mercoledì 27 luglio 2016

La tana di Castelvenere. Quando la storia è dentro una grotta...

Laggiù in fondo alla valle scorre il torrente Turritecava, le auto
la grotta di Castelvenere
sembrano piccoli puntini variopinti che si muovono lungo quella striscia bianca che lo costeggia, sopra la testa le pareti che sembrano di marmo salgono a strapiombo fin su la vetta del Monte Gragno, un senso di vertigine ci prende anche se siamo in un ampio piazzale di pietra su cui scorre un piccolo ruscello. Ci ipnotizza e ci affascina quel senso di vuoto sotto i piedi, quelle milioni di tonnellate di pietra sopra la nostra testa e quel vuoto di fronte, rotto in lontananza dall'altra sponda della Valle di Turritecava. Siamo a 650 metri sul livello del mare all'imboccatura della Tana di Castelvenere, un grande imbuto profondo circa 50 metri. In fondo al quale si diramano due gallerie delle quali, quella di sinistra è stata esplorata per 1700 metri. Da questi cunicoli che si
Gli strapiombi del Monte Gragno
restringono e si allargano sgorga continuamente tanta acqua che nell'ampio imbuto d'ingresso si forma un piccolo ruscello e poi giù lungo i fianchi del monte crea un susseguirsi di cascate. Questa è la grotta di Castelvenere, nota anche come buca di Casteltendine, buca di Notrecanipe e buca della Penna di Cardoso, riveste molteplici interessi archeologici, speleologi, storici e naturalistici. Nell'ormai lontano 1975 vi furono rinvenuti dei bronzetti femminili e ermafroditi risalenti a 2500 anni fa, senza dubbio questa grotta (è bene dirlo) si può considerare sicuramente la più importante della valle da un punto di vista archeologico avendo fornito anche parecchi reperti dell'età del bronzo, etruschi e romani. Ma la scoperta più grande rimangono però questi "idoletti" di bronzo, da questi oggetti si presume che la grotta sia stata un tempio della
i bronzetti di Castelvenere
fecondità dove si recavano le donne afflitte da infecondità per implorare gli dei di liberarle dalla sterilità, si ipotizza che ha scopo votivo (un po' come si fa oggi con i santi) questi piccoli manufatti fossero poi depositati dentro l'antro. La datazione di questi oggetti la possiamo collocare a 500 anni prima della nascita di Cristo, si tratta quindi come detto di figure umane molto

schematiche alte fra i 4 e i 5 centimetri, caratterizzate da tratti sessuali marcati ed hanno una terminazione a punta, probabilmente fatti in questo modo perchè si potessero conficcare nel terreno. Sono presenti pochi esemplari (circa 30) con caratteristiche diverse, c'è anche addirittura un bronzetto a forma di cane. Gli archeologi inoltre ci dicono che sono di produzione etrusca e
I bronzetti con
il cane
risalgono al tempo in cui gli etruschi penetrarono nelle nostre terre costruendo piccoli villaggi, nella media e nell'alta valle del Serchio, importante asse di collegamento con le altre aree etrusche a nord dell'appennino. Ma la vita della grotta non finì sicuramente a quel tempo ma continuò oltre, ce lo dicono altri ritrovamenti di epoca romana, tra i quali un piccolo pugnale e non solo,  anche le monete ritrovate ci dicono di una lunga frequentazione di questo luogo, dall'età augustea (43 a.C) fino al III secolo dopo Cristo. Particolarmente abbondanti sono stati i ritrovamenti di ceramiche del I e del II secolo d.C in prevalenza vasellame fine, utilizzato forse per le libagioni (n.d.r: la libagione nelle religioni antiche era un offerta alle divinità di sostanze liquide, tipo: vino,latte ecc..., versate sugli altari o per terra). Intanto passano i secoli e dopo gli etruschi e i romani arriviamo ai longobardi e un piccolo gruppo di materiali fra cui frammenti di terra sigillata africana e di calici di vetro attesta che la grotta è stata
Ritrovamenti nella grotta
utilizzata fino a quell'epoca, forse per un'ultima ripresa delle pratiche del culto pagano o più semplicemente come rifugio nei difficili anni delle guerre gotiche o dell'invasione longobarda a conferma di questo è il muraglione eretto poco sotto l'ingresso, sebbene di datazione incerta pare comunque un'opera di difesa che chiudeva di fatto l'unica via d'accesso alla tana. Con il passar dei secoli la grotta ha perso il suo bel significato originale ed è diventata rifugio per briganti, luogo di regolamento di conti e quanto pare anche di omicidi. Ci viene tramandato oralmente di quella brutta storia che vide la morte di un commerciante di pentole di rame per mano delle guardie ducali, erroneamente fu scambiato per un brigante locale, ci raccontano che questo posto è stato anche luogo di faide comunali per il possesso dei prati per pascolare gli animali sul monte
anche monete romane
Gragno, ma la storia più bella rimane senz'altro la leggenda delle figlie di Venere. Da questa leggenda prende il nome la grotta, andiamo a vedere allora il perchè di questa particolare denominazione. La parola castello etimologicamente parlando ha svariati significati,la parola deriva dal latino medievale castellum che è un diminutivo del classico castrum che ha due significati, uno al singolare castrum e cioè forte e uno al plurale castra che significa accampamento, in questo luogo della montagna garfagnina si dice che vi si accampasse Venere, da qui Castelvenere cioè l'accampamento di Venere. Qui Venere dea dell'amore, della bellezza e sopratutto della fertilità aveva trovato dimora alle sue figlie che spesso veniva a trovare. A queste figlie la dea romana voleva un gran bene sopratutto perchè erano le figlie che nessuno conosceva. Tutti infatti conoscevano i suoi ben più famosi figli
Per arrivare alla grotta
maschi come Enea o il più conosciuto Cupido, ma a queste ragazze volle dare un compito comunque importante per farle sentire anche loro considerate, quello di fare un censimento nella nostra valle di tutte le donne che non potevano avere bambini per invitarle poi in questa grotta per essere fecondate da Venere in persona per così poi popolare una valle che per millenni era stata inaccessibile e sterile sotto tutti i punti di vista. Così grazie a Venere le donne che non potevano avere figli riuscirono a partorire e con la loro prole poterono coltivare e rendere fertile la terra di questa valle, considerata misera e povera fino all'arrivo delle figlie di Venere. Questa leggenda si dice proprio che faccia parte del culto della dea stessa che gli antichi avevano presso questa grotta, quindi anche questa storia sarebbe vecchia di ben 2000 anni.

