mercoledì 29 settembre 2021

Quando in Garfagnana il funerale misurava la scala sociale...

I sociologi la chiamano "stratificazione sociale", questa brutto e
specialistico termine indica semplicemente la cosiddetta "scala sociale" che non è altro, sempre parlando in termini tecnici, lo strato sociale calcolato in base alla ricchezza, al potere e al prestigio dell'individuo. Le classi sociali sono sempre esistite, ma man mano 
che la società si dirigeva verso un'era consumistica queste due parole assunsero il segno visibile della condizione economico sociale di una persona. Vance Packard nel suo libro del 1955 "The status seekers" (n.d.r: i cercatori di status)sottolineava questo fatto e aggiungeva che il possedere alcuni oggetti metteva in risalto l'appartenenza ad un determinato gradino di questa scala sociale. Ecco allora nascere i famosi "Status symbol" e se negli anni '60 lo "status symbol" era avere una televisione in casa, nei decenni a venire le cose cambiarono; negli anni '70 per le signore la pelliccia era una vera e propria icona, negli anni'80 imperava la moda e le scarpe della Timberland erano un "must", negli anni '90 i celeberrimi orologi della Swatch erano al polso di tantissime persone, arrivò poi l'era del telefonino e degli attuali smartphone della Apple che sono l'emblema dei nostri anni. Ma una volta esistevano questi marcatori di scala sociale? Direi che le esigenze erano altre, veri e propri oggetti di culto non esistevano, le condizioni economiche erano misere soprattutto in Garfagnana, dove il pensiero principale per molti era quello di mettere un tozzo di pane sul tavolo, se si vuole  solo le signore altolocate del tempo si potevano permettere qualche sfizio legato alle mode dei primi anni del 1900, forse un capellino particolare da sfoggiare per le feste paesane, un vestito fatto con stoffa pregiata comprata a Lucca, poco altro comunque... In barba però a qualsiasi condizione sociale che uno avesse esisteva un evento in cui tutti volevano fare bella figura e in cui si cercava di dare il meglio delle proprie tasche:... il funerale di un congiunto. Il funerale era bene o male un vero e proprio momento di aggregazione, uno dei pochi direi, quindi non bisogna mostrarsi troppo restii davanti alla gente... Detto ciò vi potete immaginare cosa implicava un rito funebre.
Fin 
dalle prime ore di lutto, nella piccola vita di un paese garfagnino anche il dolore era motivo di condivisione. Quando la gente ancora moriva in casa, la morte non era una livella (come diceva Totò nella sua celebre poesia) e anche se al tempo l'espressione non esisteva la morte diventava un vero e proprio misuratore di scala sociale. Usi e consuetudini scandivano i riti funebri marcando le differenze fin dalle prime ore di lutto. “Il marchese” e “o scupatore”, del grande Totò, non sono personaggi nati per caso. Nei nostri paesi il lutto era un evento abbastanza condiviso. Più che dal passaparola o dai manifesti funebri, l’annuncio veniva dato da un drappo nero. Adornava il portoncino d’ingresso e scendeva sui due lati. Era il primo triste messaggio di lutto alla comunità. Di norma quel lembo di stoffa era semplice e sventolante ma poteva essere anche drappeggiato, fermato con cordoncini e nappe dorate. E non era solo un problema di spesa. All’apparire del drappo, partiva il passaparola e iniziava il silenzioso via vai di gente per rendere omaggio al defunto. Del lutto era partecipe la comunità e la porta di casa rimaneva accostata. Era inimmaginabile che qualcuno della
famiglia, più che al dolore, dovesse pensare ad aprire e chiudere porte. 
