mercoledì 25 novembre 2020

I nostri fiumi e il significato dei loro nomi

Dal fiume al rubinetto... Quello che è certo che per i nostri nonni
fu un salto epocale. Per noi oggi è un gesto banale aprire quel rubinetto ed è altrettanto naturale che l'acqua arrivi ogni giorno a casa nostra pulita e potabile. Una volta in Garfagnana quando si era costretti a bere nei fiumi o nei torrenti, per scongiurare proprio il pericolo che quest'acqua non fosse buona da bere non ci si affidava alle sofisticate analisi di laboratorio, ma bensì si dava fiducia ad uno scongiuro in particolare, da ripetere per ben tre volte: "Acqua corrente ci beve il serpente, ci beve Iddio, ci bevo anch'io". Erano infatti quei fiumi e quei torrenti che fornivano acqua alle case quando ancora gli acquedotti non esistevano. I fiumi diventarono così un centro di vita sociale, al fiume ci si lavava, ci si giocava e le donne ci lavavano i panni. La situazione nei paesi migliorò con l'avvento delle fontane
pubbliche e l'arrivo dei pozzi dove lavare i vestiti. Fattostà che anche quest'acqua proveniva dai medesimi torrenti. Arrivò poi la fine degli anni 50 e gli inizi degli anni 60 (del 1900) e in buona parte delle case garfagnine giunse l'acqua corrente, ma il rapporto fra questa terra e i suoi fiumi(torrenti o canali che fossero)rimase per sempre speciale, un legame unico, fraterno, una sorta di ringraziamento quasi devozionale per quei lontani tempi. Per di più la ricchezza d'acqua che ha la nostra zona è fra le più alte in Italia, basta pensare che nella provincia di Lucca i corsi d'acqua contanti dal S.I.R.A (sistema informativo regionale ambientale)sono 1636. Insomma, una simbiosi unica, difficilmente riscontrabile da altre parti, tant'è che questa particolarità si può ravvisare nel nome che nei secoli e nei millenni è stato attribuito a questi corsi d'acqua. I nomi di questi fiumi è legato alle più svariate motivazioni e la maggior parte di queste denominazioni sono legate alla vita quotidiana della valle, quindi possiamo trovare torrenti il cui nome deriva da nomi propri di persona, magari si possono trovare dei fiumi il cui
appellativo è legato al nome di piante o di animali, esistono perfino dei nomi legati ai confini dei terreni e altri ancora ai mestieri e alle opere o addirittura al folklore. Naturalmente non poteva mancare una disciplina che analizzasse tali denominazioni e questa si chiama idronimia e l'idronomo è il vocabolo riferito al nome proprio del fiume. Bando a questo tecnicismi direi di andare ad analizzare il significato dei nomi dei nostri corsi d'acqua. Di questi 1636 ne analizzeremo... i più importanti e i più curiosi. Cominciamo con l'approfondire il contenuto della parola riferita al fiume principe della Garfagnana e della provincia in genere. 

Il Serchio è il terzo fiume per lunghezza della Toscana, il suo ramo principale scende dalle pendici del Monte Sillano e si riunisce poi al ramo denominato "Serchio di Gramolazzo". In antichità il suo nome era Auser. Una volta che però arrivava nei pressi di Lucca si biforcava nuovamente, creando un ramo minore denominato Auserculus (piccolo Serchio). Purtroppo il Serchio era un fiume capriccioso, le sue alluvioni creavano parecchi problemi alla città di Lucca e nel 561 il vescovo Frediano, esperto in idraulica fece convogliare le acque del corso principale nel ramo più piccolo: l'Auserculus. Da li in poi, il nome del corso d'acqua sarà Serchio, derivato dunque della suddetta parola. L'origine di tale vocabolo non è ben definita, lo storico latino Svetonio dichiarò che la parola Auser deriva dall'etrusco e significa Dio o divinità, alcuni glottologi moderni asseriscono che il nome deriva da una parola pre-ligure che significa sorgente.

"...Dove da diversi fonti/ con eterno rumor confondon l'acque/ la Turrita col Serchio fra due ponti". Nella V satira l'Ariosto nomina quello che forse è il fiume più caro ad una buona parte di garfagnini: la Turrite. Nella valle ce ne sono addirittura tre, ben distinte e tutte sono affluenti del Serchio: la Turrite Secca, che è quella che forma il lago dell'Isola Santa e che passa da Castelnuovo. La Turrite di Gallicano(o di Petrosciana)che nasce dalle pendici apuane per attraversare Fornovolasco e arrivare appunto a Gallicano. Infine c'è la Turrite Cava, il torrente attraversa tutta la Val di Turrite, formando il bacino idroelettrico del lago di Turrite Cava, per anni questo corso d'acqua segnò il confine di stato fra Modena e Lucca. Il termine Turrite si ritiene che sia fra i più antichi della lucchesia e apparterrebbe a uno strato pre romano che troverebbe radice nella parola latina "torrent", "torrente", riferito proprio alle caratteristiche particolari dei tre corsi d'acqua: corso breve di forte pendenza con variazioni di portata delle acque. Nello specifico, per quanto riguarda il vocabolo "cava" riferito alla Turrite posizionata più a sud nella valle, non significherebbe "vuota", ma bensì "che scava", come un corso d'acqua impetuoso che scava il terreno in profondità. 

Sempre e a proposito di Serchio esiste un altro fiume garfagnino che il suo nome potrebbe significare "piccolo Serchio", ed è l'Esarulo, il fiume di Castiglione. Un'altra ipotesi ci dice anche che questa denominazione deriverebbe da un nome proprio: Sauro, forse un contadino che aveva possedimenti proprio su quel fiume. Ad onor del vero questo corso d'acqua ha preso poi svariati nomi in base al territorio che attraversava: "fiume dell'Isola", "fiume di Valbona", "fiume di Pontardeto". Un'ulteriore torrente che troverebbe denominazione da un nome proprio di persona è il Ceserano(Fosciandora), da Cesare, Cesarino. L'alternativa si potrebbe trovare nella parola latina "Caesa", ossia "tagliato", in riferimento a un fiume dove nelle vicinanze si possono tagliare piante.