La nostra valle non finisce mai di stupirci, delle volte siamo a due passi da tesori e da luoghi dal valore e dalle bellezza inestimabile e che spesso nessuno conosce, questa è una buona occasione per visitare quella che è un vero e proprio tesoro della nostra valle.
Vorrei chiudere con una nota polemica se mi consentite. Tutti questi tesori sopra citati sono visitabili presso il Museo Nazionale di
L'interno della grotta
Villa Guinigi a Lucca, così come potrete visitare tante altre cose e scoperte della nostra Garfagnana in giro per la provincia e per la regione. Ma quando ci decideremo di far tornare tutto a casa e di fare noi garfagnini un museo che accolga tutte le nostre bellezze sparse per l'Italia? Un sogno questo e come tale rimarrà...

mercoledì 13 luglio 2016

Gli Apuani e il culto dei morti. Usi, costumi e religione di un popolo mai domo

"...Nuje simmo serie...appartenimmo a morte!". "Noi siamo seri
apparteniamo alla morte", così si conclude a mio avviso una delle più belle poesie di sempre del panorama italiano: 'A livella" di Antonio De Curtis per tutti conosciuto semplicemente come Totò. La morte infatti da sempre è considerata una cosa seria da tutti i popoli, da tutte le religioni, da chi crede e da chi non crede e il culto stesso dei morti è l'espressione della pietà che gli esseri umani provano verso i defunti e della speranza di una vita futura. Il culto dei morti si manifesta nei riti funebri diffusi in tutte le società, nella costruzione dei cimiteri, nella elaborazione di credenze relative al destino dell'anima e all'aldilà, e questo già da tempi lontanissimi, addirittura la specie Homo Sapiens ha da sempre sepolto i morti. In molte sepolture preistoriche sono stati ritrovati resti di corpi dipinti con l'ocra e decorati con conchiglie, corna di cervo e altri oggetti ornamentali.Questo fa pensare che già i nostri lontani antenati praticassero riti funebri e avessero elaborato credenze relative al destino dei morti e all'aldilà e così è per quanto riguarda gli antichi abitanti della Garfagnana: gli Apuani.
la natura, oggetto di
adorazione degli Apuani
Innanzitutto andiamo ad analizzare qual'era la religione di questi nostri antichi antenati, poichè è la religione stessa che è legata a doppio filo con il culto dei morti. La loro adorazione consisteva nel venerare le forze della natura,la loro era una speciale adorazione per foreste, boschi, vette e fiumi, tutti i luoghi di culto erano segnalati da una pietra o da un simulacro e tutti i nomi di divinità che ci sono pervenuti sono di origine celtica. La divinità guaritrice ad esempio si chiamava Bormanus che i romani interpretarono come Apollo, mentre Poeninus divinità delle montagne fu (sempre dai romani) equiparata a Giove, il Dio Bekkos, da cui prende il nome il Monte Bego era rappresentato nelle incisioni rupestri 
