gorilla ... Proprio qui... dove tutto è immaginazione, tradizione e poesia...


Sitografia

  • https://www.erboristeriasauro.it/le-tazze-delle-fate-e-la-cascata-del-pendolino-toscana-val-di-serchio-it.html di Daniela Sauro

mercoledì 2 dicembre 2020

L'arte di costruire nel medioevo in Garfagnana

Villaggi, castelli e soprattutto chiese e palazzi. Quelle chiese e quei palazzi signorili che ancora oggi sono lì presenti davanti ai nostri occhi e che hanno attraversato ben mille anni di storia. La Garfagnana e la Valle sono costellate da questi edifici, di chiese e chiesette ne abbiamo in ogni dove. Tutto questa vivacità creativa nella nostra zona cominciò nel lontano medioevo quando il Vescovo di Lucca Frediano nel VI secolo fondò le prime pievi, anche se, ad onor del vero furono i Longobardi i primi a costruire edifici cristiani nell'Alta Valle del Serchio. Ma fu lei, la Grancontessa Matilde di Canossa, dopo l'anno mille a consolidare la presenza delle chiese in Garfagnana. Tutta questa sua smania di costruire si può ritrovare infatti nella leggenda
che 
vuole Matilde chiedere al Papa il permesso di celebrare messa; il Papa gliel'accordò a patto che costruisse cento chiese, la contessa si prodigò, ma alla novantanovesima morì. Comunque sia, bando alle leggende e ai miti bisogna dire che il clima fervido di nuove fondazioni si protrasse fino a tutto il 1200 e a rendere ancora meglio l'idea  di tutta questa intensa attività ci pensò nel suo libro "Cronache dell'anno mille" il monaco francese Rodolfo il Glabro, il più famoso cronista d'epoca medievale che così narrò:" Si era già quasi all’anno terzo dopo il Mille quando nel mondo intero, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si ebbe un rinnovamento delle chiese basilicali. Pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi della vecchiaia, si rivestisse tutta in un fulgido manto di chiese". Allora, proprio in quel periodo ecco nascere la chiesa di San Michele a Castiglione, San Jacopo a Gallicano, la Pieve dei Santi Pietro e Paolo a Careggine, la chiesina della Sambuca dedicata a San Pantaleone e tutte le altre ancora, compresi austeri palazzi e edifici vari. Certo però, a pensarci bene queste costruzioni, secolo più secolo meno, hanno mille anni d'età... Quelle pietre sono state testimoni di guerre, catastrofi, lotte, hanno visto morire e nascere centinaia di migliaia di persone, hanno subito terremoti, piogge, giornate afose e calde, eppure sono sempre lì, nel 2020 sono ancora integre, inviolate e...
San Jacopo Gallicano
allora la domanda sorge spontanea... ma come le avranno costruite per resistere a tutte le avversità? Chi le avrà materialmente innalzate? E con quale materiale? Proviamo allora a dare una risposta a tutte queste domande. Il funzionamento di un cantiere medievale fu una realtà complessa che vide il coinvolgimento di tutta la comunità. I lavori per edificare una simile costruzione richiedevano anni e anni di lavoro e rappresentavano una grande risorsa economica per il paese, un'opportunità da sfruttare poichè si dava la possibilità di lavorare a una gran parte della popolazione, difatti lavorare nei cantieri delle chiese garfagnine a quel tempo era una delle fonti di sostentamento delle famiglie, anche perchè intorno a quel cantiere sorgevano altre attività correlate, che permettevano la nascita di un microcosmo fatto (anche) da nuove figure professionali. Infatti sarebbe un errore pensare che tutto questo sia stato gestito da una banda di sconclusionati, anzi, tutto ciò era regolamentato da una serie di figure, ognuna con il suo proprio compito. A capo di tutto c'era il "fecit" o il "construxit" (così come riportano i documenti del tempo)ossia il committente.
Esistevano due tipi di committenti: c'era colui che oltre a mettere i soldi, stabiliva anche le forme e le caratteristiche dell'edificio secondo il proprio gusto, imponendo di fatto le sue decisioni agli esecutori dell'opera. Inoltre c'era anche la figura del committente finanziatore, nuda e pura, metteva i quattrini e "basta". Come ben si capirà tali committenti provenivano quasi esclusivamente dal clero, dalle signorie locali o dai regnanti. Altro personaggio importantissimo e fondamentale era il "magister murario", oppure il "caput magister" o anche il "fabricator", insomma l'architetto. La sua figura veniva identificata come quella del costruttore la cui attività intellettuale e progettuale prevaleva su quella manuale, una mansione che aveva maturato nei suoi lavori fatti in lontane terre. Infine c'erano le maestranze, coloro per capirsi che muovevano le mani. Anche qui però esisteva una scala gerarchica, in primis c'era il geometra capocantiere (geometricalis operis magister), poi c'era il lathomus (il tagliatore di pietre), gli scalpellini, il maczonerius (il fabbricatore di mattoni)e i muratori (paratores). Poi la scala cominciava a scendere ancora di più con gli spalatori, gli zappatori, i demolitori, i guastatori con i picchi, i livellatori,