La curiosità poi ci spinge a trovare il significato di un nome che parrebbe quasi ebraico: Edron. Gli esperti dicono che la parola sia di difficilissima interpretazione. E' ragionevole pensare che vista la collocazione del fiume in piena zona ligure apuana (Vagli), possa trattarsi di un idronimo che ha avuto nascita da questa antica popolazione. La parola potrebbe anche avere una matrice greca: "hidor", ovverosia acqua. Un' ennesima interpretazione, la più bella, ma non so quanto vera ce la da una leggenda. Si racconta che un giovane pastore un giorno incontrò una giovane bellissima che si bagnava nelle acque di questo fiume. In paese già si sapeva che lassù vivevano gli spiriti delle acque che dovevano star lontani dagli esseri umani e rimanere invisibili al loro sguardo. Ma il pastore nonostante ciò s'innamorò della bella ninfa e gli chiese il nome: -Edron- rispose la ninfa e subito rimase silenziosa, si rese ormai conto di aver infranto una legge del bosco che non permetteva di rivolgere parola agli uomini. Il Dio del bosco accortosi del misfatto lanciò una folgore che pietrificò gli innamorati. Oggi quelle due grosse pietre esistono sempre, una accanto all'altra, si possono vedere proprio li, dove sgorga la sorgente.

Certe volte invece la poesia e il mito si fanno da parte lasciando spazio ad altri nomi più "tecnici" è il caso di quei torrenti la cui denominazione si rifà alla morfologia del corso d'acqua. Parliamo infatti della Covezza (San Romano), la parola deriverebbe dall'italiano "covo", nel senso di cavità, tana, rifugio sotterraneo. Altri fiumi o fiumiciattoli che traggono il proprio nome dalla loro geomorfologia sono la Corsonna e il fosso del Chitarrino(Barga). Il primo idronimo farebbe un possibile riferimento a Cursus (currere), corso, nel significato di acqua corrente, corso d'acqua che scorre veloce. Nel secondo caso (il Chitarrino) potrebbe essere riconducibile ad un idronimo metaforico sul particolare rumore emesso dall'acqua. Secondo gli esperti ad un cosiddetto idronimo metaforico è attinente anche il nome del fiume Lima (comune di Bagni di Lucca), la relazione sarebbe da attribuire al suo corso impetuoso che porta a molto consumo di suolo, nello specifico, limare.

Come abbiamo visto sono molteplici le ragioni per cui si da un nome ad un fiume e fra questi uno dei più consueti ha attinenza con i confini. I confini in Garfagnana sono sempre stati importanti, per cui il Fosso del Termine lo troviamo sia nel comune di Fabbriche Vergemoli che in quello di Camporgiano. Quel determinato fosso probabilmente segnava il preciso confine fra una proprietà o uno stato. Invece il Fosso della Bandita (Piazza al Serchio e Villa Collemandina) delimitava un'area dove era "bandita" la caccia, la pesca o magari un pascolo. Sempre ed a proposito di confini rimane curiosa l'ipotesi di alcuni ricercatori sulla genesi del vocabolo inerente al torrente Corfino. Dapprima si pensava infatti che l'origine derivasse da un nome proprio di persona, tale colono romano Corfinius, ma poi si è visto che la provenienza potrebbe avere un legame con "quadrifines", ossia "confine tra quattro possedimenti". Ma non solo confini e nomi delle persone sono all'origine degli
appellativi dei fiumi, anche i mestieri del tempo che fu fecero si che questi torrenti fossero battezzati con il nome delle attività lavorative che erano li vicine. Il Fosso del Battiferro (Fabbriche di Vergemoli) ne è l'esempio più pratico. Già da tempi lontanissimi(XIII secolo) la zona intorno Fornovolasco era luogo dedito alle attività siderurgiche vista la presenza in quei luoghi proprio di molte miniere di ferro. Stesso concetto vale per il torrente Acquabianca (Gorfigliano), la colorazione chiara di questo corso d'acqua è infatti dovuta dalle vicine cave di marmo, con particolare riferimento agli scarti di lavorazione presenti nel rio.

I termini con cui sono stati battezzati i nostri fiumi sono bizzarri curiosi e strani, ma credo che l'Oscar della bizzarria vada attribuito al Canale del Becchino (Molazzana), forse, chissà, li nei pressi esisteva la casa di qualcuno il cui mestiere era quello di seppellire i morti. Anche il Fosso della Cuccagna (Fabbriche di Vallico) rientra fra questi termini originali. In tutta questa lunga lista naturalmente non ci si poteva dimenticare degli animali, e qui ne abbiamo di tutte le specie: Fosso del Cane (Barga), Fosso della Granchia (Casabasciana), Rio Volpino (Piano della Rocca), Fosso dei Topi (Piazza al Serchio) e dulcis in fundo, il Fosso del Boddone (Fabbriche di Vergemoli).

Nonostante tutti questi nomi maschili o femminili che fossero, i vecchi dicevano che di un fiume si può riconoscere il suo sesso dal suo andamento. Ci sono fiumi maschi, nervosi e irruenti. E ci sono fiumi donna, che amano le curve e la varietà del paesaggio. Quello che le accomuna però è il solito destino, fra mille difficoltà il loro arrivo è ugualmente il mare... Sarà per questo che noi uomini siamo così legati ai fiumi: sono la metafora della vita...


Bibliografia

  • Tesi di Laurea in Linguistica Generale  Corso di Laurea Specialistica in Lingua e Letteratura Italiana  "Gli idronimi della Lucchesia Analisi dei nomi dei corsi d’acqua della provincia di Lucca" di Gabriele Panigada Relatore Anno Accademico 2012/2013
  • "Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" di Paolo Fantozzi edizioni Le Lettere
Fotografie

  • La foto di copertina (Isola Santa) è tratta da trekking.it
  • La foto del Serchio è tratta dal quotidiano on line Serchio in Diretta
  • La foto del Fiume Esarulo in località Valbona è tratta dal sito amalaspezia.eu
  • La foto del torrente Edron è tratta mulinoisola.it

mercoledì 18 novembre 2020

Chi l'avrebbe mai detto della presenza di una (simil) Stonehenge nel cuore della Valle del Serchio?