come un Minotauro, cioè metà uomo e metà toro, sempre dai celti gli Apuani presero anche il culto del Dio Belenos protettore della luce, che era venerato fino alle coste adriatiche italiane, non mancava nemmeno il culto di Ercole, come in tante altre popolazione italiche. Naturalmente a tutta questa adorazione di Dei venivano associati svariati riti, uno dei più singolari era sicuramente l'usanza di gettare nei fiumi o nei torrenti oggetti personali come armi e gioielli, ciò probabilmente veniva fatto per due motivi a seconda dei casi. Il primo motivo consisteva nell'offrire questi preziosi monili alla divinità stessa, il secondo ad impedire ad altri l'uso degli oggetti personali di un defunto e proprio ai defunti era dedicato un rito che forse secondo miei studi e in tal modo era praticato solo dai Liguri. Ma prima facciamo un po' di cronistoria, tanto per chiarire meglio l'argomento. Già 4000 anni prima di Cristo (così dicono gli scienziati) l'uomo cominciò a stabilirsi in maniera permanente nella nostra valle, si costituirono i primi villaggi, i primi allevamenti e le prime coltivazioni, con la stabilità si cominciarono pure a seppellire i morti e i primi ritrovamenti risalenti al Paleolitico medio vedono i morti seppelliti sui fianchi o seduti e talvolta supini, posti sotto le capanne o in grotte. Verso il 2000 a.C si sviluppa il rito apuano dell'incinerazione. I villaggi stavano diventando
sempre più grandi, si costituirono i primi castellari (n.d.r: insediamenti apuani collocati su sommità)e la presenza di questi centri abitati testimonia anche la presenza di vere e proprie necropoli. Queste tombe, riferiscono gli archeologi, si sono conservate nei secoli piuttosto bene, sia perchè scavate nel sottosuolo, sia perchè oggetto di superstizione.I corredi funebri ammassati accanto ai morti offrono agli studiosi una panoramica di oggetti di uso comune, si trovano gioielli, vasi, ciotole tutti provenienti da questi "campi di urne", dove gli Apuani erano soliti incendiare i propri morti. Infatti come detto questa è una pratica quasi esclusiva degli antenati garfagnini, un rito nato a quanto pare nell'età del bronzo e portato avanti fino ad epoca romana (circa 5000 mila anni) con la sola variante dei materiali delle tombe: non più lastre, ma tegoloni, non più terracotta locale ma vasi ed accessori in uso al mondo romano. Ma guardiamo come si svolgeva questo rito apuano dell'incinerazione.Il rito di cremazione più noto ai posteri rimane quello descritto da
Oggetti ritrovati in tombe apuane
Omero nell'Iliade e con buona probabilità non si discostava molto da quello nostrale.

Dopo che era stata tagliata una quantità di legname dai boschi, veniva innalzata una pira e più grande era questa pira e più grande era l'importanza del defunto. All'alba, alla presenza di tutti gli abitanti del villaggio la catasta di legna veniva incendiata e solo il mattino seguente i fratelli e i parenti più stretti dopo aver spento le ultime braci con il vino raccoglievano i resti in un urna che veniva deposta in una buca scavata nel terreno e protetta da pietre. Le necropoli liguri erano caratterizzate da tombe cosiddette a "cassetta"( n.d.r: la forma ricorda difatti una simil-cassetta) costituite da rozze lastre di pietra locale, quattro di
un esempio di tomba acassetta
queste pietre formavano le pareti(dove si sarebbe collocata l'urna con le ceneri),le altre due avrebbero fatto, una il fondo ed una il coperchio. Talvolta tutto intorno potevano avere la protezione di altre pietre messe li a fare da funzione drenante. Le