tutti questi erano sotto la categoria degli "operarius". Insomma, un cantiere medievale equivaleva ad un vero e proprio spaccato di società del tempo ed inoltre, già nella categoria degli "operarius" esistevano altri gruppi ben distinti: maestri, garzoni e manovali. Alle diverse capacità corrispondevano diversi salari che tuttavia non permettevano a questi lavoratori di condurre una vita agiata. Comunque sia per tutti la giornata lavorativa era durissima, ed era scandita dalle pause pranzo, una avveniva prima dell'orario d'inizio lavori, una a tarda mattinata con pane, formaggio e frutta e infine un'altra a metà pomeriggio, tutto era compreso nel salario del lavoratore. Non solo lavoro però, esistevano anche momenti di festa, grandi bevute erano previste ogni qualvolta varie parti dell'edificio venivano terminate. Non mancavo però, nemmeno i  momenti drammatici, gli infortuni sul lavoro erano all'ordine del giorno e ogni tanto, oggi come allora non era affatto difficile che ci scappasse pure il morto. Per altro la sicurezza sul cantiere era importante anche secoli fa e tale responsabilità era di fatto nelle mani del carpentiere, colui che era addetto (anche) al montaggio delle impalcature. Appena una costruzione raggiungeva l'altezza uomo si provvedeva ad innalzare impalcature in legno, per permettere ai muratori di accedere ai vari livelli della costruzione. Queste
strutture di legno permettevano agli operai di muoversi, lavorare, deporre materiali utilizzando precarie piattaforme legate insieme da corde formate da una resina estratta dal tiglio, oppure da rami flessibili di quercia o salice. Esistevano quindi due tipi d'impalcatura: l'impalcato indipendente, dove la struttura era difatti autonoma e non poggiava sulla parete dell'edificio, era soprattutto usata per lavori delicati, come la posa in opera degli intonaci. C'era poi l'impalcato dipendente, direttamente connesso alla costruzione, dei pali di legno venivano conficcati nel muro in modo che sorreggessero l'impalcatura stessa (quei fori d'alloggiamento sono ancora visibili in molte edifici del tempo), questo tipo d'impalcato era molto più economico, dato che per il suo assemblaggio era necessaria una minore quantità di legno.
 E a proposito di legno...era con questo materiale che il misero popolo costruiva le proprie case(per questo motivo che di queste case niente ci è giunto). Erano invece le pietre le grandi protagoniste: con questo materiale erano realizzate queste grandi costruzioni. Una volta giunte nel cantiere le grandi pietre dovevano essere tagliate, squadrate e scalpellinate, secondo la misura o il disegno dell'architetto, dopodichè questi blocchi (a volte giganteschi) dovevano essere sollevati in modo da poter essere messi in opera e per questo venivano utilizzati elevatori particolari, talvolta
Castiglione
complessi e pericolosi. Queste primitive gru non servivano solamente per sollevare pietre ma permettevano anche di sollevare enormi travi di legno. Infatti in queste costruzioni non mancavano notevoli quantità di legno per metter su, travi, capriate, mensole e scale. Ma è anche in questo periodo che partì su vasta scala la produzione del mattone, le fornaci venivano allestite all'interno del cantiere, così come sul cantiere venivano preparate le malte. D'altronde a quel tempo il cemento non esisteva e la malta era quel legante composto da acqua, sabbia e detriti che permetteva alle pietre e ai mattoni di avere stabilità. Naturalmente per creare questi fabbricati servivano materie prime per fare proprio malta e mattoni e per cercare pietre adatte all'edificio in costruzione. Allora, ecco che nascevano nelle vicinanze del cantiere delle vere e proprie cave dove reperire
 sabbia, terra e pietre. Una buona parte di materiale, ahimè, era reperito attraverso la cosiddetta "tecnica del riuso", una pratica questa molto diffusa nel Medioevo dove si utilizzava altro materiale lapideo distruggendo i resti di costruzioni dell'antica Roma. Per buona sorte anche in Garfagnana esisteva qualche legislatore accorto, infatti a tal proposito fu emanata una legge che autorizzava gli spogli e le demolizioni di
Careggine chiesa dei S.S Pietro Paolo
resti d'epoca romana a patto che fossero eseguiti su edifici non più restaurabili (quasi tutti) e che non avevano pubblico utilizzo. Come abbiamo letto i nostri antichi avi costruirono tutto ciò con lungimiranza, con perizia, attenzione e bravura, quella stessa bravura che si dava a una cosa che doveva durare "ad perpetuam memoriam" . La perpetua memoria era infatti una prerogativa per tutti quegli edifici (che secondo la gente del tempo) rivestivano una certa importanza  sociale o religiosa. Questa rilevanza ha fatto si che una chiesa o un palazzo abbiano avuto nei secoli una costante manutenzione, la loro importanza sociale non permetteva che avessero un decadimento ed è poi lo stesso motivo per cui ancora oggi provvediamo a restaurarli e a mantenerli integri. Questa antica avvedutezza non deve sorprendere, d'altra sarebbe sbagliato credere che il medioevo  
La Sambuca (Garfagnanadream)
sia  stato un'epoca buia e oppressiva. Nel medioevo ci sono stati progressi importanti in tutti i campi: i mulini a vento, l'aratro di ferro e soprattutto sono avvenuti molti miglioramenti in campo edile, in modo particolare con la costruzione di chiese. Del resto la gente costruiva cattedrali perchè sognava il paradiso...  