Le tende alle finestre e ai balconi restavano chiuse per lasciare la casa in penombra. La luce e il sole sono segni di vita, incompatibili lì dove una vita si era appena spenta. La scelta della stanza funebre coincideva in genere con la camera da letto, illuminata da qualche fioca abat-jour e dalle fiammelle fumose e tremolanti delle candele accanto al letto. Gli specchi venivano coperti con teli neri, come si usava fare da generazioni anche se nessuno sapeva perché. Di certo evitavano lugubri riflessi o vanitose distrazioni. Quando si prevedeva che un gran numero di persone avrebbe reso omaggio alla salma, si sceglieva la camera più grande della casa e, scostati i mobili, la si faceva addobbare con paramenti, tappeti, coperte broccate e candelabri dorati. L’aria si saturava presto col profumo dei fiori e della cera ardente. Il religioso silenzio ero rotto solo dal pianto dei familiari e dalla nenia delle donnine in nero che recitavano il rosario sottovoce, scorrendo fra le dita i grani del rosario. L’arrivo delle suore era segno di rispetto per famiglie molto religiose o molto benefattrici. In qualche casa appariva il registro dei visitatori, destinato alla firma o a qualche affettuoso ricordo. Era il segno che distingueva i defunti più in vista. Nato per inviare i ringraziamenti agli intervenuti senza dimenticare nessuno, in realtà era utile per vedere non solo i presenti ma anche gli assenti. Prima che fosse sostituito da apposite automobili furgonate, il carro funebre, seguito da parenti ed amici a piedi, era davvero un carro in legno, imponente, con cocchiere e cavalli e
quello era il vero segno visivo di appartenenza ad una determinata classe sociale. Il numero dei cavalli variava a seconda del livello del funerale, di prima, seconda o terza classe. Variava anche la spesa (nel 1893 un funerale di Ia classe poteva costare anche 100 lire !!!) e in base a ciò cambiava naturalmente la sontuosità della carrozza e il numero dei cavalli. La carrozza di prima classe, scelta per prestigio e massima visibilità, era arricchita da colonnine, capitelli dorati e ganci per i cuscini di fiori. Aveva il cocchiere, con la livrea nera piena di bottoni dorati, e i cavalli, due o quattro, bardati con finimenti di lusso. Nel funerale di II, quello forse più accessibile a tutti, gli addobbi erano meno sontuosi, i cavalli (due e non di più) erano parzialmente bardati a lutto e con altri finimenti rispetto ai funerali più lussuosi, i pennacchi neri sulla carrozza erano solamente due e il cocchiere per il funerale di seconda era vestito semplicemente di nero. Per quello di terza classe non erano previsti
addobbi, i cavalli erano sempre due e 
tutto era al quanto spartano e semplice. Rimane il fatto che questi cavalli procedevano con andatura lenta e solenne e, nel silenzio della strada, si sentiva solo la preghiera del sacerdote e il tonfo e ritonfo degli zoccoli che risuonavano sul selciato. Il corteo era preceduto dalla sfilata delle corone. La quantità di corone era proporzionale all’importanza del defunto o al cordoglio della comunità per la sua scomparsa. Erano portate a mano, una dietro l’altra, da amici e volontari. A volte, per qualche funerale eccellente, partecipava anche la banda musicale, che si collocava in genere davanti al carro. I musicanti in divisa procedevano inquadrati, assorti nei loro pensieri. A un segno del capobanda approntavano gli strumenti e partivano struggenti marce funebri. Usi, costumi e tradizioni di un passato lontano quando la vita nella piccola comunità garfagnina di paese significava condividere gioie e dolori. L'unica certezza per tutti era che il misterioso viaggio per l’aldilà era sicuramente in classe unica e così diventa più vera l’amara saggezza di Totò: 

"Nu rre,'nu maggistrato,'nu grand'ommo,

trasenno stu canciello ha fatt'o punto

c'ha perzo tutto,'a vita e pure 'o nomme:

tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò,stamme a ssenti...nun fa''o restivo,

suppuorteme vicino-che te 'mporta?

Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:

nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"

"Un re, un magistrato, un grande uomo quando passano questo cancello hanno perso tutto, la vita e anche il nome, tu a questo non hai ancora pensato? Perciò stammi a sentire non essere restio, sopportami, che te ne importa? Queste pagliacciate le fanno solo i vivi, noi siamo seri... apparteniamo alla morte!"

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