dimensione di queste tombe a cassetta variavano, andavano da due metri, a quaranta centimetri di lunghezza e da un metro, a venti centimetri di larghezza. Era usanza che nella tombe venissero messi oggetti personali del defunto, come probabilmente a credere in un ulteriore vita nell'aldilà, inoltre con ogni probabilità la tomba veniva posta nello stesso luogo dove era stata innalzata la pira, come testimoniano i resti carbonizzati ritrovati intorno alle fosse che custodivano "la cassetta". Nella stessa tomba poteva venire sepolto più di un morto, talvolta un uomo ed un bambino. Ma guardiamo come era formato un "cimitero" Ligure Apuano. Le necropoli presentavano dei veri e propri recinti tombali, questi recinti seguivano in genere l’andamento del terreno, erano di solito a pianta quadrata o circolare, si ipotizza che tale differenza fosse derivata dal fatto che le strutture a forma circolare fossero destinate ad individui di sesso maschile che svolgevano ruoli importanti, mentre le cassette a recinto quadrato contenevano i resti di individui appartenenti allo stesso nucleo
Una tomba a cassetta
familiare
. Le tombe solitamente erano sormontate da cumulo di sassi disposti intenzionalmente a copertura della lastra di chiusura della cassetta.
Ancora riti, usanze e costumi di questa indomita gente che non finirà mai di sorprenderci e che ci rendono sempre più fieri di averli avuti come il primo vero e proprio popolo che abitò la nostra Garfagnana.

mercoledì 6 luglio 2016

La mirabolante vita del Beato Ercolano in Garfagnana: miracoli, pacificazioni e leggende

Predicazioni nel 1400
Diciamocelo chiaramente il mondo è stato e sarà sempre un mondo fatto da molta cattiveria, dove il più forte mangia il più piccolo, dove i mali che affliggono il nostro pianete da millenni sono sempre i soliti: carestie, povertà e guerre. Niente è cambiato, sicuramente la situazione è migliorata (forse...) con l'andare dei secoli, ma queste caratteristiche principali esistono sempre e sempre esisteranno. Infatti non era un mondo migliore (tutt'altro) quello dove nacque la voglia e la volontà di predicare la parola del Signore dei frati francescani e domenicani in giro per l'Italia. Siamo nel XV secolo e il quadro generale della situazione del mondo allora conosciuto era un vero e proprio disastro. L'Europa fatta di nazioni cristiane era molto spesso divisa. Re cristiani che non facevano altro che organizzare guerre per difendersi da altri Re cristiani per estendere il loro potere economico e bestemmia suprema, alcuni dicevano di agire nel nome di Dio. Anche la nostra "Italietta" era divisa: stati contro altri stati, città contro città. Dentro la Chiesa Cattolica poi regnava il caos assoluto, era il secolo del grande scisma, dei Papi a Roma e degli anti papi ad Avignone, per non parlare poi degli scandali all'interno di essa, con un clero non all'altezza del suo sacro compito. Proprio in questo grande "carrozzone" in quei decenni si sviluppò un movimento di predicazione che aveva come compito il risveglio spirituale ed ecclesiale attraverso il contatto diretto con la gente. Si andava quindi di città in città, di paese in paese e si predicava contro lo strozzinaggio, il lusso, contro la corruzione ed il gioco d'azzardo, inoltre contro lo sfruttamento e la perversione sessuale. In prima linea in questa predicazione erano gli ordini mendicanti dei domenicani e dei francescani. Questi organizzavano gruppi ambulanti di missionari, muniti di autorizzazione papale, mandati e  chiamati talvolta anche dai governanti locali che speravano con questa operazione in un ritorno positivo di immagine. Anche la Garfagnana ebbe i suoi predicatori e fra questi spiccava su tutti (in quel periodo) la figura del francescano Ercolano da Piegaro. Il beato
Il beato Ercolano
particolare di un dipinto di Azzi
del 1638
Ercolano lasciò un segno indelebile nella nostra valle, a lui si debbono fatti straordinari e pacificazioni che lo hanno portato ancora oggi ad essere venerato ed osannato dai fedeli. La sua vita vide luce appunto a Piegaro, un paesino in provincia di Perugia sui confini toscani intorno al 1390. Insieme al suo amico Alberto da Sarteano decise così in gioventù di entrare nell'ordine di San Francesco. Con il tempo insieme al beato Alberto passò dai frati conventuali (per intendersi quelli che sono sono nella basilica di Assisi) ai francescani osservanti, che sotto la guida di San Bernardino da Siena proponevano il ritorno ad antiche e rigide regole. Fu così che si incamminò per l'alta Toscana fino a raggiungere Lucca, quando nel duomo della città stava predicando la Quaresima, successe l'imponderabile. I fiorentini assalirono la città e la misero sotto assedio. I giorni passavano e Lucca ormai era allo stremo della sua resistenza, stretta inesorabilmente dai morsi della fame, fu a questo punto che il buon frate vista l'emergenza non esitò a dare il suo aiuto alla città delle mura. Si incamminò nelle campagne e riuscì a rimediare ed a introdurre oltre le mura, grano ed animali da carne, ma non solo, predisse l'imminente ritiro delle truppe fiorentine, cosa che puntualmente si verificò. Frà Ercolano divenne con questo episodio una figura intoccabile e in compenso i lucchesi gli donarono il convento di Pozzuolo. Ma non era qui nella piana lucchese dove sentiva di svolgere a pieno la sua missione, lui amava i poveri e con i poveri voleva stare e la Garfagnana a quel tempo faceva il caso suo.Arrivò così nella nostra valle nel 1414 e incoraggiato dall'amico Papa Eugenio IV fondò due conventi , uno nei pressi di Barga e uno a Pieve Fosciana. In uno di questi colli posti sopra le rive del Serchio venne a pregare. Le cronache riportano che le sue predicazioni preferite con le quali strappava lacrime alle folle riguardavano la Passione di Cristo e fu proprio su uno di questi colli dove arringava la gente che fondò il suo primo convento, proprio nei pressi del paese di Mologno (dove adesso sorge l'attuale chiesa di San Bernardino). Fu però
San Bernardino (Mologno)
costretto ben presto a fuggire da quel luogo malsano, vicino al fiume Serchio, il pericolo di malaria era tangibile e si trasferì a Barga nell'odierna chiesa di San Francesco (dove sorge l'ospedale).