Stonehenge, le piramidi di Giza, il sepolcro di Maeshowe nelle Orcadi, non dimenticandoci nemmeno il complesso megalitico di Carnac in Francia o la tomba corridoio di Newgrange nella Repubblica d'Irlanda. Cosa hanno in comune tutte questi costruzioni? Innanzitutto l'età, la loro realizzazione risale intorno al 3000 a.C e analizzando bene vediamo che, chi li ha costruiti (egiziani o antiche popolazione nordiche) erano tutti popoli a stretto contatto con gli elementi della natura. Inoltre si è scoperto che tutte queste edificazioni avevano uno funzione fondamentale, quasi incredibile per l'epoca, erano monumenti connessi alle conoscenze astronomiche. Naturalmente questa teoria non è una teoria che si basa sulle loro leggende, tutt'altro, infatti tutto questo è avvalorato da uno studio scientifico moderno che rientra di fatto nella complessa disciplina dell'archeoastronomia: la cosiddetta scienza delle stelle e delle pietre. Spieghiamoci meglio, e vediamo qual'è la sua esatta definizione: "l'archeoastronomia si occupa di studiare gli avvenimenti celesti in rapporto alle civiltà del passato, cioè di comprendere le conoscenze astronomiche dei popoli antichi e le eventuali applicazioni che essi ne hanno ricavato". Insomma un campo difficilissimo e complicato, per veri esperti, ma comunque sia vale la pena di affrontare visto che ci tocca da vicino... Per meglio capire questo argomento facciamo subito degli esempi pratici. Guardiamo Stonehenge (nella pianura di
Stonehenge

Salisbury, Inghilterra), un sito ritenuto magico soprattutto nel momento del solstizio d'estate, quando il sole attraversa Hell Stone (uno dei famosi triliti a porta li presenti)e cade sull'altare centrale offrendo "il segno celeste" del passaggio stagionale. L'archeoastronomia ha visto che in tutto questo di magico non c'è un bel niente, anzi, questo sottolineava quello che fu lo straordinario investimento di tempo e sforzo umano fatto da queste arcaiche popolazioni per creare una sorta di osservatorio astronomico allineato con il movimento del sole, per regolare in questo modo il ciclo delle stagioni. D'altro canto le prime comunità agricole dipendevano interamente da questo ciclo, il cui corso implicava periodi di abbondanza di cibo (come in estate) e altri di carenza (come l'inverno). Altro esempio pratico lo possiamo notare anche nelle tre piramidi di Giza (Il Cairo): Cheope, Chefrem e Micerino. Ebbene, le tre piramidi pare che siano accuratamente allineate con le stelle che formano la cintura di Orione, creando di fatto una sorta di mappa stellare che farebbe parte di un progetto
astronomico realizzato dai faraoni nel corso del tempo, avanzando così l'ipotesi che gli antichi egizi conoscessero bene il fenomeno astronomico chiamato processione degli equinozi(n.d.r: movimento della Terra che fa cambiare in modo lento ma continuo l'orientamento del suo asse di rotazione rispetto al sfera ideale delle stelle fisse). Insomma, come potete leggere questa è una materia veramente ostica, difficoltosa ad esser compresa a noi uomini del 2020, infatti quello che sorprende ancor di più è pensare come civiltà tanto antiche abbiano avuto conoscenze così sofisticate, che spesso sfuggono alla comprensione dell'uomo moderno.


Questi affascinanti insegnamenti come abbiamo potuto leggere ci trasportano magicamente in luoghi remoti, fra popolazioni primitive e in teorie fantastiche, quasi irreali, non pensiamo però che queste lontane realtà facciano parte di un mondo a noi distante... Anzi, direi proprio che sono a due passi da casa. Gli studi che si sono incentrati su questa tesi "garfagnina" fanno perno su tre protagonisti in particolare: i Liguri Apuani, il Monte Forato e 
quattro chiese medievali della valle. Difatti si presume che il Monte Forato o meglio ancora il profilo di quello che è conosciuto come "l'Omo Morto"(nella foto qui sopra) fosse tenuto a riferimento dagli antichi Apuani per il calcolo dei giorni, a dimostrazione di questo c'è la singolare posizione di quattro chiese della Valle del Serchio, queste chiese (posizionate su delle sommità)sarebbero state
Il Monte Forato

poi costruite su quello che prima della nascita di Cristo era un vero e proprio osservatorio astronomico. Quello che vorrei sottolineare, prima di addentrarmi nell'argomento è nel dire che questo studio non è uno studio fondato su teorie cervellotiche, fatto da dei ciarlatani del momento, la ricerca è seria e concreta e nel caso specifico è stata analizzata dall'archeoastronomo Mauro Peppino Zedda, esperto di fama europea che proprio sull'argomento trattato ha scritto nel 2013 il libro
"Monte Forato e il Duomo di Barga. Tracce di un antico osservatorio dei Liguri Apuani"

Dunque fu proprio quel curioso monte che destò l'attenzione dei nostri antichi avi. Quel foro in quella montagna non era li a caso
ed infatti gli Apuani lo usavano come una sorta di "gnomone". Lo "gnomone", per chi come me non è esperto in materia è quell'asticella presente sulle antiche meridiane, la cui ombra proiettata su un piano serviva per segnare le ore. Il Monte Forato per questa antica popolazione nostrale aveva più o meno la solita funzione, questa funzione permetteva lo studio dei moti della luna e del sole, creando, secondo le loro elaborazioni una tipologia di calendario arcaico. Nella vita degli Apuani il sole e luna erano importantissimi, erano difatti gli artefici del mondo agricolo e la loro osservazione per chi viveva dei frutti della
San Frediano Sommocolonia