Bibliografia

  • RestaurArs-Dalla parte dell'arte- La cattedrale e il cantiere medievale: microcosmo della società di Selenia Michele novembre 2015

mercoledì 25 novembre 2020

I nostri fiumi e il significato dei loro nomi

Dal fiume al rubinetto... Quello che è certo che per i nostri nonni
fu un salto epocale. Per noi oggi è un gesto banale aprire quel rubinetto ed è altrettanto naturale che l'acqua arrivi ogni giorno a casa nostra pulita e potabile. Una volta in Garfagnana quando si era costretti a bere nei fiumi o nei torrenti, per scongiurare proprio il pericolo che quest'acqua non fosse buona da bere non ci si affidava alle sofisticate analisi di laboratorio, ma bensì si dava fiducia ad uno scongiuro in particolare, da ripetere per ben tre volte: "Acqua corrente ci beve il serpente, ci beve Iddio, ci bevo anch'io". Erano infatti quei fiumi e quei torrenti che fornivano acqua alle case quando ancora gli acquedotti non esistevano. I fiumi diventarono così un centro di vita sociale, al fiume ci si lavava, ci si giocava e le donne ci lavavano i panni. La situazione nei paesi migliorò con l'avvento delle fontane
pubbliche e l'arrivo dei pozzi dove lavare i vestiti. Fattostà che anche quest'acqua proveniva dai medesimi torrenti. Arrivò poi la fine degli anni 50 e gli inizi degli anni 60 (del 1900) e in buona parte delle case garfagnine giunse l'acqua corrente, ma il rapporto fra questa terra e i suoi fiumi(torrenti o canali che fossero)rimase per sempre speciale, un legame unico, fraterno, una sorta di ringraziamento quasi devozionale per quei lontani tempi. Per di più la ricchezza d'acqua che ha la nostra zona è fra le più alte in Italia, basta pensare che nella provincia di Lucca i corsi d'acqua contanti dal S.I.R.A (sistema informativo regionale ambientale)sono 1636. Insomma, una simbiosi unica, difficilmente riscontrabile da altre parti, tant'è che questa particolarità si può ravvisare nel nome che nei secoli e nei millenni è stato attribuito a questi corsi d'acqua. I nomi di questi fiumi è legato alle più svariate motivazioni e la maggior parte di queste denominazioni sono legate alla vita quotidiana della valle, quindi possiamo trovare torrenti il cui nome deriva da nomi propri di persona, magari si possono trovare dei fiumi il cui
appellativo è legato al nome di piante o di animali, esistono perfino dei nomi legati ai confini dei terreni e altri ancora ai mestieri e alle opere o addirittura al folklore. Naturalmente non poteva mancare una disciplina che analizzasse tali denominazioni e questa si chiama idronimia e l'idronomo è il vocabolo riferito al nome proprio del fiume. Bando a questo tecnicismi direi di andare ad analizzare il significato dei nomi dei nostri corsi d'acqua. Di questi 1636 ne analizzeremo... i più importanti e i più curiosi. Cominciamo con l'approfondire il contenuto della parola riferita al fiume principe della Garfagnana e della provincia in genere. 