A Pieve Fosciana decise invece di stabilire la sua base. La popolazione donò al fraticello un terreno dove sorse il suo secondo convento e lo storico Sigismondo Bertacchi nella sua "Descritione Historica della Provincia della Garfagnana" (XVII Secolo)così scriveva:"Si dice che il convento dei Frati dell'Osservanza di San Francesco fu fondato dal Beato Ercolano, nel 1435. Lo voleva erigere vicino a Castelnuovo, ma la comunità alla quale si era rivoltò glielo negò, allora ricorse agli uomini della Pieve Fosciana che glielo concessero. In cambio lui promise loro che non avrebbero mai avuto nè peste nè tempesta nel loro territorio. Infatti questo fu vero. Dove si mise a costruire il convento non c'era acqua. Il beato Ercolano prese la zappa e dette quattro zappate da una parte dove scaturì una sorgente...". Qui insieme al suo discepolo Jacopo da Pavia iniziò a costruire questo modesto conventino (- satis humilem et pauperem- assai umile e povero) che divenne metà di pellegrini e viandanti da ogni dove. Ma come detto erano tempi di guerre e di
Ex convento San Francesco Pieve Fosciana
(foto tratta dal blog Giro-Vagando)
lotte interne e la Garfagnana grazie all'intervento di Frà Ercolano riuscì a risparmiare molte vite. La parola di Ercolano era molto ascoltata anche dai potenti locali e diverse volte molte guerre interne alla nostra valle furono scongiurate per un suo intervento. La sua popolarità fra la gente povera aumentava a dismisura proprio grazie a queste guerre evitate, la gente lo adorava tanto che l'antico cronista dell'epoca tale Romano da Firenze (teologo e storico francescano) riferisce (fra altre cose) di questo umilissimo uomo che andava in giro per le strade della Valle del Serchio con il saio rattoppato e che da tutti era conosciuto come il "Padre Santo". Nel 1439,l'amico Papa Eugenio IV lo inviò però in Egitto ed in Terra Santa con una missione francescana che aveva il compito di promuovere l'unione con i cristiani orientali. Rientrò nel 1441 e di li a poco si ricorda forse la sua più spettacolare predicazione, quando a Pieve Fosciana si caricò di una croce pesantissima e seguito da tutto il popolo si inerpicò per San Pellegrino in Alpe. Ma ormai le fatiche e i lunghi pellegrinaggi avevano minato la salute di Frà Ercolano e nel 1451 (presumibilmente il 28 maggio) circondato da fama di grande santità morì. Nel 1456 fu sepolto nella chiesa del suo convento, ma quattro secoli dopo (1856)in seguito alla demolizione del convento
Processione per il Beato Ercolano
a Pieve Fosciana 1921
(foto archivio Silvio Fioravanti)
originale, le sue reliquie furono poste nella chiesa della Pieve. Nel 1860 Papa Pio IX ne riconobbe il culto pubblico di un uomo fra i più venerati di tutta la Garfagnana.