natura diventava vitale. Questo metodo consentiva così di contare il tempo e di conoscere il ciclo degli astri, aver nozione di questi elementi aveva un'importanza fondamentale, significava prevedere o programmare i lavori nei campi. Tutto ciò poteva essere permesso da determinati punti d'osservazione, luoghi che Zedda ha identificato nel duomo di Barga, nella chiesa di San Frediano a Sommocolonia e 
nella chiesa di San Michele a Perpoli. Erano questi tre gli osservatori astronomici degli Apuani. Pertanto è da questi studi che si deduce che l'asse d'orientamento del duomo di Barga coincide con il mento dell'Omo Morto, stessa cosa con la chiesa di San Frediano di Sommocolonia, anche il suo asse d'orientamento è rivolto proprio sul medesimo mento. Ed è proprio da lì, da questi punti, che da dietro quel foro situato in quel monte che il sole tramonta perfettamente in determinati periodi dell'anno, è in quel momento che si può ammirare il celebre doppio tramonto, che per noi uomini moderni è un evento puramente
San Michele Perpoli

folcloristico, ma per gli Apuani aveva un valore diverso, questo avvenimento gli permetteva dei calcoli astronomici da applicare nell'agricoltura. Come si sa altrettanta importanza in questo campo lo avevamo i moti lunari e sempre in relazione al Monte Forato questa funzione la faceva la collina dove ora è situata la chiesa di San Michele a Perpoli, lo studio ci dice che da quel punto d'osservazione il tramonto della luna coincide con la fronte dell'Omo Morto. Un'ultima costruzione è stata presa in considerazione ed è la chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Fiattone (comune di Gallicano), essa guarda al tramonto di Venere, pianeta conosciuto dagli antichi popoli come Stella del Mattino.

Santi Pietro e Paolo
Fiattone

Un'ultima curiosità da trarre da tale studio è capire come da questi antichi punti d'osservazione astronomici siano nate poi delle chiese e questo trova risposta nelle cosiddette eredità culturali. Questo fenomeno si ha infatti quando una cultura si sovrappone ad un'altra. L'avvento del cristianesimo in particolare ha integrato dentro di se questi antichi luoghi di culti pagani, in quella continuazione di devozione di quei luoghi che già erano frequentati per l'adorazione di altre divinità. Tanto per essere chiari, i Santi e le Madonne si sono sostituiti in men che non dica agli antichi Dei, ma i luoghi di culto sono spesso rimasti invariati. Non rimane allora che stupirci ancora di tutti i segreti che la nostra terra ancora ci nasconde. Possiamo dire grazie a questi studiosi se ancora oggi continuiamo ad apprendere cose nuove e sorprendenti sulla nostra bella valle. Da parte mia mi scuso con questi ricercatori se in questo mio articolo non sono stato abbastanza meticoloso e diligente nel descrivere accuratamente e con i suoi precisi termini queste scoperte, ma non mi potevo esimere dal raccontare ancora una volta le meraviglie dei nostri luoghi.

Fotografie

  • Doppio tramonto sul Forato foto tratta da Daniele Saisi blog realizzata da "Barga in Fotografia"
  • Monte Forato foto tratta da https://finoincima.altervista.org/
  • L'oMo Morto foto tratta dalla testata giornalistica Serchio in Diretta
  • Chiesa di San Michele a Perpoli foto tratta da https://www.amalaspezia.eu/index.htm

Bibliografia

  • Per saperne di più e avere maggiori delucidazioni: "Monte Forato e il duomo di Barga-Tracce di un antico osservatorio dei Liguri Apuani" di Mauro Peppino Zedda, edito Agorà Nuragica, anno 2013

mercoledì 11 novembre 2020

Quello che (forse) non si è mai saputo sulla I guerra mondiale in Garfagnana (e non solo)

Perdonatemi... Non vorrei essere accusato di vilipendio alla Patria... ma quel 4 novembre 1918 non fu vera gloria. Quel lontano 4 novembre il generale Armando Diaz nel celeberrimo "Bollettino della Vittoria" annunciò agli italiani il trionfo dell'Italia nella I guerra mondiale: "...l'esercito austro- ungarico è annientato, esso ha subito perdite gravissime...". Ma le perdite gravissime non le subì solamente il nostro "nemico". Seicentocinquantamila soldati morti, 950 mila feriti, 345 mila orfani e 546 mila vittime fra i civili, questi erano i numeri italiani riguardanti la Grande Guerra. Forse una qualsiasi vittoria di una qualsiasi guerra vale questo sacrificio? Credo proprio di no. Ma che ci volete fare, c'era da celebrare una vittoria, c'era da glorificare con ogni enfasi possibile il compimento dell'unità nazionale e la realizzazione degli ideali risorgimentali, per il resto, per le bruttezze, le nefandezze e le ingiustizie che avevano generato questa scellerata guerra i governanti del tempo adottarono la medesima difesa che attua lo
struzzo contro i predatori: mettere la testa sotto la sabbia, o meglio ancora buttare la polvere sotto il tappeto, facendo in modo che nessuno sapesse  degli strascichi che portava dietro di sè questa guerra. Strascichi non solo legati ai numeri sopra citati (che già basterebbero)ma anche a tutta una serie di risvolti poco chiari e poco noti, accaduti prima, durante e dopo il conflitto e che purtroppo si rifletterono su tutto il territorio nazionale e in quella piccola porzione d'Italia che si chiamava (e si chiama ancora) Garfagnana. Tutto quello che andremo a raccontare è supportato da vecchie testimonianze di coloro che combatterono questa Grande Guerra, che di grande ebbe poco. 