Il Serchio è il terzo fiume per lunghezza della Toscana, il suo ramo principale scende dalle pendici del Monte Sillano e si riunisce poi al ramo denominato "Serchio di Gramolazzo". In antichità il suo nome era Auser. Una volta che però arrivava nei pressi di Lucca si biforcava nuovamente, creando un ramo minore denominato Auserculus (piccolo Serchio). Purtroppo il Serchio era un fiume capriccioso, le sue alluvioni creavano parecchi problemi alla città di Lucca e nel 561 il vescovo Frediano, esperto in idraulica fece convogliare le acque del corso principale nel ramo più piccolo: l'Auserculus. Da li in poi, il nome del corso d'acqua sarà Serchio, derivato dunque della suddetta parola. L'origine di tale vocabolo non è ben definita, lo storico latino Svetonio dichiarò che la parola Auser deriva dall'etrusco e significa Dio o divinità, alcuni glottologi moderni asseriscono che il nome deriva da una parola pre-ligure che significa sorgente.

"...Dove da diversi fonti/ con eterno rumor confondon l'acque/ la Turrita col Serchio fra due ponti". Nella V satira l'Ariosto nomina quello che forse è il fiume più caro ad una buona parte di garfagnini: la Turrite. Nella valle ce ne sono addirittura tre, ben distinte e tutte sono affluenti del Serchio: la Turrite Secca, che è quella che forma il lago dell'Isola Santa e che passa da Castelnuovo. La Turrite di Gallicano(o di Petrosciana)che nasce dalle pendici apuane per attraversare Fornovolasco e arrivare appunto a Gallicano. Infine c'è la Turrite Cava, il torrente attraversa tutta la Val di Turrite, formando il bacino idroelettrico del lago di Turrite Cava, per anni questo corso d'acqua segnò il confine di stato fra Modena e Lucca. Il termine Turrite si ritiene che sia fra i più antichi della lucchesia e apparterrebbe a uno strato pre romano che troverebbe radice nella parola latina "torrent", "torrente", riferito proprio alle caratteristiche particolari dei tre corsi d'acqua: corso breve di forte pendenza con variazioni di portata delle acque. Nello specifico, per quanto riguarda il vocabolo "cava" riferito alla Turrite posizionata più a sud nella valle, non significherebbe "vuota", ma bensì "che scava", come un corso d'acqua impetuoso che scava il terreno in profondità. 

Sempre e a proposito di Serchio esiste un altro fiume garfagnino che il suo nome potrebbe significare "piccolo Serchio", ed è l'Esarulo, il fiume di Castiglione. Un'altra ipotesi ci dice anche che questa denominazione deriverebbe da un nome proprio: Sauro, forse un contadino che aveva possedimenti proprio su quel fiume. Ad onor del vero questo corso d'acqua ha preso poi svariati nomi in base al territorio che attraversava: "fiume dell'Isola", "fiume di Valbona", "fiume di Pontardeto". Un'ulteriore torrente che troverebbe denominazione da un nome proprio di persona è il Ceserano(Fosciandora), da Cesare, Cesarino. L'alternativa si potrebbe trovare nella parola latina "Caesa", ossia "tagliato", in riferimento a un fiume dove nelle vicinanze si possono tagliare piante.

La curiosità poi ci spinge a trovare il significato di un nome che parrebbe quasi ebraico: Edron. Gli esperti dicono che la parola sia di difficilissima interpretazione. E' ragionevole pensare che vista la collocazione del fiume in piena zona ligure apuana (Vagli), possa trattarsi di un idronimo che ha avuto nascita da questa antica popolazione. La parola potrebbe anche avere una matrice greca: "hidor", ovverosia acqua. Un' ennesima interpretazione, la più bella, ma non so quanto vera ce la da una leggenda. Si racconta che un giovane pastore un giorno incontrò una giovane bellissima che si bagnava nelle acque di questo fiume. In paese già si sapeva che lassù vivevano gli spiriti delle acque che dovevano star lontani dagli esseri umani e rimanere invisibili al loro sguardo. Ma il pastore nonostante ciò s'innamorò della bella ninfa e gli chiese il nome: -Edron- rispose la ninfa e subito rimase silenziosa, si rese ormai conto di aver infranto una legge del bosco che non permetteva di rivolgere parola agli uomini. Il Dio del bosco accortosi del misfatto lanciò una folgore che pietrificò gli innamorati. Oggi quelle due grosse pietre esistono sempre, una accanto all'altra, si possono vedere proprio li, dove sgorga la sorgente.