Tutta questa brutta storia cominciò ben prima che la nostra nazione decidesse di entrare in guerra. L'Italia era infatti divisa fra interventisti (coloro che volevano la guerra) e neutralisti (coloro che non la volevano). Ma fra la fine del 1914 e il maggio 1915 tutto cambiò, si passò da un convinto neutralismo al più acceso nazionalismo, trascinando di fatto gran parte dell'opinione pubblica su posizioni belligeranti. Un risultato ottenuto attraverso una capillare organizzazione del consenso, una delle prime attuate in maniera così minuziosa in Italia, che avrebbe coinvolto scrittori, testate giornalistiche e intellettuali. La stessa cosa accadde anche in Garfagnana. La stampa locale non aveva più dubbi, dalle posizioni attendiste passò in men che non si dica ad un convinto si alla guerra: "...è l'occasione per la Garfagnana di inserirsi nella storia nazionale e prendere parte alla nascita della nuova società...", così scriveva "La Squilla Apuana". Dello stesso avviso "La Garfagnana" che

a tambur battente pubblicava poesie ed articoli interventisti. Ma chi era che spingeva un'intera nazione verso la guerra? Cosa c'era dietro a questo mutamento? L'industria italiana dalla guerra trasse profitti enormi. Qualche esempio? Fra le industrie più note l'Ansaldo fatturò due volte e si fece pagare due volte un'intera fornitura di cannoni o l'Ilva che al tempo investì una cospicua somma di denaro per finanziare la stampa nazionale e locale perchè creasse nell'opinione pubblica un clima complessivo di consenso alla guerra. Anche la S.M.I prese la palla al balzo e fiutando l'affare convertì la sua produzione in prodotti finiti per l'industria militare e in soli undici mesi (nel 1916) aprì una fabbrica di munizioni a Fornaci di Barga (l'attuale K.M.E). In barba a qualsiasi forma di malcostume da parte dei potentati del tempo "Il Camporgiano" rimase voce libera e rivolgendosi proprio ai ricchi industriali cosi scrisse: "...gli uomini garfagnini ignari nelle loro campagne non vogliono la guerra. Il popolo che lavora, dolora per avere un tozzo di pane da sfamare si e no i propri figli, la vita gli si presenta sotto un altro punto di vista, ha tutt'altro che per il capo i vostri grilli, le vostre chimere, le vostre utopie che l'oziosaggine vi fa passare per fantasia durante il chilo dei vostri lauti pranzi. Se c'è invero una guerra che va combattuta è una guerra interna: all'analfabetismo, alle terre incolte, alle zone malariche, che sono la causa prima della delinquenza". Nonostante questo il 24 maggio 1915 l'Italia entrò in guerra. Nei nostri libri di storia e nella maggior parte della letteratura che parla di questo conflitto si è sempre raccontato di battaglie, di soldati, del Piave che mormorava, di Caporetto e così via, tralasciando di fatto altre incredibili tragedie che i soldati italiani subirono. Infatti non era sufficiente combattere e vincere il nemico per portare a casa la pelle, bisognava salvarsi anche dal proprio esercito... Si, avete capito bene... Si aggiungeva così tragedia nella tragedia. Ma facciamo parlare ancora una volta i numeri: 870 mila militari denunciati, 470 per renitenza, 350 mila il numero dei processi
celebrati, 170 mila le condanne di cui 111 mila per diserzione, 220 mila pene detentive, tra le quali 15 mila ergastoli e infine ciliegina sulla torta, oltre 4 mila condanne a morte, 750 eseguite. Luigi Cadorna (Capo di Stato maggiore dell'esercito) era stato chiaro con i suoi ufficiali, aveva ordinato la massima severità onde mantenere rispetto e disciplina. Di questo se ne rese subito conto Mario di Castelnuovo Garfagnana(classe 1895): "I soldati che si rifiutavano di uscire dalle trincee durante un'assalto potevano essere colpiti alle spalle dai plotoni dei carabinieri". Il motto del generalissimo Cadorna d'altronde non lasciava dubbi: "Morire, non ripiegare". "Perdipiù le lettere che scrivevo a casa -
 continua Mario- mi venivano aperte e lette dagli addetti". Difatti se la lettera del soldato conteneva qualcosa di non pertinente si rischiava seriamente il carcere militare. L'aspetto più tragico furono comunque le condanne a morte. Fra l'ottobre 1915 e l'ottobre 1917 furono eseguite dall'esercito italiano 140 esecuzioni capitali contro i propri soldati. I motivi di ciò erano fra i più assurdi e disparati, si poteva essere fucilati per un ritardo dopo una licenza o per essere stato sorpreso a scrivere una frase ingiuriosa contro un superiore. Si può così anche capire i motivi per cui molti soldati disertavano. Anche perchè se non morivi durante un'assalto alla trincea nemica, rischiavi seriamente che il cervello partisse... La nota offesa "scemo di guerra" nacque proprio durante la I guerra
mondiale. Salvarsi da un assalto ad una trincea nemica lasciava segni psichici indelebili nella testa del povero soldato, altrettanto effetto lo facevano i bombardamenti. Per questi uomini parlavano le cartelle cliniche: "tremori irrefrenabili, ipersensibilità ai rumori, uomini inespressivi, che volgono intorno a sè lo sguardo come uccelli chiusi in gabbia, che camminano con le braccia a penzoloni e piangono in silenzio". Per 40 mila di loro si sarebbero aperte le porte dei manicomi e alcuni di loro erano garfagnini. Al loro rientro in Garfagnana buona parte delle loro famiglie preferì non farle ricoverare, sobbarcandosi di fatto tutte le difficoltà che comportava una persona del genere, ma l'onta non finì li, le autorità (militari)locali fecero visita a queste famiglie, ma non per una parola di conforto o per qualche aiuto, per loro questi uomini erano motivo di vergogna, qualcosa che andava nascosto, era meglio se non facevano vita di paese, erano persone da occultare alla vista dei civili e degli altri soldati che ancora combattevano. Quello che è certo, che alternative per questi soldati ce n'erano poche, quelli che non morivano o non diventavano pazzi venivano fatti prigionieri dagli austriaci. Erano 600 mila i prigionieri italiani, molti di loro (fra i quali anche garfagnini che non fecero più ritorno a casa) furono inviati nei campi di prigionia di Mauthausen (tristemente noto anche nella II seconda guerra mondiale) Theresienstadt (Boemia), Rastatt e Celle (Germania). E' giusto altresì chiarire che tutti questi italiani non furono catturati durante azioni militari, molti di loro si lasciarono catturare, sfuggendo in questo modo alla prima linea. Era una scelta
disperata, dettata dalla speranza di trovare nei campi di prigionia delle condizioni migliori rispetto a quella delle trincee. Ma così non sarà. Terribile fu il loro destino, reso ancor più crudele e beffardo dal nostro governo. Il trattato stipulato all'Aja nel 1907 all'articolo 7 così diceva: "... ai prigionieri deve essere garantito un trattamento alimentare equivalente a quello riservato alle truppe del Paese che li ha catturati". La situazione però anche da un punto di vista alimentare era drammatica. Le nazioni europee non avevano abbastanza cibo per sfamare la propria gente, figurarsi se lo avevano da dare ai prigionieri di un'altra nazione. Fattostà che questo famigerato articolo 7 andò eluso, ma per ovviare a ciò, grazie agli osservatori svizzeri fu deciso che ogni nazione doveva provvedere ai propri prigionieri nei campi di prigionia dove erano reclusi e così fecero Francia, Germania ed Inghilterra. E l'Italia? Il governo italiano in perfetta sintonia con il comando supremo dell'esercito, rifiutò sempre ogni tipo d'intervento statale per i prigionieri italiani, tollerando appena l'invio d'aiuti da parte dei privati cittadini. Questo mancato sostegno secondo le distorte menti dei governanti italiani doveva servire come deterrente per coloro che avessero intenzione di sfuggire alla durezza della vita al fronte con la resa al nemico. Questo "giochino" costò la vita a 100 mila nostri
connazionali, che da quei campi di prigionia non fecero più ritorno. Dall'altra parte, anche gli austriaci (legati dalla medesima motivazione) si lasciavano catturare dagli italiani e ben 500 di questi trovarono il loro luogo di detenzione a Castelnuovo. La loro prigione era nelle scuola "Giovanni Pascoli" e in località Carbonia presso la sede della S.E.L.T Valdarno. In Garfagnana vennero impiegati: "nel rimediare la deficienza delle braccia, dove questa minacci il buon andamento delle opere pubbliche e dei raccolti agricoli". 

Arrivò anche quel fatidico 4 novembre 1918 e la guerra finì. Non finirono però i dolori, le pene e le sofferenze. I soldati garfagnini che persero la vita in quella carneficina furono centinaia: nel comune di Castelnuovo 101 giovani non fecero ritorno, 42 a Piazza al Serchio, ma le salme continuarono ad affluire nella valle anche anni dopo la fine del conflitto, la continuazione del patimento andò avanti ancora per molto tempo. Tutta la Garfagnana si strinse intorno ai propri reduci, molti di questi tornarono a casa sfigurati e mutilati. Quasi un milione furono infatti i feriti gravi: 500 mila mutilati, 74 mila storpi, 21 mila rimasti senza un occhio, quasi duemila completamente ciechi, centoventi senza mani, quasi diecimila fra sordi e muti e oltre cinquemila sfigurati nel viso... Tutti ragazzi di vent'anni o poco più. Questi diventarono i cosiddetti "i grandi mutilati", che pretendevano (giustamente) dallo Stato una contropartita per il loro sacrificio: posti di lavoro, pensioni, assistenza alle vedove, agli orfani. Dopo anni di vita al fronte questi uomini non intendevano riprendere la vita di prima. Fu una speranza ben presto disillusa dal governo. Una delusione che aprirà le porte ad un'altra sventura: il fascismo, che furbescamente fece leva sul patriottismo e la rivincita sociale di queste persone. Rimane il fatto che i garfagnini e gli italiani in genere si resero conto dell'immane disgrazia accaduta quando tutto ormai era finito. Infarciti di propaganda bellica e di proclami interventisti la gente capì troppo tardi che la guerra,
quella vera non era affatto come la raccontavano i giornali e i manuali militari. Nemmeno l'ombra di grandi manovre, di generali paterni, di eroici combattimenti. Quello che rimase di questa assurda chimera furono orfani, vedove, mutilati, prigionieri e tanti morti.


Bibliografia    

  • "Gli ammutinati delle trincee" di Marco Rossi BFS Edizioni 2014
  • "La Grande menzogna" di Valerio Gigante, Luca Kocci, Sergio Tanzarella, editore Dissensi anno 2015
  • "Dal fascismo alla Resistenza, la Garfagnana fra le due guerre mondiali" di Oscar Guidi. Banca dell'identità e della Memoria anno 2014
  • Appunti personali della maestra Moni Albertina
Sitografia

mercoledì 4 novembre 2020

Cronaca di un'assedio in terra di Garfagnana. Correva l'anno 1613...

E' anche grazie a  Miguel De Cervantes, Ludovico Ariosto e Chretien de Troyes che fin da bambini ci siamo innamorati di quei valorosi cavalieri medievali e delle loro epiche imprese. Sono questi autori fra i principali alfieri del "romanzo cavalleresco". Guerre e imprese militari sono sempre presenti in questo tipo di letteratura, dove il protagonista diventa il cavaliere senza macchia e senza peccato. Ma una cosa è leggere un romanzo e un'altra cosa ancora è leggere le reali cronache di quei lontani tempi. Per dirla tutta, talvolta, anche i libri di storia che studiavamo a scuola c'hanno stimolato questa curiosità, ma poi questo desiderio di sapere veniva ucciso da date, luoghi e nomi a dir poco noiosi e pesanti, non permettendoci mai di entrare nel cuore di quello che potevano essere le vicende e gli aneddoti che si celavano dietro a un'assedio o a una battaglia, non dandoci fra altro l'essenza, la percezione e il sentimento che passava per "il cor umano". Leggere oggi di queste battaglie accadute secoli fa è come leggere su un giornale un fatto di cronaca successo il giorno prima, con la differenza che questi antichi scritti hanno il potere di catapultarci in un mondo fiabesco, completamente diverso dal nostro, un mondo quasi irreale, ma che nella realtà dei tempi remoti era veramente fatto da epici cavalieri, sanguinosi combattimenti e da valorosi personaggi, cose queste che avevamo solamente visto

nei cinema o letto nei racconti d'avventura. Ecco allora, nella drammaticità di quei fatti quello che accadde in terra di Garfagnana, molto, ma molto tempo fa. Correva l'anno 1613 e quello che andremo  fedelmente a raccontare dai resoconti dell'epoca ci riporta  a quella che fu l'ultima guerra e una delle ultimissime battaglie fra il Ducato di Modena e la Repubblica di Lucca.