Certe volte invece la poesia e il mito si fanno da parte lasciando spazio ad altri nomi più "tecnici" è il caso di quei torrenti la cui denominazione si rifà alla morfologia del corso d'acqua. Parliamo infatti della Covezza (San Romano), la parola deriverebbe dall'italiano "covo", nel senso di cavità, tana, rifugio sotterraneo. Altri fiumi o fiumiciattoli che traggono il proprio nome dalla loro geomorfologia sono la Corsonna e il fosso del Chitarrino(Barga). Il primo idronimo farebbe un possibile riferimento a Cursus (currere), corso, nel significato di acqua corrente, corso d'acqua che scorre veloce. Nel secondo caso (il Chitarrino) potrebbe essere riconducibile ad un idronimo metaforico sul particolare rumore emesso dall'acqua. Secondo gli esperti ad un cosiddetto idronimo metaforico è attinente anche il nome del fiume Lima (comune di Bagni di Lucca), la relazione sarebbe da attribuire al suo corso impetuoso che porta a molto consumo di suolo, nello specifico, limare.

Come abbiamo visto sono molteplici le ragioni per cui si da un nome ad un fiume e fra questi uno dei più consueti ha attinenza con i confini. I confini in Garfagnana sono sempre stati importanti, per cui il Fosso del Termine lo troviamo sia nel comune di Fabbriche Vergemoli che in quello di Camporgiano. Quel determinato fosso probabilmente segnava il preciso confine fra una proprietà o uno stato. Invece il Fosso della Bandita (Piazza al Serchio e Villa Collemandina) delimitava un'area dove era "bandita" la caccia, la pesca o magari un pascolo. Sempre ed a proposito di confini rimane curiosa l'ipotesi di alcuni ricercatori sulla genesi del vocabolo inerente al torrente Corfino. Dapprima si pensava infatti che l'origine derivasse da un nome proprio di persona, tale colono romano Corfinius, ma poi si è visto che la provenienza potrebbe avere un legame con "quadrifines", ossia "confine tra quattro possedimenti". Ma non solo confini e nomi delle persone sono all'origine degli
appellativi dei fiumi, anche i mestieri del tempo che fu fecero si che questi torrenti fossero battezzati con il nome delle attività lavorative che erano li vicine. Il Fosso del Battiferro (Fabbriche di Vergemoli) ne è l'esempio più pratico. Già da tempi lontanissimi(XIII secolo) la zona intorno Fornovolasco era luogo dedito alle attività siderurgiche vista la presenza in quei luoghi proprio di molte miniere di ferro. Stesso concetto vale per il torrente Acquabianca (Gorfigliano), la colorazione chiara di questo corso d'acqua è infatti dovuta dalle vicine cave di marmo, con particolare riferimento agli scarti di lavorazione presenti nel rio.

I termini con cui sono stati battezzati i nostri fiumi sono bizzarri curiosi e strani, ma credo che l'Oscar della bizzarria vada attribuito al Canale del Becchino (Molazzana), forse, chissà, li nei pressi esisteva la casa di qualcuno il cui mestiere era quello di seppellire i morti. Anche il Fosso della Cuccagna (Fabbriche di Vallico) rientra fra questi termini originali. In tutta questa lunga lista naturalmente non ci si poteva dimenticare degli animali, e qui ne abbiamo di tutte le specie: Fosso del Cane (Barga), Fosso della Granchia (Casabasciana), Rio Volpino (Piano della Rocca), Fosso dei Topi (Piazza al Serchio) e dulcis in fundo, il Fosso del Boddone (Fabbriche di Vergemoli).

Nonostante tutti questi nomi maschili o femminili che fossero, i vecchi dicevano che di un fiume si può riconoscere il suo sesso dal suo andamento. Ci sono fiumi maschi, nervosi e irruenti. E ci sono fiumi donna, che amano le curve e la varietà del paesaggio. Quello che le accomuna però è il solito destino, fra mille difficoltà il loro arrivo è ugualmente il mare... Sarà per questo che noi uomini siamo così legati ai fiumi: sono la metafora della vita...


Bibliografia

  • Tesi di Laurea in Linguistica Generale  Corso di Laurea Specialistica in Lingua e Letteratura Italiana  "Gli idronimi della Lucchesia Analisi dei nomi dei corsi d’acqua della provincia di Lucca" di Gabriele Panigada Relatore Anno Accademico 2012/2013
  • "Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" di Paolo Fantozzi edizioni Le Lettere
Fotografie

  • La foto di copertina (Isola Santa) è tratta da trekking.it
  • La foto del Serchio è tratta dal quotidiano on line Serchio in Diretta
  • La foto del Fiume Esarulo in località Valbona è tratta dal sito amalaspezia.eu
  • La foto del torrente Edron è tratta mulinoisola.it