Antefatto 

La pace in Garfagnana regnava già da molto tempo, il re di Spagna era riuscito fra mille difficoltà a "mettere la briglia" sia ai lucchesi che hai modenesi, ma nonostante ciò ai lucchesi stessi non andava proprio giù il fatto che il ducato estense avesse in suo possesso una larga porzione della valle e difatti era secoli che la città della pantera rivendicava in questi luoghi svariati domini. Infatti ogni scusa era buona per rinfocolare smanie di guerra e minacce di occupazione di terre sotto il controllo di Modena. Destino volle, che di li a poco l'occasione capitò propizia. Come infatti avviene spesso ad accendere la miccia per il "casus belli" fu un'insulsa questione di confine: quattro stolte pecore "modenesi" che erano al pascolo avevano impunemente "invaso" i territori lucchesi in quel di Motrone. Questo bastò (e sottolineerei, avanzò...) per riattizzare quei fuochi che da anni erano sopiti sotto la cenere. Rimane il fatto che un branco di pecore ebbe la forza di smuovere migliaia di soldati e di dare il via a sanguinose e violente lotte.

La vicenda

Era il 22 di maggio 1613 quando i lucchesi entrarono nei territori modenesi e precisamente nel borgo di Vallico, luogo di provenienza delle ignare pecore. Lì, misero a ferro e fuoco tutta la campagna, questi nefasti soldati arrivarono perfino a scortecciare i castagni affinchè seccassero e a tagliare tutti gli alberi da frutto. Il probo conte modenese Tiberio Ricci insieme agli abitanti del paese convinse gli assalitori a rinunciare a ulteriori e violente "imprese". Nello stesso tempo a Modena visto il pericolo che correva la provincia garfagnina stavano celermente riunendo le guarnigioni, pronte ad entrare nella valle a protezione delle loro terre: "Il duca spedì colà con grosso nerbo di gente il Marchese Ippolito Bentivoglio suo generale. Poco tempo dopo gli tenner dietro il Principe Alfonso primogenito del Duca e susseguentemente Luigi suo fratello per assistere a quella guerra. Condusse quelli seco fra le altre milizie altre quattro compagnie di cavalleria, composta la maggior parte di gente nobile, e gente che al foco d'altre più riguardevoli guerre avea data prova del suo valore. Sfilarono poi a quella volta migliaia di fanterie lombarde con artiglierie e gran salmerie di vettovaglie" . Dal canto suo anche il generale lucchese Lucchesini (così destino volle che si chiamasse...)fece altrettanto, riunì un gran numero di soldati a Gallicano e un'altra parte di essi (ben ottocento) fu destinato a rafforzare la già lucchese Castiglione. Fra una schermaglia e l'altra arrivò così il 22 luglio e i lucchesi decisero di sferrare un perentorio e forse decisivo attacco a Monte Perpoli, luogo di fondamentale importanza strategica. Da q
Monte Perpoli
uella sommità, infatti si apriva la strada per Castelnuovo e per il cuore della Garfagnana. Di questa eventuale conquista il primo paese a farne le spese fu Cascio. Il fato volle che quel borgo si trovasse proprio sulla medesima strada che portava all'agognata meta: "Giunto a Cascio, distrutta e senza alcun presidio, fu dagli abitanti, presi di sorpresa e col timore di essere uccisi, a persuasione del curato loro, che era anche lucchese, incontrato in processione con la Croce, il clero vilmente cedette la terra". Senza ormai più nessun ostacolo davanti, la strada per la conquista della collina di Monte Perpoli si spalancava alle orde lucchesi e Castelnuovo, capitale estense in Garfagnana, tremava dalla paura. Gli scontri continuarono violentissimi per giorni e giorni, perdere Castelnuovo avrebbe significato una sconfitta politica e militare senza uguali, perciò bisognava difendere con ogni mezzo e con ogni soldato il potenziale attacco alla cittadina. Con grande sorpresa a un certo punto della battaglia, Dio volle per gli Estensi, che i lucchesi forse soddisfatti delle vendette avute decisero di rinunciare nell'impresa, ritirandosi in men che non si dica nei loro forti, ma un fatto a dir poco curioso e casuale dette il "la" al contrattacco modenese: "Nel medesimo tempo della ritirata, una torricella, piena di polvere d'archibugio, inserita nel muro della fortezza di Gallicano (n.d.r: paese già sotto Lucca), prese fuoco esplodendo con grande rumore. Tutti furono convinti che Gallicano fosse stato tradito e preso. Da 
Mappa di Gallicano
con torri e mura
(foto tratta da"Il Pettorale"

tutti fu creduto che tal fuoco fosse opera di una donna di Molazzana, maritata in Gallicano, che fu quella che avvisò li medesimi modenesi all'assalto di Gallicano con dirgli che non c'era chi lo difendesse, come in effetti era vero perchè infatti il primo assalto, lo sostennero i vecchi, i preti e le donne e se non fosse stato per le donne di Gallicano, le quali di tanto in tanto portavano qualche cosa da bere, risultando di grande aiuto rinfrancando gli assediati e caricandoli i loro moschetti".
Per ben capirsi, quattrocento "valorosi" soldati lucchesi messi a difesa del paese di Gallicano, al sentir lo scoppio casuale di una torre e credendo di conseguenza di essere attaccati, si dettero a precipitosa fuga, abbandonando così i gallicanesi al loro amaro destino. Detto fatto, di fronte a ciò il principe Alfonso d'Este, grazie anche anche alla soffiata della suddetta "signora" di Molazzana ottenne grande speranza di conquistare Gallicano, la presa del paese sarebbe stata decisiva per le sorti della guerra. In quel castello c'erano tutti gli armamenti lucchesi, nonchè tutte le provviste che avrebbero consentito il proseguimento di quella maledetta guerra. Ma come abbiamo letto l'intrepido popolo di Gallicano riuscì a resistere, intanto i lucchesi rinvennero e i modenesi furono costretti a ritirarsi dall'assedio in attesa anch'essi di rinforzi. Gli Estensi comunque sia non demorsero e una volta giunti a destinazione i suddetti rinforzi, nella stessa notte conquistarono il Monte Termina, posto proprio sopra Gallicano: "Nell'ardore della battaglia essendo sopraggiunta la notte riuscì ai soldati estensi d'impadronirsi d'un forte soprastante quel castello, dal quale con tiri di moschetto e più di cannoni cominciarono nel dì seguente a infestar cotanto la guarnigione di Gallicano, che non potevano nè guardar le mura, nè passar per le strade essendo troppo scoperti. Allora i lucchesi per riparar a questo disordine, con celerità mirabile piantarono in sito più
eminente un altro forte, chiamato Lo Zingaro, perchè fabbricato dal colonnello del borgo, che portava quello cognome, e soprannome, Soldato di molto valore
". Ecco che, come vuole la regola del romanzo cavalleresco, comparire nella nostra storia l'ardito cavaliere di turno: messer Giovanni Vitali da Pavia, colonnello nel borgo di Gallicano, da tutti semplicemente conosciuto come lo Zingaro... C'era poco da fare, se si voleva salvare Gallicano il forte dello "Zingaro"(posto in un'altura ancora superiore al forte del Monte Termina), avrebbe dovuto resistere fino all'estremo sacrificio di tutti i suoi uomini e questo lo sapevano bene anche i modenesi. Pertanto, al sorgere del nuovo giorno gli Estensi radunate tutte le forze investirono quel forte con tremendo assalto: "Durò il conflitto per quattro ore con grande ardore, e sprezzo della vita da ambedue le parti. Entrarono anche molti dentro arrampicandosi per l'erto monte fin sui bastioni, e si venne alle spade, ma furono ributtati e costretti finalmente gli assalitori a ritirarsi. Vi perirono molti de' lucchesi, ma molti più de' modenesi, perchè esposti alle grandine delle moschetterie, e tra i non pochi feriti vi fu Alberto Balugoli con due altri Nobili di Modena". 
Lo stesso Zingaro, seppur colonello, non rimase a guardare e si buttò impavido ed indomito a capofitto nei sanguinosi scontri: "Ci fu uno dei modenesi, che per
mostrare maggiore coraggio degli altri, azzardò di saltare sul bastione e metter la mano sopra un moschetto, per poi fuggire, ma Zingaro, afferrandolo per il collo, con il suo pugnale gli tagliò la gola".
Dall'altra parte stessa fortuna non ebbe l'altrettanto ardimentoso capitano estense Nicolò Ponticelli: "...e fra questi perirono il Capitano Nicolò Ponticelli da Castelnuovo colpito al collo da un tiro di moschetto". Viste le gravi perdite il morale dei modenesi era ormai sotto i tacchi, c'era da ricompattare le file e riorganizzare l'esercito, quello che però era ormai chiaro nelle teste degli estensi che ogni piano e ogni progetto di conquistare Gallicano era definitivamente fallito. Quello che invece non si era perso era il desiderio di fargliela pagare cara ai lucchesi e le mire modenesi si spostarono clamorosamente sull'obbiettivo più grosso: sull'enclave lucchese di Castiglione Garfagnana: "Pertanto veggendosi troppo difficile l'acquisto di Gallicano, di li a pochi giorni il Principe Luigi e il Bentivoglio determinarono di portarli all'assedio della forte Terra, e Rocca di Castiglione". Prima di
Castiglione

abbandonare la zona, i modenesi a ricordo di quello che i lucchesi fecero a Vallico mesi prima, decisero di lasciare anch'essi il medesimo "regalo", cosicchè tutti i castagni furono miseramente scorticati, in questo modo il prossimo autunno non avrebbero dato i loro preziosi frutti.

I giorni della gloria 

Furono due gli eroi di questa guerra a salire sugli altari della gloria: il generale Iacopo Lucchesini, che grazie a questo conflitto fu nominato Magistrato dell'Anzianato e il leggendario Zingaro, il vero e assoluto protagonista di tutta questa vicenda: "Consiglio generale del 7 novembre 1613. Dal consiglio generale fu decreto: che visto il valore dimostrato dal colonnello Giovanni Vitali da Pavia, detto lo Zingaro nell'ultima guerra di Garfagnana, contro il duca di Modena, si intenda costituita dote alle due sue figlie nate, di scudi duegento per ciascuna, da pagarseli dall'Uffizio delle entrate quando si mariteranno o si monacheranno, e a esso per aiuto di costà, si intenda fatto di donazione di scudi cento da pagarseli come sopra". 

Epilogo

La guerra come scritto continuò con altrettanti violenti scontri in altri lidi garfagnini, finchè un  bel giorno qualcuno si rinvenne che era arrivato il momento di chiudere questa inutile guerra e allora come due bambini capricciosi Modena e Lucca furono presi per le orecchie dalle potentissime autorità milanesi e spagnole che così decretarono: "Che i sudditi del Signor Duca di Modena continuino la possessione di tutti i loro beni che furono loro aggiudicati per il lodo del Signor Conte Fuentes, cioè quelli che possedevano prima della guerra. Che i lucchesi lascino i luoghi i posti occupati sul territorio estense, demoliscano tutti i loro forti fabbricati in questa occasione. Che il Duca Cesare anch'egli faccia demolire i posti che tiene in territorio lucchese"... Come si suole dire: tanto rumore per nulla... Dopo tutto lo spargimento di sangue, le lotte e i morti innocenti, ognuno dei contendenti si riprese le solite terre che aveva prima della guerra. Ringraziando Dio, però, per oltre tre secoli in Garfagnana non si parlò e non si fece più guerra. Tutto ricominciò un giorno di primavera inoltrata. Era il 10 giugno 1940, e qualcuno gridò: "Vincere e vinceremo"...


Bibliografia

  • Biblioteca Statale di Lucca: Manoscritto 754, 856
  • Archivio di Stato di Lucca Offizio Sopra le Differenze dei Confini n°454
  • "Ricerche Istoriche sulla Provincia della Garfagnana" di Domenico Pacchi, anno 1785
  • La foto della mappa di Gallicano è tratta da "Il Pettorale La Rocca di Gallicano" di Fabrizio Riva edito da Maria Pacini Fazzi anno 2020